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Il Passo dell'Abbadessa
Ozzano dell'Emilia (BO)
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Intorno all'anno 1110 esisteva, a poca distanza dal Passo dell'Abbadessa, un breve passo alto appena 200 metri, ma suggestivo per visioni alpestri, burroni e paurose gole, il Monastero di Settefonti. In questo eremo, assieme ad altre religiose, viveva Lucia, bellissima nobildonna bolognese, appartenente alla famiglia Clari. Lucia si era votata a Dio, e trascorreva i suoi giorni pregando. Non chiedeva altro che di vivere nella luce divina. Ma un giorno passò di lì un giovane cavaliere mandato a presidiare, con un manipolo di soldati, un ponte presso Ozzano. Vista Lucia intenta a pregare, il cavaliere se ne innamorò. Da allora egli ogni giorno tornava fin lassù per rivederla. Né freddo, né pioggia, né bufere di neve arrestavano il giovane. D'inverno il ghiaccio rendeva pericoloso il cammino, lungo il Passo dell'Abbadessa; tuttavia, puntualmente, ogni mattina, il cavaliere raggiungeva la chiesa, solo per vedere Lucia pregare. Turbata e sconvolta da tanta insistenza, la suora si ammalò. Per due mesi rimase chiusa nella sua cella. Quando in primavera finalmente si alzò e per la prima volta ridiscese in chiesa, il nobile cavaliere era lì ad attenderla, puntuale e costante. Allora lo fece chiamare e gli parlò: - Ho fatto voto a Dio della mia vita e mai potrò essere vostra moglie - gli disse. - Perché continuate a venire quassù? Il mio pensiero troppo spesso è rivolto a voi, mi fate vivere nel peccato e nel rimorso. Se non ve ne andrete per sempre, sarò costretta a rinchiudermi in cella, finchè morrò. Partite; andate più lontano che potete. Prendete la croce e andate a combattere dove è sepolto Colui che per noi tutti soffrì e morì. Io pregherò per voi. Il cavaliere che le voleva veramente bene, ubbidì. Partì per la Crociata, combattè in Terra Santa contro i Munsulmani, finchè, ferito gravemente, fu preso, incatenato e chiuso in un oscuro carcere. Due anni durò la prigionia. Una notte, egli ebbe una meravigliosa visione. La cella s'illuminò a giorno e Lucia gli apparve tutta avvolta in una nuvola risplendente. - Sono due anni che ci siamo lasciati, - disse. - Io sono morta, subito dopo la vostra partenza, ossessionata dal rimorso di avervi spinto sul campo di battaglia. Ma ora, dal Paradiso dei Beati, dove mi è stato concesso di salire, ho tanto pregato il Signore, perché la vostra schiavitù avesse finalmente termine. Domattina vi sveglierete presso il Monastero di Settefonti. Lì è la mia tomba: deponetevi sopra le vostre catene e vivete in pace la vostra vita. Detto ciò scomparve. Il cavaliere fu subito colto da un profondissimo sonno e si sentì come trasportare in alto, in alto… Quando si svegliò, si trovò per davvero al Passo dell'Abbadessa, presso il Monastero, libero e lontano dall'orribile carcere. Entrò allora nella chiesetta, si inginocchiò sulla tomba di Lucia e rimase a lungo così, a pregare. Quindi si alzò, uscì e da quel momento nessuno seppe più nulla di lui. Anni e anni passarono; secoli, addirittura! E fu Gregorio XIII che il 7 novembre 1573 fece trasportare il corpo della Beata Lucia nella chiesetta di Sant'Andrea d'Ozzano, dove ancora si trova, con le catene del cavaliere appese all'altare. Il Monastero di Settefonti, il castello di Ozzano dove viveva il cavaliere in presidio, e la chiesina dove Lucia pregava sono del tutto scomparsi. Rimangono solo delle polle d'acqua. Si dice che Lucia vi si recasse a rinfrescarsi gli occhi che le bruciavano per il gran piangere. E i fedeli usano, ora, fare altrettanto, durante le loro passeggiate al Passo, con la convinzione, forse, di preservare gli occhi da ogni malattia.
