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Il mito di Aci e Galatea
Acitrezza (CT)
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Nella striscia di costa jonica contrassegnata dai "Faraglioni di Acitrezza" è ambientata una delle leggende più poetiche dell'antichità, quella che racconta la vicenda passionale della bella ninfa Galatea, figlia del dio marino Nereo, e del suo innamorato, il mite pastorello Aci. Secondo l'antico racconto, il rozzo ciclope Polifemo, invaghitosi della ninfa, schiacciò il rivale sotto un macigno e gli Dei, impietositi dallo strazio di Galatea, trasformarono il sangue del pastorello in un fiume che trova pace nel mare dove l'attende l'abbraccio affettuoso dell'innamorata. La fantasia ha così personalizzato, ammantandoli di poesia, l'infuriare periodico dell'Etna (interpretato dalla violenza del ciclope Polifemo), la spuma del mare (il candore della pelle della ninfa Galatea) e il fiume Aci, che scorreva nei pressi di Capomulini (il pastorello innamorato).
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Scena di Ulisse e Polifemo Villa Romana del Casale - Piazza Armerina (EN)
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Ulisse e Polifemo
Acitrezza (CT)
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La leggenda dell'incontro di Ulisse con Polifemo, che è una chiara metafora della superiorità dell'intelligenza sulla violenza, ha la sua esaltazione letteraria nella "Odissea".
Il poema omerico fu scritto circa sette secoli prima della nascita di Cristo, ma con ogni probabilità riprese leggende che già si tramandavano popolarmente da epoche precedenti.
Ulisse, nel suo pellegrinaggio lungo il Mediterraneo per tornare nell'isola di Itaca dopo l'assedio di Troia, approda in un'isola, la "Terra dei Ciclopi", dove chiede ospitalità al gigantesco e selvaggio Polifemo. Il ciclope, però, gli uccide alcuni compagni e li divora. Per salvarsi, Ulisse fa ubriacare di vino il rozzo gigante, gli acceca l'unico occhio e così può tornare ad imbarcarsi. Inutilmente il ciclope accecato tenterà di colpirlo lanciandogli come massi le cime di alcuni monti identificate dalla leggenda nei "Faraglioni di Acitrezza".
L'autore della "Odissea" aveva scritto che la "Terra dei Ciclopi" era un'isola del Mediterraneo: fu un poeta del quinto secolo avanti Cristo, Euripide, nel dramma satiresco "Ciclope", a localizzare la "Terra dei Ciclopi" nella fascia costiera che separa l'Etna dal mare.
La leggenda passò poi nella letteratura romana e venne ripresa da Virgilio che nel libro III della "Eneide" immaginò una sosta di Enea in Sicilia durante il viaggio da Troia verso il Lazio. L'esule troiano -secondo i versi di Virgilio- approdò vicino all'Etna e qui incontrò un ex compagno di Ulisse, Achemenide, il quale gli raccontò il modo in cui Ulisse aveva sconfitto Polifemo.
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I Gioielli di Venere Tirrenica
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I Gioielli di Venere Tirrenica
Arcipelago Toscano (LI)
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Un'antica leggenda narra che quando la Venere Tirrenica nacque dalle onde del mare, si ruppe il gioiello di cui
la dea era adorna.
Il diadema e le sue gemme caddero in acqua trasformandosi nell'Elba e nelle altre isole dell'Arcipelago Toscano.
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La maga Circe, dipinto di D. Dossi (1489 circa).
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La Maga Circe
Circeo
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Circe era una maga con molti e straordinari poteri che viveva sull’isola di Eea, più tardi identificata da alcuni autori con capo Circeo sulla costa occidentale dell’Italia. Trasformava i suoi nemici e tutti quelli che la offendevano in animali.
Omero la chiama dea e descrive la sua dimora a Eea, isola dell’Alba, come un bellissimo palazzo che si eregeva nel mezzo di un fitto bosco; tutt’intorno alla casa leoni e lupi, vittime delle arti magiche di Circe, terrorizzavano i visitatori. La Circe omerica è ricca del fascino delle ambiguità: dea tremenda, donna dalla voce limpida, maga dai molti farmaci.
Odisseo divide i compagni in due gruppi e ne invia uno in esplorazione, ma essi cadono vittime degli incantesimi di Circe che li trasforma in porci. Odisseo parte in loro soccorso e nella foresta incontra il dio Ermes, il quale lo rende immune alla magia. Egli così può penetrare nella casa della maga e renderla innocua.
L’episodio costituisce la più ampia concessione al mondo magico che si trovi in Omero: la magia infatti generalmente non è presente nei racconti epici, in quanto elemento arcaico.
E’ importante anche osservare che la magia nel mito greco è patrimonio esclusivo della donna. Si assiste dunque a una divisione abbastanza netta dei ruoli: l’uomo è indovino e profeta, mentre la donna è maga.
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Scilla e Cariddi
Provincia di Messina
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La mitologia dello stretto è molto ricca di fatti legati agli dei e al mare. Già la nascita della Sicilia è legata ad una forconata assestata da Nettuno all'Italia. Il culto di Nettuno fu molto forte (tanto che gli vennero dedicati tre templi) e a lui è dedicata una fontana, in cui Scilla e Cariddi sono incatenati.
La forma del porto è legata alla leggenda dell'evirazione di Urano, da parte del figlio Cronos, con una falce di selce. Il figlio dopo l'operazione buttò nel mare di Messina l'arma, che si trasformò nella lingua caratteristica del porto. Orione venne considerato una specie di fondatore della città, grazie alla sistemazione che diede al porto e al capo Peloro (le barriere di puddinga presenti nei due luoghi sono opera sua?).
Sicuramente il mito di Scilla e Cariddi è quello più famoso. Le due donne sono state vittime di fatti atroci e destinate al controllo delle sponde dello stretto, con l'intento di ostacolare il passaggio ai naviganti.
Cariddi, che significa vortice, fu punita per aver rubato dei buoi ad Ercole mentre attraversava lo stretto. Giove la scagliò nello stretto e la trasformò in gorgo, destinato a inghiottire e rifluire i flutti tre volte al giorno. Questi movimenti imponenti di acqua trovano riscontro nei gorghi che nello stretto sono molto evidenti in prossimità di Capo Peloro con il flusso detto bastardo e di Capo Faro e Punta Sottile con il reflusso detto garofalo. In altri luoghi il mare spesso è in gran subbuglio, come nei pressi di San Raineri.
Scilla, che a seconda dell'etimologia può significare pericolo o cane, fu punita con una pozione venefica, preparata dalla maga Circe e gettata, nella fonte in cui soleva bagnarsi, da Glauco. Il giovane figlio di Nettuno, era follemente innamorato della bellissima Scilla, ma non essendo corrisposto volle vendicarsi con questo gesto. La povera Scilla, appena si bagnò, fu trasformata in un mostro con 12 artigli, 6 teste e una muta di cani ululanti (simbolo delle onde che si infrangono nelle grotte) vincolati alla sua cintura. Per l'orrore si buttò nelle acque dello stretto, dando il nome a quella località calabrese, e per vendetta si impegnò a terrorizzare i naviganti di passaggio, compreso Ulisse. Quando questi passò, Scilla riuscì a vendicarsi nei confronti di Circe catturando sei marinai d'equipaggio, che divorò.