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Il bambino con la camiciola bagnata vers.cristiana
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Il bambino con la camiciola bagnata vers.cristiana
Arco alpino (BZ)
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Una povera donna non smetteva mai di piangere la perdita del suo bambino adorato. Piangeva sempre, di giorno, di notte, a casa, sulla via, al camposanto vicino, dove si recava due o tre volte al giorno e perfino di notte. Le sue lacrime cocenti bagnavano la piccola croce e la terra del tumulo che copriva le spoglie del suo morticino. Nessuno riusciva a farle ritrovare la serenità, a convincerla a trovare in se stessa la forza della rassegnazione secondo gli ammaestramenti della religione cristiana, a sapersi adattare alla legge divina, che così aveva disposto, che così aveva voluto. A nulla giovavano le affettuose esortazioni delle persone care a lei vicine, che nel dolore per il bimbo tanto desiderato e perduto, reprimevano angosciate il pianto. Ma forse non sapeva rassegnarsi la mammina, forse non voleva, forse non era in grado di ritrovare la pace. Era stata felice, quando il suo primo nato era venuto alla luce del mondo, bello, biondo, con due occhietti azzurrissimi come il cielo dei nostri bei monti che lo videro nascere. Estenuata, disperata, non era neppure in grado di pregare la Madonna, Madre di tutti i viventi, che l'assistesse nel suo grande dolore. Ed una notte, che appoggiata alla piccola croce vegliava accanto al suo fantolino nella fredda tomba adornata di roselline bianche e di gigli profumati, alzando gli occhi pieni di pianto ebbe una visione: Le sembrò di vedere avvicinarsi una schiera infinita di bambini tutti vestiti di bianco e di oro. Cantavano le laudi del Signore e passandole vicino, ascendevano in alto verso il Cielo. La mammina guardava quei visini sorridenti, cercava, scrutava uno per uno quegli angioletti, ma non riuscì a scorgere il suo bambino. Passarono tutti; il suo angioletto non c'era nella schiera. La visione stava per cessare e la povera donna, presa ancora dal dolore, raccolse le forze, chiese all'ultimo bambino della schiera: «Piccolo angioletto, non hai visto il mio Sandrino? Mi sai dire dov'è? E' forse già passato avanti?» «No, buona mamma - fu la risposta - E' ancora lontano il vostro bambino, non può seguirci, non può tenerci dietro, perché è tutto inzuppato dalle vostre lacrime». Allora la madre si asciugò gli occhi rossi di pianto ed invocata finalmente la Madonna, a cui si rivolse fiduciosa chiedendo aiuto, non pianse più. Continuò a portar fiori bianchi e a pregare sulla tomba del suo piccolo, appoggiata alla croce del conforto. Ancora una volta vide ritornare la processione dei bambini. Ed il suo Sandrino, passandole accanto, la salutò sorridente con le manine
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Il tiratore sacrilego
Bolzano (BZ)
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Di fronte a Rencio, a due passi dalla città tra una lussureggiante distesa di vigneti, si adagia la ridente silenziosa frazione di Campiglio. Vicino, l'Isarco, le cui acque fruscianti spandono intorno un monotono, ininterrotto ronzio, una misteriosa canzone che viene ripetuta instancabile, all'infinito. Racconta la leggenda che molti e molti anni or sono, era stata organizzata a Campiglio, in occasione di una tradizionale festa locale, una gara di tiro a segno; e da tutte le parti della provincia erano accorsi giovani desideriosi di dar prova della loro abilità. Era tra questi un certo Lorenzone, abilissimo tiratore, ma gradasso e presuntuoso. Costui, tronfio per le sue numerose vittorie passate, si era presentato a quella nuova gara con la prosopopea del dominatore. Aveva assistito con un risolino di ostentata indulgenza e superiorità alla prova di altri competitori, mentre in un folto crocchio andava vanitosamente esaltando le sue passate bravure. Poi era venuto il suo turno:«Ora vi mostrerò io - aveva gridato superbo - come si spara!». E tutti gli astanti avevan fatto silenzio per seguire attenti la prova del campione; un colpo, due tre… ma il bersaglio era rimasto inviolato. Sorrisi ironici, mormorii beffardi. Il tiratore sembrava aver perduta, allora, la sua spavalda sicurezza e, trangugiato, d'un fiato, per rianimarsi, un bicchiere di generoso vinello, aveva ritentata la prova: niente ancora! Le pallottole passavano sibillando accanto al bersaglio e andavano a schiacciarsi lassù, contro la roccia, sollevando piccole nuvolette di polvere grigia: sembravano stregate! Al suo sguardo, intatto, non erano sfuggiti i sorrisetti ironici e sprezzanti dei presenti; e la sua vanità, punta sul vivo, era d'un tratto esplosa in un impeto di furore. Si era guardato intorno in cerca di qualcosa su cui sfogare la sua incontenibile ira, aveva visto sulla sponda opposta dell'Isarco il vetusto crocifisso, che si scorge ancora là, accanto al «Maso Bietschenhof», all'inizio della strada che da Rencio porta al Renon e rivoltosi ai suoi schernitori, con un lampo sinistro negli occhi, aveva sdegnosamente gridato: «Bene, io mi scelgo un bersaglio al quale nessuno di voi, o codardi, oserebbe tirare. Se fallissi il segno, colpirei pur sempre il Signore!». Poi d'un tratto aveva puntato il fucile e prima ancora che gli astanti sbigottiti avessero potuto impedirgli l'atto inconsulto e sacrilego, aveva fatto fuoco contro quel crocifisso. Era seguito un sibilo, un grido, e si era visto il giovane abbattersi al suolo, fulminato, mentre il cielo andava oscurandosi con densi nuvoloni cupi e minacciosi. La pallottola aveva colpito il piede sinistro di Gesù, ma era rimbalzata conficcandosi diritta nel cuore del tiratore. Su questo crocifisso tu puoi vedere ancora il segno del colpo, che i secoli non potranno cancellare, e spesso in questo luogo tragico puoi udire, confuso con il sibilo del vento, un colpo secco di fucile: è l'anima vagante del sacrilego tiratore. Questo dice la canzone, che l'Isarco continua a ripetere instancabile all'infinito ad un mondo sordo che non lo comprende. Ascoltala, viandante, e tu pure, forse, potrai un giorno intenderla.