Il mito di Scilla e Cariddi, nella città di Messina è ricordata con la fontana di Nettuno del Montorsoli.
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Le Sirene
Golfi di Napoli e Salerno
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La leggenda racconta che le mitiche Sirene dimorarono nel mare dei Golfi di Napoli e di Salerno. Esse ammaliavano con il loro richiamo seducente i naviganti di passaggio, i quali soggiogati da quel canto irresistibile, perdevano il controllo delle imbarcazioni, andandosi a schiantare sugli scogli, ma Ulisse sfuggì abilmente al loro tranello facendosi legare all’albero della nave dopo aver tappato con la cera le orecchie dei suoi marinai, affinché non udissero il loro canto. Le tre Sirene, Partenope, Ligea e Leucosia per la disperazione si gettarono in mare tramutandosi in scogli. Così nacquero le isole Sirenuse o Li Galli. Il culto delle Sirene fu certamente osservato dai popoli dell’antichità e nella Penisola Sorrentina era stato edificato un grande Tempio ad Esse dedicato. La diffusione del culto, nella zona, è stata confermata dal ritrovamento, nella Necropoli del “Deserto”, di alcuni vasi raffiguranti proprio le Sirene. L’ubicazione di questo Tempio non è stata mai accertata, studiosi ed archeologi lo hanno cercato invano, avendo come unico riferimento le scarne indicazioni riportate da alcuni scrittori dell’antichità, quali Stazio e Strabone.
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Ingresso dell'Antro della Sibilla
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La Sibilla Cumana
Cuma (NA)
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Enea era profugo e dopo essere stato a Cartagine dalla regina Didone, e dopo aver celebrato i giochi funebri in onore del padre Anchise, si recò a Cuma e si apprestò a chiedere alla Sibilla ciò che gli dei ancora
gli riservavano. Ella, alla vista di Enea, cominciò ad invocare il dio Apollo che entrò nel suo corpo e parlava al suo posto, mentre la sibilla mutò il volto. Nel frattempo Enea pronunciò una preghiera attraverso la quale chiedeva che i Troiani trovassero rifugio sicuro nel Lazio e che la mala sorte non li accompagnasse, dato che avevano già combattuto a lungo contro gli Achei. Se questo gli fosse stato concesso, avrebbe costruito un nuovo tempio per il Dio Apollo e avrebbe istituito dei giorni festivi in suo onore. Alla Sibilla invece promise che avrebbe conservato i suoi oracoli nei libri chiamati sibillini.
E pregò di non affidare le sue profezie alle foglie, perché il vento se le sarebbe portate via. Chiedeva invece alla Sibilla di parlargli personalmente, ma ella non riusciva a scacciare la presenza del dio dal suo corpo. Il dio Apollo rispose che i Troiani non sarebbero mai voluti arrivare nel Lazio, poiché li attendevano numerosissime guerre. Enea poi avrebbe dovuto combattere contro un altro uomo forte come Achille, questi era Turno, re dei Rutuli.
La causa di tutto ciò sarebbe stata Lavinia, figlia del re Latino. Ella era stata promessa sposa sia ad Enea sia a Turno.
La lunghezza dell’antro della Sibilla è di
circa 135 m., molto probabilmente questo scavo
fu effettuato dai primi abitanti della zona, gli Osci, a forma di parallelepipedo per la base
e una parte superiore a sezione trapezoidale.
Lungo la parete destra si aprono sei finestre anch'esse a forma di trapezio. Alla fine dell’antro arriviamo alla stanza degli oracoli. Si compone di tre vani disposti a formare, rispetto al corridoio principale, i bracci e la parte superiore di una croce latina. La figura della Sibilla, pur essendone stata verificata l'esistenza in epoca storica, rimane, ancora oggi, misteriosa ed affascinante. Molto probabilmente si trattava di donne epilettiche, infatti questa malattia veniva detta "morbo sacro" e coloro che ne erano affetti erano temuti e rispettati. Narra la leggenda che il dio Apollo si fosse innamorato di lei e le avesse offerto di realizzare qualunque desiderio; lei domandò allora di vivere tanti anni quanti erano i granelli di sabbia che poteva stringere nel pugno, e così diventò tanto vecchia che non si volle mai più far vedere in pubblico. In realtà le Sibille dovevano essere più di una così che i pellegrini avrebbero creduto alla
prodigiosa longevità della Sibilla Cumana per generazioni e generazioni. Gli oracoli erano assolutamente incomprensibili forse perchè il linguaggio dei locali era sconosciuto sia ai greci che ai romani.
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Capri vista da Via Partenope
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La Sirena Partenope
Napoli (NA)
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La sirena Partenope, non essendo riuscita a farsi amare da Ulisse poiché insensibile questi al fascino del suo canto, decise di gettarsi nei mari del Mediterraneo annegando nel Golfo della città partenopea. Dalla ninfa, infatti, prese nome di Partenope l'antico villaggio che in futuro sarebbe diventato Napoli, chiamata poi appunto Neapolis dai coloni attici che la rifondarono dopo che i Cumani, gelosi della sua cresciuta potenza, la distrussero.
Dalla collina di Posillipo, che in lingua greca ha il significato di “cessazione del dolore”, si intravede, nell’isola di Capri, il profilo del viso di Partenope la quale riposa, appunto, senza più sofferenza.
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La Cavalcata di Aleramo
Monferrato
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Nel 960 l'imperatore Ottone aveva promesso ad Aleramo, genero ritrovato, tutta la terra che egli sarebbe stato capace di ottenere segnandone i confini in tre giorni e tre notti di cavalcata. Nasce il Monferrato, dall'entroterra savonese al Chivassese. Ottocento anni di indipendenza hanno lasciato traccia in chiese e palazzi e nella fierezza degli abitanti.