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Il Guardiano dell'Inferno
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Il Guardiano dell'Inferno
Bolzano (BZ)
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C'era mercato a Bolzano, quel giorno. L'osteria «All'Ospedale» era affollata di contadini scesi in città fin dalle prime ore del mattino. Solo, seduto ad un tavolo un po’ appartato, stava un giovane dal viso pensieroso. Ma ciò che colpiva maggiormente in lui era la chioma; una chioma bianca, che contrastava stranamente con la freschezza del viso ancor quasi imberbe. Egli girava lentamente lo sguardo sui presenti, ma i suoi occhi erano tristi come se in essi si fosse spenta la luminosa giocondità della giovinezza. I contadini sedevano ai tavoli, parlavano a voce alta, ridevano rumorosamente, scherzavano. Passavano le bottiglie, si riempivano i bicchieri del rosso e frizzante vino delle colline bolzanesi e, tra un bicchiere e l'altro, si combinavano affari, si intrecciavano amicizie. Il solitario giovane sembrava non interessarsi a quanto avveniva intorno a lui; stava assorto nei suoi pensieri che, certo, non dovevano essere né sereni, né leggeri, se il suo viso manteneva sempre quell'espressione desolatamente triste ed accorata. Non rimase a lungo solo, che un vecchio contadino dal viso bonario venne a sederglisi accanto, offrendogli da bere.«Bevi - disse il vecchio - il vino è buono e dà allegria», e così dicendo, sollevò alto il bicchiere. Il ghiaccio era rotto. In breve il contadino seppe conquistarsi la fiducia del giovane e, senza dar a vedere troppa curiosità, gli chiese il perché di quei capelli precocemente bianchi. Il giovane parve esitare prima di rispondere, poi sommessamente prese a narrare. «Mi chiamo Jörgl - cominciò il ragazzo - nacqui in una casa poverissima; molte le bocche da sfamare, scarso il pane, scarsissimo il companatico. «A nove anni fui messo a servizio in casa di un ricco contadino: piansi molto nello staccarmi dalla mamma, dal babbo, dai miei fratellini. Là, nella casa straniera, mi sentivo tanto solo. La notte, nel mio letto, invocavo la mamma, soffocando i singhiozzi fra le lenzuola e solo a tarda ora riuscivo a prendere sonno, con gli occhi ancor bagnati di lacrime. «Dovevo lavorare dall'alba al tramonto, nella stalla, nei campi, nel fienile. Un giorno - era ottobre - fui mandato nel bosco ad aiutare i servi a raccogliere lo strame. Con la mia gerla in ispalla, fischiettando, m'addentrai fra i pini e gli abeti; il sole giocava fra le verdi chiome disegnando arabeschi d'oro sul muschio verde che tappezzava il terreno. «Quello era il regno delle cince, dei merli, dei fringuelli. Mi fermai, come sempre, ad ascoltare i loro richiami festosi, i loro gorgheggi canori, divertendomi ad imitare le loro voci, i loro trilli. «D'un tratto gli uccelli cessarono il loro canto e il bosco si fece improvvisamente muto. Che stava per accadere? Feci per riprendere il cammino, quando mi si parò davanti un uomo. Alto, nero di capelli e di occhi, aveva nell'aspetto qualcosa di strano e di misterioso. «Impaurito cercai di fuggire, ma egli mi trattenne rassicurandomi che non mi avrebbe fatto alcun male. Benevolmente dimostrò di interessarsi di me, della mia famiglia, ed infine mi chiese d'entrare al suo servizio per sette anni. «Di che cosa potevo sospettare, io, povero fanciullino? Accettai subito e chiesi al signore il permesso di recarmi a salutare i miei cari, ma egli non acconsentì. «Con un oscuro presentimento in cuore, seguii il nuovo padrone. Egli mi condusse con sé per le innumeri vie del mondo; vidi paesi, città meravigliose, udii parlare le più strane lingue, conobbi genti dai più strani costumi. «Dopo lungo peregrinare, giungemmo in una valle remota, chiusa fra rocce impervie, strapiombanti in orrendi e profondi burroni. Non un segno di vita in quello squallore. «"Siamo arrivati" - disse l'uomo misterioso - e nei suoi occhi perpetuamente tetri e corrucciati, passò un sinistro balenìo. "Siamo arrivati". Mi guardai attorno disperato, oppresso da quel desolato silenzio di morte. «"Hai paura?" mi chiese, beffardo, l'uomo. Non risposi; avrei voluto fuggire, fuggire lontano, gettarmi fra le braccia protettrici della mamma. Oh, ella avrebbe saputo difendermi! E invece ero solo. Il misterioso signore continuava a guardarmi con quei suoi occhi tetri e duri. Ora capivo chi era costui, ma troppo tardi. «Qui egli aveva stabilito la sua triste dimora. Con fare imperioso, m'additò un enorme portone nero dentro la roccia. "Vedi - mi disse - quella è la porta dell'inferno. Giorno e notte - egli continuò - tu dovrai vegliare a quella porta; tu dovrai aprirla a coloro che si presenteranno e chiuderla non appena saranno entrati. Ricordati che da quel portone nessuno, mai, dovrà uscire! Nessuno. Per il tuo servizio avrai a sazietà vino e carne, ma non un goccio d'acqua. Dovrai rimanere qui sette anni, poi potrai tornare al mondo dei vivi. Nella dimora dei morti solo il portinaio dev'essere vivo". Così disse e scomparve. «Più morto che vivo, cominciai il duro servizio. A schiere giungevano i dannati: erano uomini, erano donne, giovani e, si, anche qualche ragazzo… Sostavano un attimo sulla soglia dell'orribile portone, poi, quasi trascinati da una forza misteriosa, scomparivano nella tetra prigione.«Urla, pianti, accenti d'ira echeggiavano fra le lugubri pareti della dimora infernale. Orrore! Giorno e notte, senza soste, la schiera delle anime perdute si rinnovava, come si rinnova di continuo l'onda del fiume. «Riconobbi fra queste qualche mio amico, che avevo lasciato lassù fanciullo. Come avrei voluto salvarlo, strapparlo da quel luogo maledetto! Ma nulla potevo, nulla.«Alla vista di tanto orrore, i miei capelli mutarono colore: erano biondi, divennero canuti come quelli d'un vecchio. «Finalmente i sette lunghi anni passarono: l'uomo misterioso riapparve. Fui libero. Tornai nel mondo, rividi il sole, i fiori, il cielo, riudii voci di gioia, canti sereni. Credevo di sognare. Tutto era così bello! Corsi, volai alla mia casa, ritrovai il babbo, la mamma, i fratelli già cresciuti. Tutto era, dunque, come una volta? Avrei dovuto essere felice, vero? Ma non lo ero, non riuscii ad esserlo neppure più tardi. Il mio cuore è malato di tristezza, oppresso dal peso di tante pene viste e sofferte, di tante amarezze, di tante lacrime. «La vita allegra, spensierata, non è più per me - mormorò mestamente il giovane -. Sempre mi opprime il ricordo del mio doloroso passato: quella valle di pianto, quell'orribile porta, quelle schiere di anime disperate…» La sala fumosa risuonava di voci, di risate alte, rumorose. «Tutti sono allegri qui, - disse Jörgl alzandosi - solo io …», e, salutato il buon vecchietto, uscì dall'osteria
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La Madonna della Palude
Bolzano (BZ)
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Una notte un carrettiere di Bolzano tornava da Bronzolo, dove aveva scaricato un carico di legname. Da Brozzolo, infatti, partivano un tempo i grandi zatteroni che, scendendo lungo il corso dell'Adige, trasportavano verso la pianura legname ed altro materiale proveniente dalle valli atesine. La notte era calma, serena, e nel cielo v'era tutto un luccichio di stelle. Seduto sul carro, cullato dal monotono cigolio delle ruote, il carrettiere sonnecchiava. Gli sorrideva, tra il sonno e la veglia, l'immagine della sua casa oramai non più molto lontana. Ecco la grande cucina, ecco il focolare dove brillano le ultime brace, e, accanto al focolare, come sempre, la