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Il voto incompiuto
Cornedo e Pietralba (BZ)
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Lasciate le ultime case di Cardano, la Val d'Ega, quasi all'improvviso, si restringe fra due ardite pareti di roccia porfirica. In fondo, incassato fra la strada e la pendice scoscesa del monte, scorre, scrosciando, il torrente Ega. Il paesaggio è crudo, aspro, vivo di una sua particolare e suggestiva bellezza. E quasi a guardia della forra, ardito sulla sommità del bastione roccioso, si erge Castel Cornedo. Massiccio, ferrigno, come germogliato e cresciuto sulla roccia stessa, appare il maniero a chi lo guardi dal fondovalle. Nei tempi antichi viveva in quel castello un cavaliere con la sua famiglia e la numerosa servitù. Tutt'intorno si estendevano le sue terre. Al piano, i campi e i vigneti rigogliosi, sulle alture i verdi pascoli e i boschi di conifere. Sparse lungo il fianco e al piede del monte stavano le casupole dei contadini che lavoravano quelle terre. Dal suo nido di falco il castellano dominava le strade e i sentieri che incrociavano al piano, là, dove le due valli - la Val d'Isarco e la Val d'Ega - confluiscono. Lassù nel suo maniero egli si sentiva sicuro; era abbastanza temuto per tenere a bada i nemici, abbastanza generoso per tenersi fedeli gli amici. Il Signore di Castel Cornedo, il cavaliere orgoglioso ed audace, si vantava di non conoscere la paura. Ma un giorno una terrificante notizia giunse al castello. A Bolzano era scoppiata la peste. La gente moriva; intere famiglie perivano vittime dell'orribile morbo. Le case si svuotavano paurosamente e il male dilagava ormai nei sobborghi e nel contado; la «morte nera» mieteva, inesorabile e crudele, larga messe di vite umane. Le campane non suonavano più e anche il cielo incombeva plumbeo sulla terra in gramaglie. La costernazione e il terrore regnavano in città. Anche nel castello entrò la Paura; s'infiltrò subdola fra le spesse e munitissime mura, senza far rumore. Il cavaliere brillante, l'uomo dalle audaci imprese, cominciò a non sentirsi più tanto sicuro; si vide solo, indifeso di fronte ad un nemico che non conosceva, che non portava né elmo, né corazza, ma che sapeva uccidere senza pietà. Che cosa potevano contro di lui le solide mura, le torri, le schiere di armati? Ironia! Nulla. Nell'imminenza del pericolo, il cavaliere divenne umile, e comprese che altrove egli doveva cercare aiuto e difesa. In preda ad un'angoscia disperata si rifugiò, solo, nella piccola cappella del castello e là proruppe in un grido d'invocazione: «Madonna Santa, aiutateci! Se tu risparmierai il castello dalla peste, farò un pellegrinaggio con tutta la mia gente fino a Pietralba!» Si videro giorni d'ansia, ma il subdolo male non riuscì a superare le mura. Sembrava che un difensore invisibile e potente avesse preso a proteggere gli abitanti. Come Dio volle, la pestilenza, un giorno, cominciò a diminuire e a poco a poco cessò del tutto. La vita riprese nella città e nei villaggi. I sopravvissuti, gli scampati, tornarono alle loro attività, alle opere consuete; gli artigiani cominciarono a riaprire le loro botteghe, i mercanti tornarono ad esporre alla luce le loro mercanzie, i contadini posero mano di nuovo alla vanga e alla zappa. Le strade, le piazze della città si fecero animate, vive; riflettevano nel movimento, nell'animazione l'incontenibile gioia di coloro che, dopo aver vissuto ore d'incubo, si ritrovavano a salutare il sole e la vita. Cessato il pericolo, il Signore di Cornedo dimenticò ben presto le ore angosciose che lo avevano fatto trepidare, dimenticò pure la promessa con cui aveva ottenuto dalla Madonna la salvezza per sé e per i suoi. Nel castello ripresero le feste, le partite di caccia, tornò l'allegria e la baldanza. Com'erano ormai sbiaditi nella memoria i giorni della sventura e del pericolo! A che ricordarli, se ora la vita sorrideva invitante, così ricca di promesse e di speranze? Ma la morte gelida ed esosa non dimenticò; furtivamente giunse al castello, silenziosa penetrò entro le mura. Il morbo funesto non risparmiò nessuno; mute le pietre assistevano a tanta tragedia. Il castello rimase disabitato; invaso da erbacce il gran cortile, vuote le scuderie, deserte le sale, un giorno echeggianti voci festose, di dolci melodie di menestrelli. Nelle torri vennero ad abitare i gufi e trovarono ospitalità intere famiglie di pipistrelli. La gente del luogo, passando da quelle parti, lanciava uno sguardo pieno di sgomento al sinistro maniero e girava al largo. Ma una notte… Una notte i morti del castello ritornarono. Quasi obbedendo ad un arcano ed irresistibile richiamo, si dettero convegno fra quelle mura desolate. Non mancava nessuno. Spettrali, avvolti in funerei mantelli, riempirono il grande cortile. Senza una voce, senza un cenno, ad un tratto si misero in fila e in processione uscirono. Davanti, alto, imponente, cavalcando lo scheletro di un cavallo, procedeva il Signore di Cornedo. La lugubre teoria degli scheletri si snodava lungo il sentiero della montagna e sembrava non aver mai fine. Al loro passaggio uscivano dai cespugli, di tra i massi, scheletri di cani, di gatti, perfino di topi e di ratti; anche questi si univano ai primi, seguendoli, nel loro viaggio notturno. Dov'erano diretti? Scesero nella valle, s'inerpicarono sul fianco del monte opposto, traversarono pascoli e boschi; andavano a Pietralba ad adempiere la promessa che non avevano mantenuto in vita. Ora, finalmente, erano in pace con se stessi e con Dio. Perdonati ed assolti, i morti tornarono alle loro tombe vegliate dal silenzio e dalla pietà degli uomini.