moglie buona e solerte. Sta intenta all'ago, la donna fida, e, di tanto in tanto, tende l'orecchio ai rumori che salgono dalla strada, per distinguer fra essi il cigolio di quattro ruote, lo scalpitio stanco dei due cavalli. Va e va il carro sulla strada bianca vegliata dalla duplice fila di pioppi alti e diritti come sentinelle. Ora la strada costeggia la palude (una palude che ora non esiste più, perché da tempo prosciugata). Dalle acque scure e limacciose si leva monotono il gracidio delle rane. D'un tratto i cavalli rallentano il passo: il carrettiere si scuote: Diamine che succede? Gli sembra d'aver udito una voce, un flebile richiamo. Ferma di colpo i cavalli e tende l'orecchio: forse s'è ingannato. S'ode solo il rauco coro delle rane e il fruscio leggero delle alte erbe del canneto; sorride fra sé il carrettiere e mormora: «scherzi del sonno, avrò sognato». Fa per risalire sul carro, ma ecco di nuovo, e questa volta ben distinta, la voce. Una voce dal tono dolce e supplichevole, un'invocazione: «Carrettiere, carrettiere, prendimi fuori, ti prego!..» Sgomento e perplesso il carrettiere lascia cadere le redini. Non s'è ingannato, dunque, qualcuno ha invocato il suo aiuto: chi? Il carrettiere, uomo generoso, non esita al richiamo, subito si dirige verso la palude da cui, gli è sembrato, venisse la voce. S'inoltra nel folto canneto, cerca fra l'erba, fruga nel fango. Provvido un sottile raggio di luna ora si fa strada fra l'intrico di foglie e di fusti e sembra guidare l'uomo nell'affannosa ricerca. Infatti, a breve distanza dai suoi piedi, qualcosa luccica nel fango. L'uomo si china e vede là, sommersa per metà nella melma, una statuetta. Con le mani tremanti per l'emozione egli la raccoglie, la ripulisce con cura pietosa; è una statuetta di pietra, alta circa sessanta centimetri, raffigurante la Madonna che tiene in braccio Gesù Bambino. Il pio carrettiere mira commosso la dolce Immagine, e non sente più né sonno, né stanchezza. E' felice, tanto felice, ed in silenzio ringrazia la Provvidenza di aver concesso a lui, proprio a lui, povero e rozzo carrettiere, la grazia del miracoloso rinvenimento. Che fare ora? Si domandava l'uomo tutto preoccupato di trovare un luogo sicuro, in cui collocare provvisoriamente la statuetta. Si guarda attorno: la strada, la palude, la capanna, nient'altro. Gli balena nella mente un'idea: costruirà lui, con le sue mani, un riparo per la dolce Madonnina. Ritorna sulla strada: cerca e raccoglie in un batter d'occhio sassi ed altro materiale utile e si mette al lavoro. Le mani alacri si muovono senza posa: qui, una pietra, là un'altra, sorge in breve un umile tabernacolo con la sua piccola e concava nicchia. Là, nella nicchia raccolta e sicura come un nido, il buon carrettiere pone la statuetta. Una preghiera, un simile saluto: il carrettiere risale sul suo carro e si allontana nella notte. Fin qui la leggenda. La cronaca ci narra che, in seguito, al posto del rozzo e primitivo tabernacolo costruito dal carrettiere, fu eretta alla Vergine una cappelletta.
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Impronte e manifestazioni meravigliose
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Impronte e manifestazioni meravigliose
Luson e Onies (BZ)