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La Storia di un Rubino
Lives (BZ)
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Alto, sullo spessore di roccia che si protende all'imbocco della Vallarsa, stava, una volta, un castello. Là abitarono per molto tempo i nobili «Signori di Liechtenstein» che, nei lontani secoli dell'età di mezzo, ebbero potere e signoria su quelle terre dove oggi si estende, con le campagne circostanti, l'abitato di Laives. Ma l'inaccessibile maniero ora non esiste più: diroccate, abbattute le torri e le mura, non rimane di tanta potenza che un cumulo grigio ed informe di pietre. Ma spesso anche le cose più umili, più dimenticate, hanno una voce e sanno parlare, a loro modo, al cuore, alla fantasia dell'uomo: e furono, forse, le antiche rovine, i ruderi sepolti del tempo, ad ispirare la fresca leggenda che vi voglio narrare. Visse, un tempo, nel castello il nobile Pietro di Liechtenstein. Dagli avi, venuti certamente dal nord, come testimonia il nome del casato, aveva ereditato le numerose e fertili terre che formavano uno dei più bei feudi della valle. Pietro era nato in quel castello appollaiato fra le rocce come un nido di falco, vi era cresciuto e lo amava come amava le sue terre, di cui conosceva ogni palmo, ogni angolo, ogni casupola, ogni sentiero. Qui egli amava vivere e, non appena la sua dura ed aspra vita di uomo d'armi glielo consentiva, tornava tra le vecchie mura, tra le cose care ed i volti noti. Dimessa la pesante armatura, via a cavallo per viottoli e sentieri o lungo le rive del Rio di Vallarsa a respirare, felice, la fresca aria natia. Pietro di Liechtenstein era generoso e buono, trattava bene la sua gente, entrava sovente nelle case dei suoi contadini per conoscere più da vicino la loro vita, per sovvenire e soccorrere i loro bisogni. Tutti sapevano che la via che conduceva al castello era sempre aperta ai poveri, ai diseredati, che, numerosi, ricorrevano a lui per avere aiuti e protezione. E la fama delle chiare e nobili virtù del Signore di Liechtenstein correva di castello in castello, di valle in valle. Com'era tepida l'aria in quel lontano giorno di primavera, quando Pietro, accompagnato dal fedele palafreniere, uscì dal castello per la solita cavalcata! Già gli alberi si rivestivano del verde tenero delle foglioline appena nate e il cielo sembrava dipinto a nuovo tant'era terso ed azzurro. Giunto in fondo al sentiero, Pietro si voltò: anche il vecchio e severo castello sembrava meno arcigno in quel quadro di pura bellezza. Dai cespugli, dalle siepi, venivano sommerssi cinguettii, frulli improvvisi, qualche uccellino azzardava un richiamo, un gorgheggio, subito ripreso da un altro, da un altro ancora, ed era una festa tutt'intorno. Pietro cavalcava felice. Anche il cavallo, un bel morello dall'occhio vivo ed intelligente, sembrava godere di quella giornata di primavera. Di tanto in tanto sollevava la testa, e con le froge dilatate e frementi respirava quella bell'aria che sapeva di erbetta fresca, appena nata, di fiorellini in boccio, di sole. A malapena s'adattava ad andare al passo, il focoso destriero, impaziente di lanciarsi al galoppo per la campagna, ma il cavaliere teneva salde le briglie e ne moderava prudentemente l'andatura. Arrivarono così, senza quasi accorgersene, nel luogo dove c'era un mulino. Il posto era solitario e deserto: non una casupola, non una capanna, ma il bosco fitto e scuro e la voce sonora del torrentello che scorreva vicino. Sostarono. D'un tratto di tra gli alberi videro uscire un nano, un omino alto una spanna, con una lunga barba bianca, vestito di rosso da capo a piedi. I due si guardarono sorpresi e, divertiti, stettero a vedere, o meglio a spiare le intenzioni e le mosse dell'omino. Questi, per nulla intimorito dalla presenza dei due uomini, si fece avanti, poi - rimasto un attimo soprappensiero - si avvicinò decisamente a colui che per la ricchezza delle vesti e la dignità del portamento gli sembrava essere il capo, il signore, e gli chiese l'elemosina. Sorpreso dall'audacia del nano, il palafreniere fece per scacciarlo, ma il signore con un cenno della mano gli ordinò di ritirarsi. Il cavaliere guardò con simpatia e benevolenza lo strano personaggio e levata di tasca una moneta d'oro, la lasciò scivolare nella mano rugosa che gli si protendeva davanti. Rise di gioia il nano accarezzandosi la bella barba candida e, riposta la preziosa moneta nella tasca sinistra del suo giubbottino, levò dalla destra un magnifico rubino che porse al signore con un profondo inchino. Il cavaliere non sapeva staccare gli occhi dalla gemma meravigliosa, che splendeva con mille preziosi scintillii nel palmo della sua mano. Nell'accomitolarsi, il nano raccomandò al signore di custodire gelosamente la gemma. «Essa - sussurrò con aria misteriosa - porterà fortuna a te ed ai tuoi discendenti»: e scomparve rapido nel bosco. Felice dell'augurio, Pietro avrebbe voluto sapere ancora molte cose dal nanetto; smontò da cavallo, s'inoltrò tra le piante, lo cercò a lungo, ma l'omino s'era ormai dileguato. Pietro tornò al castello al galoppo. Non vedeva la strada tanto il suo pensiero correva, volava lontano. Riudiva ancora negli orecchi la voce un po’ roca del nano: .. «conserva gelosamente la gemma, che porterà fortuna a te ed ai tuoi discendenti». Chiamò da Bolzano un celebre orefice e fece incastonare il rubino nello stemma di famiglia. Il rosso vivo della gemma impreziosita, ora, con lo scintillio dei suoi riflessi, l'oro dei ceselli e dava vivezza ai colori degli antichi simboli araldici. Ben a ragione, da allora il castellano potè chiamarsi «Signore di Liechtenstein». Con lo stemma anche il nome passò alla sua stirpe che ebbe, un tempo, splendore e fortuna. La profezia del nano della Vallarsa si era avverata.
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Il cavaliere e il drago
Val Badia e di Marebbe (BZ)
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Massiccio, ferrigno, tutto torrioni e dirupi, si erge, fra San Vigilio di Marebbe e Badia, il «Sasso della Croce». Lassù, rintanato fra le rocce, viveva, una volta, un terribile drago. Occhi di fuoco, aveva l'orribile mostro, zampe di leone, testa e corpo di serpente e sul dorso portava due grandissime ali che, aperte e spiegate, oscuravano il sole. Dal suo inaccessibile covo, il mostro spiava la preda - uomo od animale che fosse - e quando questa, ignara, gli giungeva a tiro, si levava repentino in volo e con gran strepito d'ali, sibili e fischi laceranti, le piombava addosso divorandola. Giorni di terrore si vivevano nella valle, un dì sì ridente e tranquilla. Molte famiglie già portavano il lutto e chi non lo portava guardava con angoscia, con sgomento all'incerto domani. Nessuno più poteva sentirsi sicuro della vita e la paura teneva tutti i prigionieri entro la stretta cerchia del villaggio. I mandriani non salivano più col gregge ai verdi pascoli dell'Armentana, né i boscaioli si azzardavano a recarsi a tagliar legna nei boschi, chè dall'alto il mostro dall'occhio di fuoco tutto vedeva, pronto a calare all'improvviso sulla vittima. No, nessuno osava più allontanarsi dal villaggio, nessuno. Ad ogni ora del giorno centinaia di occhi scrutavano ansiosi le grige rocce del «Sasso della Croce» e, quando la mole scura del drago s'affacciava alla bocca dell'antro e il primo sibilo fendeva l'aria, un grido d'allarme si levava dai casolari: era il segnale. Tutti allora si rinchiudevano in casa, si sprangavano porte e finestre; in un battibaleno il villaggio rimaneva deserto come se vi fosse passata, con una ventata, la morte. Dietro le porte, le finestre, la gente piangeva e pregava, mentre urli orrendi riempivano sinistramente l'aria. Saziata l'orribile fame (la vittima purtroppo non mancava mai) il mostro tornava alla sua dimora tra le rocce e tutto si rifaceva tranquillo. La gente riapriva le case, momentaneamente felice; gli uomini mandavano fuori il bestiame dalle stalle, le donne tornavano a sfaccendare per casa e i bimbi riprendevano i giochi interrotti, sotto il vigile occhio materno. Così ogni giorno, da settimane, da mesi, ormai … Ardimentosi cavalieri, uomini d'arme non avevano esitato ad affrontare il mostro con le armi, ma nulla avevano potuto i darli acuminati, nulla i colpi di lancia contro l'impenetrabile corazza che proteggeva il mostro in ogni parte del corpo. Tutti erano periti nell'impari lotta e le loro ossa erano rimaste laggiù, ai piedi della montagna. Ma così non poteva durare e, un giorno, gli abitanti dei villaggi più esposti alla minaccia del mostro, decisero di abbandonare le loro terre per cercare altrove asilo e salvezza. Nottetempo, in lunghe file nere, tristi e silenziosi, trascinandosi dietro gli animali, i montanari lasciarono i loro casolari e raggiunsero il fondovalle. Lassù non rimase anima viva. Quando il drago si vide mancare la preda, estese su altre contrade, su altri villaggi il suo triste dominio e la schiera delle vittime sembrava non aver più fine. Ma un giorno … Un giorno si sparse nella valle la notizia che Prack il prode dei prodi, avrebbe affrontato il drago in combattimento. La speranza rinacque nel cuore della gente sventurata, perché tutti sapevano chi era Prack e tutti conoscevano il suo coraggio, il suo ardimento. Prack era un giovane cavaliere di Marebbe, forte e generoso; nessuno meglio di lui sapeva maneggiare la spada e tirar d'arco e chi l'aveva visto battersi in Terra Santa per la Croce di Cristo, narrava di lui cose mirabili. Come ogni cavaliere degno di questo nome, egli aveva eletto a suo celeste patrono San Giorgio, il Santo Cavaliere, di cui, si diceva, avesse avuto in retaggio la sella, una sella prodigiosa che conferiva, a chi l'usava, lo straordinario potere di sgominare qualunque avversario per quanto potente ed agguerrito egli fosse. Udì il cavaliere le voci imploranti che disperatamente lo invocavano? Certo, si, e si accinse alla prova suprema. Bisognava vincere, abbattere il mostro, salvare la sua gente, la sua terra, a qualunque costo. Si armò d'arco e di frecce il cavaliere, e sellato il suo fido morello, partì a spron battuto alla volta di Badia. Correva, volava il cavaliere, stretto al suo cavallo per sentieri scoscesi, per boschi e valloni, via, via, come portato dal vento. Giunse, così, ai piedi del «Sasso della Croce» e lì sostò. L'immane parete rocciosa gli si ergeva contro, grigia e fredda con le sue crode, i suoi dirupi, come un'enorme muraglia elevata paurosamente verso il cielo. Prack alzò la visiera dell'elmo, puntò lo sguardo diritto verso la bocca dell'antro. Subito, il mostro, sentì nell'aria la presenza dell'uomo, del nemico ed enorme, spaventoso si spinse fuori con gli occhi balenanti, le fauci spalancate, battendo furiosamente la roccia con le enormi ali nere, che tutta l'aria intorno ne era sconvolta. Prack non tremò, incoccò fulmineo una freccia e tese l'arco; con un sibilo sottile, sferzante la freccia partì, andando a conficcarsi per intero nel cuore del mostro. Un urlo orrendo squarciò l'aria, si ripercosse sinistro per gole ed anfratti, moltiplicato, ingigantito dall'eco e il mostro si abbattè, contorcendosi, sul ghiaione. Lì giacque immobile, mentre un fiotto di sangue nero, infuocato, gli usciva dalla ferita, segnando una scia viscida e fumigante sulle pietre. Il mostro era morto. La gente della valle era libera, dunque. Una gioia grande, mai provata prima d'allora, riempiva, gonfiava il cuore dell'eroico cavaliere. Con l'aiuto di Dio e di San Giorgio ancora una volta aveva vinto. S'inginocchiò il giovane sulle pietre, al cospetto della montagna non più nemica, e mai preghiera più fervida, più riconoscente uscì dalle sue labbra. E Prack tornò al suo castello. Giù nella valle, intanto, la gente attendeva con ansia e trepidazione un messaggio, una notizia. Che era avvenuto al cavaliere? Era ancora vivo? O era rimasto lassù, stritolato fra gli artigli del mostro? Chi diceva una cosa, chi ne diceva un'altra e la disperazione e la speranza lottavano fra loro nel cuore di quei poveretti. Ma nessuna notizia, nessun segno venne dal monte ed i giorni ripresero a scorrere incerti e squallidi nella valle. Un giorno un giovane pastore osò rompere il cerchio desolato della pianura; radunò il suo gregge e salì verso i pascoli alti. La curiosità, l'audacia, lo spinsero a salire più su, sempre più su, finchè si trovò ai piedi del «Sasso della Croce». Là, sul ghiaione, il pastore vide una gran carcassa, un mucchio d'ossa, alto così, bianco, sotto il sole. Era quanto rimaneva del drago. Fugata la paura, la vita rifiorì nella valle. I profughi tornarono ai loro villaggi, ripresero sereni i lavori consueti. Il ricordo dei giorni tristi a poco a poco svanì, ma viva rimase tra gli abitanti della Val Badia la memoria dell'eroico cavaliere di Marebbe. Sul posto stesso, dove fu ucciso il drago, venne eretto più tardi un cippo, un'umile pietra rozzamente scolpita, che, fino a non molti anni fa, si dice, esistesse ancora.
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Spina, la città sommersa
Comacchio (FE)
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Nella zona a nord-ovest di Comacchio, e precisamente dove ancora in gran parte il terreno è paludoso, si estendeva più di 2000 anni fa Spina, una città floridissima. Sorgeva sul mare, le sue case poggiavano sulle palafitte e aveva un porto attivissimo e ogni giorno arrivavano dall'Oriente navi cariche di mercanzie. Era così bella e ricca che a quei tempi nessuno avrebbe potuto sospettare che un giorno sarebbe sparita dalla faccia della terra. Ma Spina giorno per giorno scompariva, interrata dal fango che il Po portava dalle montagne, finchè una terribile alluvione la sommerse completamente. Da allora i secoli passarono, e anche il nome di Spina cadde nel buio del tempo, finchè non fu più che un ricordo. I suoi fondatori furono forse i Pelasgi venuti dalla Grecia o forse i Galli o forse ancora gli Etruschi, calati dagli Appennini in cerca di terra da coltivare. Certo è che la città vide la luce circa sette od otto secoli a.C.