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Poche, semplici casette, in parte sgretolate e annerite dalla patina del tempo, strette attorno ad una grande, vetusta chiesa dominante su tutta la vallata: Luson. Una vallata stretta, scura, solcata da un torrente brontolone e non di rado prepotente: il Lasanca. Tutto intorno, un incastro solenne, maestoso, di cime uniformi, innalzate su masse gigantesche, d'un colore verde cupo. E là, verso l'estremità superiore della valle, due massicce punte, riflettenti gli ultimi raggi del sole morente, si stagliano nel cielo: è il Putia. Più avanti, lungo la valle, Pezzè: quattro, cinque sparse casupole costruite metà in pietra e metà in legno, cupe come il paesaggio che lo circonda. A sinistra, un sentiero inabissantesi entro un'angusta gola, che sale lentamente su, verso la luce. Malga Pratella, Malga Campaccio, due, tre ore di lento, faticoso cammino; poi la gola si allarga, si illumina; e allo sguardo estatico appaiono aspetti indescrivibili di una natura che sembra la sorprendente creazione della più sfrenata fantasia: Passo di San Giacomo, a cavaliere del «Vallo delle Gane». Una corona ispida di catene forma tutto intorno un ampio, poderoso cerchio. A destra, il Putia appare in tutta la sua colossale grandezza, a sinistra, l'Alpe di Luson con le tondeggianti Cime Campiglio e Lasta. Al di sotto, l'abitato di Onies. Su questo passo una rustica cappella, con una statuetta in legno, rappresenta San Giacomo. Molti anni fa, dove ora sorge la cappella, si ergeva un grande abete solitario, mèta di pellegrinaggio dei devoti di tutti i paesi circostanti, che solevano appendere ai suoi rami, in segno di riconoscenza per qualche grazia ricevuta, figurine di cera rappresentanti cavalli, buoi, capre, gamberi, rospi, mani, piedi, come si ammira in certi santuari. Sul secolare tronco, dalla parte che guarda verso Onies, era stata scavata una nicchia, e nella nicchia era stata collocata dalla devozione dei fedeli quella stessa statuetta di San Giacomo, che ora si trova nella piccola cappella. Presso l'abete vi era, e c'è tutt'ora una grande pietra piatta, che mostra le nitide impronte di una testa e di due mani, che nemmeno l'azione demolitrice del tempo è riuscita a scancellare. L'ebreo errante, passando di là, assicurò essere quelle veramente le impronte dell'apostolo San Giacomo, da lui conosciuto.
Esiste però un'altra leggenda, che fornisce una diversa interpretazione del fatto straordinario. Sembra, infatti, che in quei tempi lontani, un certo Giacomo da Rodengo, povero derelitto senza dimora, fosse solito rammingare fra i monti di Rodengo e Monghezzo, vivendo della carità dei contadini. Correvano intorno a lui strane e misteriose voci. Un brutto giorno, due contadini di Luson, che dovevano recarsi a Onies attraverso il Passo di San Giacomo, rinvennero, semisepolto dalla neve, un corpo umano assiderato, che appoggiava la testa e le mani sopra il sasso, accanto all'abete. Era Giacomo da Rodengo. Lo sollevarono premurosamente e con loro somma meraviglia, si avvidero che sul sasso erano rimaste le impronte del capo e delle mani. La notizia dell'avvenimento miracoloso si sparse in un baleno, e da quel giorno il luogo divenne mèta di pellegrinaggio dei fedeli di Luson, Rodengo, San Lorenzo di Sebàto, Elle, Mantana, Onies e delle valli vicine. L'abete ne fu l'umile santuario, finchè, disseccandosi, non fu più in grado di accogliere sui suoi rami gli ex-voto dei fedeli. Quando venne abbattuto, in quello stesso luogo una cappelletta fu fatta erigere, nel 1844, dal contadino Giuseppe Elzenbaumer da Onies. Ed ora, al cospetto di uno stupendo scenario, davanti al quale la lingua ammutolisce nell'impossibilità di esprimere il disordinato tumulto del cuore, circondato da un sacro silenzio, vigila San Giacomo nel suo rustico santuario, a conforto dei fedeli che accorrono a lui con fiducia
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Il ladro Sacrilego
San Paolo - Appiano (BZ)