Nel 1922, durante un'opera di bonifica, vennero prosciugate le valli minori attorno a Comacchio. I lavori ebbero inizio nella Val Trebba, proprio all'estremo limite orientale della Provincia di Ferrara. Ed ecco affiorare i primi resti della città antica. Gli scavi, fatti poco dopo, portarono alla scoperta di oltre 1200 tombe, nelle quali gli operai trovarono anfore, vasi di ceramica, braccialetti, anelli, oggetti finemente lavorati che gli Etruschi, ed i popoli che li precedettero, usavano porre nei sepolcri dei loro cari. Sorse così il Museo di Spina ed il prezioso materiale venne ordinato nelle ariose sale del Palazzo di Lodovico il Moro, in Ferrara. I lavori vennero ripresi dopo la guerra e precisamente nel 1940 sotto la direzione del giovane archeologo professor Nereo Alfieri, il quale scoprì nella Valle Pega una nuova necropoli, più grande della prima. Nei giorni che seguirono, sorvolando la zona, il professor Alfieri riuscì ad individuare la pianta della città come l'avevano descritta gli storici grechi e romani.
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Il Gallo Nero del Chianti
Chianti (FI e SI)
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XIII secolo. Senesi e Fiorentini erano ormai stanchi di farsi battaglia così decisero che il reciproco confine sarebbe stato tracciato nel punto in cui due cavalieri delle opposte fazioni, partiti al canto del gallo, si sarebbero incontrati. I Fiorentini fecero digiunare il loro galletto e quindi nel giorno della “sfida” si mise a cantare ben prima per fame. Fu così che il cavaliere fiorentino partì molto in vantaggio sul rivale, conquistando gran parte del Chianti. In onore del pennuto affamato, ma portafortuna, fu scelto il Gallo Nero come simbolo del territorio chiantigiano.
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Panorama del castello Fieschi dalla Tavola Rotonda
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La Tavola Rotonda a Savignone
Savignone (GE)
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In una Savignone barocca, quando i fasti del castello si erano spenti, la nuova dimora dei Fieschi sulla piazza cominciava ad essere un luogo ricercato di divertimento per la nobiltà genovese.
A guardia del palazzo marchionale vigilavano, potenti, i Cavalieri della Notte agli ordini del Comandante Caiano Spinola e del suo fido Messer Uccio da Cassano. Era giunta, intanto, da Blois, la splendida Marchesa Ivonne, promessa, ma costretta, sposa di Gian De' Medici. Messer Uccio, affascinato, cadde ben presto innamorato di costei, ricambiato. Passionale fu l'amore, ma una serpe riferì la novella al futuro sposo: grande lo stupore di costui, che cercò subito la sfida. Fuori dal borgo, alle sei del dì, un acceso combattimento all'ultimo sangue sancì la vittoria dei Cavalieri della Notte e Uccio coronò il suo sogno d'amore.
A ricordo venne edificata la Tavola Rotonda, simbolo secolare del trionfo dell'amore.
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La Morte di Teodorico
Verona (VR) e Stromboli (ME)
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Ad Odoacre, re degli Eruli, che aveva scelto Ravenna come capitale del suo regno, successe Teodorico, il grande re degli Ostrogoti. Egli arricchì la città di nuovi monumenti e le diede una splendida sistemazzione architettonica. Inoltre favorì la cultura e molto si adoperò per ottenere la pacifica convivenza del suo popolo con i Latini. Nell'ultimo periodo della sua vita, però, divenne assai sospettoso; si sentiva ovunque minacciato ed ovunque vedeva congiure contro di lui. Attuò allora feroci persecuzioni di cui furono vittime, fra gli altri, i filosofi Boezio e Simaco, già consiglieri dello stesso re. Sulla morte di Teodorico, avvenuta improvvisamente all'età di 72 anni, nacquero parecchie leggende. Eccone due:
Teodorico, re degli Ostrogoti, ebbe una lunghissima e movimentata esistenza: battaglie, conquiste, vittorie, tradimenti e impiccagioni, viaggi, gare, feste, memorabili battute di caccia… Ma, dopo aver regnato in Ravenna per trentatre anni, la vecchiaia lo costrinse a ritirarsi nel suo cupo castello di Verona. E qui, passeggiando silenzioso e malinconico sugli spalti, acciaccato dall'età, debole e triste, non gli rimaneva purtroppo che di riandare col ricordo ai bei periodi della sua giovinezza, alle ardite imprese, agli atti di audacia e di scaltrezza… Non tutto era stato onesto ed esemplare, infatti, nella sua vita. Non tutto era bello da ricordare… Con insistenza gli ritornavano alla memoria le stragi, i popoli vinti, i propri uomini fatti trucidare ingiustamente… Questo, soprattutto lo tormentava. E dovunque rivedeva l'immagine di Severino Boezio, l'eroico martire. Dovunque gli appariva lo spettro di Simmaco, il più illustre dei suoi senatori… Il rimorso avvelenava gli ultimi giorni della sua vecchiaia, il ricordo delle sue vittime l'ossessionava notte e giorno.
Una volta, i servi gli portarono in tavola un grosso pesce. Dopo averlo fissato un po’, Teodorico l'allontanò improvvisamente da sé, preso da un enorme spavento. -Si muove!-, gridava, coprensosi il viso. - Ho visto che gira gli occhi e digrigna i denti! E tremando di paura, pallido e stravolto, spiegò che nel pesce aveva riconosciuto l'immagine di Simmaco, fatto decapitare da poco. Fu preso, trasportato in camera sua e messo a letto. Panni caldi e coltri gli furono messi addosso; accorse il medico di corte; ma nulla riuscì a riscaldare e a dar un po’ di pace al poveretto. La visione del pesce, che roteava gli occhi e digrignava i denti, non l'abbandonò più. Infine, sentendosi prossimo a morire, il vecchio re si affrettò ad eleggere suo successore il nipote Atalarico, di soli nove anni. Dopo tre giorni e tre notti di angosciosa agonia, Teodorico morì. Aveva settantadue anni.
Questa press'a poco la realtà. Ma sulla morte del barbaro re c'è anche una fosca leggenda, cantata da Giosuè Carducci in una bellissima poesia. Eccola: Teodorico, che viveva malinconico nel suo castello di Verona, guardava, un giorno, il dolce paesaggio sottostante. Invano il suo scudiero cercava di rallegrarlo, ricordandogli i bei tempi in cui, ancor giovane e gagliardo, cacciava pei boschi… Egli era assorto così nei suoi pensieri, quand'ecco il suono di un corno, nelle vicinanze, lo fece trasalire. Poi, fulmineo, un cervo dagli zoccoli di smalto e dalle corna d'oro, gli sfrecciò davanti e, attraversata la prateria, s'infilò nel bosco. Giovani guerrieri lo inseguirono di volata sui loro cavalli, l'arco pronto a colpire… Eccitato da quella visione, Teodorico balzò ai piedi, chiese il suo destriero ed i suoi cani. Ma i vecchi fedeli cani si ritraevano spauriti. Ormai da troppi anni il loro padrone non li conduceva più a caccia! Invece il cavallo nero, che d'improvviso era balzato accanto al re, fremette e scalpitò, con occhi di fuoco e con la schiuma alla bocca. Teodorico montò in arcione, partì, e invano lo scudiero gli gridò di fermarsi, di tornare. Il cavallo volava come il vento ed era impossibile arrestarlo. Va e va, il cavallo, per monti e per valli, per pianure e per colli, mentre Teodorico, che vorrebbe frenare e scendere è trattenuto in sella da una forza invincibile. Durante la folle corsa il vecchio re si raccomandava alla Vergine e a tutti i Santi. Ma chi poteva esaudire la preghiera di un uomo dal cuore duro e che aveva seminato tanto dolore? La Vergine, infatti, era intenta a illuminare la fronte pure e insanguinata dell'eroico Severino Boezio, il quale, nella sua aureola di bianchi capelli, apparve, finalmente, allo sguardo allucinato di Teodorico, mentre il cavallo, ormai oltre il confine calabro, si slanciava verso il cielo con un alto nitrito, inabissando il re nel cratere fumante dello Stromboli.
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La Scrofa Semilanuta dal Palazzo della Ragione
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La Scrofa Semilanuta
Milano (MI)
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Nel VI secolo avanti Cristo i Galli giungono nella pianura padana e guidati dal loro capo Belloveso sconfiggono gli Etruschi e si stanziano nella zona. Belloveso decide di fondare una città e consulta gli oracoli per conoscere il volere degli dei. Gli oracoli rispondono che la città avrebbe potuto sorgere nel luogo in cui fosse trovata una scrofa con il dorso per metà coperto di lana. La città avrebbe poi dovuto prendere il nome da quell’animale.
Partiti alla ricerca della scrofa, i Galli la trovarono in una radura circondata da un fitto bosco. Lì Belloveso tracciò il perimetro della città e le diede un nome celtico, che latinizzato dai Romani conquistatori, divenne Mediolanum (da medio-lanata) La scrofa semilanuta fu per lungo tempo il simbolo della città. In via Mercanti, è ancora visibile un antico bassorilievo con l'immagine della suddetta scrofa, collocato sul secondo arco del Palazzo della Ragione; fu ritrovato nel 1233, durante gli scavi per la costruzione del Palazzo.
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Ratto delle Sabine
Provincia di Rieti
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Lo Stato romano era già così forte da poter tener fronte in guerra a qualsiasi tra le popolazioni confinanti; ma per la mancanza di donne la sua grandezza sarebbe durata una sola generazione, poiché non c'era in patria speranza di prole, né avvenivano connubi coi vicini. Così Romolo organizzò ad arte solenni ludi in onore di Nettuno equestre, e li chiama Consuali. Ordina poi di annunziare lo spettacolo ai popoli vicini. Accorse molta gente, anche per la curiosità di vedere la nuova città, tra cui i Sabini. Mentre la festa si svolgeva fra canti e danze, ad un segnale convenuto, i giovani Romani rapirono le donne sabine, e armati di pugnali, misero in fuga gli uomini.
Questi ritornarono, poco tempo dopo, guidati da Tito Tazio, Re della tribù sabina dei Curiti, con l'intento di liberare le loro donne e di vendicarsi dell'affronto ricevuto. Una fanciulla, Tarpea, aprì loro le porte della città: ma pagò immediatamente il suo gesto con una morte atroce, infatti fu schiacciata dagli scudi dei Sabini; le generazioni future daranno poi il nome di lei alla rupe Tarpea, dalla quale diverrà consuetudine gettare i condannati a morte. Penetrati a Roma, i Sabini si lanciarono contro i guerrieri nemici; ma appena iniziò la battaglia, le donne intervennero per ottenere un armistizio: molte fanciulle infatti, si erano già affezionate agli sposi romani e non potevano tollerare la vista di quella sanguinosa battaglia nella quale erano coinvolti i loro padri e i loro mariti.
La vicenda ebbe così una pacifica conclusione: Romolo e Tito Tazio regnarono in comune sulla città; Sabini e Romani si fusero in un solo popolo. Dal nome della tribù di Tito Tazio, quella dei Curiti, derivò poi ai Romani l'appellativo di Quiriti.
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Le origini di Amalfi
Amalfi (SA)
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La leggenda narra che ai tempi dell'imperatore Costantino un gruppo di famiglie romane, volendo lasciare Ravenna e trasferirsi a Costantinopoli, furono sorprese da una violenta tempesta e costrette a rifugiarsi sulle coste della Dalmazia. Interpretato l'accaduto come cattivo auspicio, cambiarono rotta e si diressero nel Tirreno dove fondarono un villaggio vicino Palinuro, chiamato Melphe. Da qui continuarono ad esplorare i posti vicini e scoprirono un luogo ben protetto e ricco d'acqua, dove decisero di stabilire una colonia: il posto della gente venuta da Melphe, in latino "A Melphe", la futura Amalfi.
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Madonna di San Ciriaco Duomo di Ancona
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Il prodiogio della Madonna del duomo di Ancona
Ancona (AN)
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La sera del 25 giugno del 1796 la signora Francesca, una vedova trentenne, da sempre devota della Madonna, sale dal porto, insieme ad altre madri, verso il Duomo di San Ciriaco. In città si è sparsa la notizia dell’avanzata trionfale dell’esercito francese comandato dal gen. Bonaparte, e dell’armistizio sottoscritto a Bologna, nel quale il Papa è costretto a cedere ai Francesi, Ferrara, Bologna ed Ancona; a pagare un contributo di 21 milioni di lire, parte in denaro, parte in bestiame e derrate; a consegnare cento monumenti d’arte, tra quadri, vasi, statue e trecento codici manoscritti di valore, a scelta dei francesi. I fatti confermano la fama di anticlericali e di predatori che precede le truppe francesi ed atterrisce la popolazione che affolla le chiese implorando protezione dal cielo.
C’è ancora poca gente quando la piccola comitiva orante di donne sale dalla cripta dei Santi Patroni alla cappella della Madonna. Possono prendere posto proprio sul primo gradino, ai piedi dell’Immagine. La Madonna è con il solito volto umile, con gli occhi chiusi, con le pupille quasi coperte dalle palpebre, il capo reclinato verso la spalla. Intenta a leggere le sette allegrezze della Santa Vergine, Francesca non si accorge che attorno all’altare si è raccolta una folla considerevole. Terminate le invocazioni, alza gli occhi e le sembra di vedere l’immagine della Madonna con gli occhi quasi interamente aperti. Teme un’allucinazione, abbassa il capo, si ricompone in preghiera con gli occhi chiusi; la gente attorno ha notato qualcosa ed alza notevolmente il tono delle preghiere. Francesca risolleva il capo verso il quadro e vede la Madonna non solo con gli occhi aperti, ma con il sorriso sulle labbra. Non ha tempo di dire alle vicine quanto vede che la piccola Barbara di dodici anni, balza sotto l’altare e, rivolta alla madre, grida “è vero, la Madonna apre gli occhi e ride”. Anche le donne presenti, dopo aver soccorso la madre di Barbara, svenuta per l’emozione, osservano attentamente il quadro e notano che gli occhi della Madonna continuano ad aprirsi e che il volto si fa quasi sorridente.
La notizia vola! Accorrono tutti per vedere il fenomeno. A leggere le testimonianze rese in seguito, molti all’inizio restano increduli, pensando ad una illusione ottica o collettiva, ma poi si convincono. Per tutti valga la testimonianza del pittore Antonio Meloni di Imola, che esaminerà a lungo il quadro: “Ritrovandomi in vicinanza, vidi che all’aprirsi degli occhi, questi si vedevano limpidi, e non più confusi con il chiaro e oscuro delle tinte... il volto compariva più ilare e quasi ridente”. Il Prodigio continua fino all’11 febbraio dell’anno successivo 1797, quando il Generale Napoleone Bonaparte, accusando i Canonici del Duomo di ingannare il popolo, vuole ispezionare personalmente il quadro. Come ha in mano il quadro, liberato della cornice e del vetro, l’attenzione di Napoleone cade sul nastro di perle, rubini e altre pietre preziose che fanno corona all’Immagine; egli pensa bene di prendere tale patrimonio per “provvedere, dice, il corredo da sposa ad una giovane del locale Ospizio di Carità”. Fa togliere dal quadro il prezioso nastro, lo prende in mano, ma... rimane perplesso. Ai presenti sembra addirittura che il Generale cambi colore nel volto, ed interpretano questa indecisione con un intervento straordinario della Madonna. Con sorpresa di tutti, il Generale restituisce il nastro di perle preziose perché sia rimesso sul petto della Madonna.
In seguito, per suggerimento del Vescovo, e per desiderio di Napoleone stesso, il quadro viene coperto con un velo di seta ricamato.
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La Santa Casa di Loreto
Loreto (AN)
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Il Santuario di Loreto conserva, secondo un'antica tradizione, oggi comprovata dalle ricerche storiche e archeologiche, la casa nazaretana della Madonna. La dimora terrena di Maria a Nazaret era costituita da due parti: da una Grotta scavata nella roccia, tuttora venerata nella basilica dell'Annunciazione a Nazaret, e da una camera in muratura antistante, composta da tre pareti di pietre poste a chiusura della grotta (Secondo la tradizione, nel 1291, quando i crociati furono espulsi definitivamente dalla Palestina, le pareti in muratura della casa della Madonna furono trasportate "per ministero angelico", prima in Illiria (a Tersatto, nell'odierna Croazia) e poi nel territorio di Loreto (10 dicembre 1294)., in base a nuove indicazioni documentali, ai risultati degli scavi archeologia a Nazaret e nel sottosuolo della Santa Casa della Madonna di Loreto(1962-65) e a studi filologici e iconografici, si va sempre più confermando l'ipotesi secondo cui le pietre della Santa Casa sono state trasportate a Loreto su nave, per iniziativa della nobile famiglia Angeli, che regnava sull'Epiro. Infatti, un documento del settembre 1294, scoperto di recente, attesta che Niceforo Angeli, despota dell'Epiro, nel dare la propria figlia Ithamar in sposa a Filippo di Taranto, quartogenito di Carlo Il d'Angiò, re di Napoli, trasmise a lui una serie di beni dotali, fra i quali compaiono con spiccata evidenza: "le sante pietre portate via dalla Casa della Nostra Signora la Vergine Madre di Dio".
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Il Miracolo Eucaristico di Offida
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Il Miracolo Eucaristico di Offida
Offida (AP)
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Nel 1273 una donna, su invito di una maga a cui si era rivolta per farsi benvolere dal marito, getta un'Ostia consacrata sul fuoco, la particola rimasta solo in piccola parte pane si trasformò in carne, da cui sgorgò Sangue abbondante. L'Ostia, il coppo che conteneva il fuoco e la tovaglia insanguinati sono ancora visibili nel santuario di Sant'Agostino.
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San Nicola
Bari (BA)
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Come ci narra anche Dante nel Purgatorio (XX, 31-33), tre giovani poverissime destinate ad una vita di peccato. Nicola, addolorato dal pianto e commosso dalle preghiere di un nobiluomo impossibilitato a sposare le sue tre figlie perché caduto in miseria, decise di intervenire lanciando per tre notti consecutive, attraverso una finestra sempre aperta dal vecchio castello, i tre sacchi di monete che avrebbero costituito la dote delle ragazze. La prima e la seconda notte le cose andarono come stabilito. Tuttavia la terza notte San Nicola trovò la finestra inspiegabilmente chiusa. Deciso a mantenere comunque fede al suo proposito, il vecchio dalla lunga barba bianca si arrampicò così sui tetti e gettò il sacchetto di monete attraverso il camino, dov'erano appese le calze ad asciugare, facendo la felicità del nobiluomo e delle sue tre figlie.
Nel 1087 alcuni mercanti italiani portarono le spoglie di questo santo così generoso dalla Licia, in Asia Minore, fino a Bari e sul suo sepolcro fu costruita un'imponente cattedrale in stile romantico. La leggenda di San Nicola si è diffusa in tutta Europa e il suo tradizionale ruolo di portatore di doni è andato via via acquisendo sempre maggiore importanza.
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Madonna Nera di Oropa
Oropa (BI)
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Una leggenda racconta come la Madonna venisse ritrovata sul Monte Mucrone da alcuni frati di un vicino convento. I religiosi la sollevarono e iniziarono a trasportarla a valle, ma giunti al luogo ove sorge l'odierno santuario, la statua divenne così pesante da non poter più essere sorretta. Il miracolo spinse le popolazioni del Biellese ad iniziare la costruzione di una cappella e poi del santuario, oggi meta di molti pellegrinaggi.
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La madonna del Piratello
Imola (BO)
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Alcuni pellegrini erano partiti da Cremona alla volta del Santuario di Loreto. A piedi, di città in città, avevano già oltrepassato Bologna, quando uno di essi, il vecchio Mangelli, si ammalò. Pochi giorni dopo riprese da solo il cammino: era debole ancora e camminava a fatica. Attraversò il Torrente Sellustra, ingrossato dalle recenti piogge, e si diresse verso Imola. C'era lì, presso la strada, un piccolo pero (piratello), che sembrava proteggere un rustico pilastro, sul quale era l'immagine della Madonna. Era il 27 marzo dell'anno 1483. Il vecchio pellegrino si sentiva talmente stanco che si sdraiò ai piedi dell'albero per riposarsi un poco. Solo, sfinito e lontano da casa, disperava ormai di poter proseguire il suo viaggio. Allora, piangendo, invocò l'aiuto della Vergine. Oh, meraviglia! Alzò gli occhi e, fra le lacrime, vide davanti a sé la Madonna bella e illuminata da una luce celestiale. - Vai, - gli disse - presentati al vescovo e al governatore di Imola e dì loro che voglio essere particolarmente venerata in questo luogo. E sparve. Ma il povero vecchio era miracolosamente guarito e potè riprendere, con infinita gioia, il suo viaggio.
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