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Un giorno un viandante giunse a San Paolo di Appiano. L'uomo vestiva poveramente e portava un sacco in ispalla. Sostò sulla piazzetta davanti alla chiesa, che già l'aria imbruniva. D'intorno le voci, i rumori andavano lentamente smorzandosi; la sera riconduceva l'uomo e l'animale all'abituale, fida dimora. Ma il viandante non aveva casa e triste scendeva la sera per lui. Si sedette sui gradini della chiesa; più tardi avrebbe cercato un giaciglio per la notte. Aveva camminato tanto quel giorno, che i piedi gli dolevano, la gola gli bruciava per la polvere e la sete. Che giornataccia! Si alzò; la porta della chiesa non era ancora aperta, entrò. L'ombra della sera si stendeva, impalpabile, sulle cose, si annidava più scura negli angoli, velava lieve i volti dei Santi e gli aerei voli degli angioletti, che sorridevano dalle pitture. Alcuni ceri ardevano sull'altare dell'Addolorata, accendendo di preziosi riflessi gli ori che adornavano la venerata Immagine. Il viandante affissò gli occhi a quel luccichio; il suo sguardo si fece avido, cattivo. Lo spirito del male tendeva attorno all'uomo la sua diabolica rete e una voce sempre più insistente lo tentava: «Quanto oro! E' tuo… se lo vuoi. Prendilo e fuggi, sarai ricco!». Lo sciagurato non seppe resistere. Si appestò all'altare, strappò quelle gioie che, un giorno, mani pie e devote avevano offerto alla Vergine con umile atto di umore e di gratitudine per una grazia implorata ed ottenuta. Protetto dall'ombra incombente della sera, il ladro sacrilego fuggì con il bottino. Ma appena oltrepassate le ultime case del paese, le gambe non gli ubbidirono più, gli si fecero pesanti, rifiutandosi di portarlo oltre. Rimase così, come pietrificato, in mezzo alla strada. Fu preso allora da un'angoscia indicibile; si sentì solo, tremendamente solo con il suo peccato. Il rimorso gli attanagliava l'anima, insistente, esasperante. Pianse. Lente scorrevano le ore della notte. Nel cielo si accendevano e si spegnevano miriadi di stelle. Poi, verso oriente, il cielo si fece più chiaro; s'annunciava l'alba. Un carro apparve in fondo alla strada. Così, tra il lusco e il brusco, il carrettiere vide profilarsi la sagoma scura e immobile dell'uomo. Arrivato a pochi passi, gli diede una voce: «Ehi, che fai costì in mezzo alla strada? Non vedi che ingombri il passaggio? Scostati!» L'uomo non si mosse, ne aprì bocca. «Al diavolo - esclamò il carrettiere, buon uomo, ma di modi spicci - voglio vedere che succede qui». Con un salto scese dal carro, gli si avvicinò, gli girò attorno, lo tastò, lo scosse: Caspiterina! Non era né una statua, né un fantasma, ma un uomo in carne ed ossa! «Compare - lo apostrofò ridendo, il carrettiere - quando ti decidi a metter fine a codesto tuo scherzo?». Allora il ladro si decise a parlare e, con l'affanno alla gola, gli narrò la sua triste avventura. «Ed ora non ci sarà più una via di salvezza per me» mormorò il ladro e c'era nelle sue parole un tale accento di pena e di disperazione da muovere pietà. Il carrettiere ascoltò in silenzio la confessione del colpevole poi, per confortarlo, gli disse: «Non disperare, chiedi ancora perdono a Dio del tuo peccato e prometti con cuore sincero di restituire tutto il maltolto. Addio». Raccolse le redini e si allontanò. L'uomo rimase di nuovo solo con se stesso e l'anima iniziò il muto colloquio con Dio. D'un tratto, come per incanto si sentì sciolto dalle invisibili catene: era libero, libero! Corse, non corse, volò alla chiesa. Entrò. Nessuno. Con passo rapido, l'uomo si appressò all'altare della Vergine: sostò, frugò nel sacco e, con mano tremante, depose ai piedi della sacra Immagine tutto l'oro rubato. Fu come se si fosse levato un peso dal cuore. Inginocchiato, a capo chino, lo colsero i primi rintocchi dell'Ave Maria. L'uomo raccolse il sacco ormai vuoto, il bastone ed uscì sereno incontro al nuovo giorno. Che sia realmente avvenuto il fatto narrato dalla leggenda? Sembra che si, tant'è vero che, a ricordo dell'accaduto, gli abitanti di San Paolo eressero, sul posto stesso, una minusissima cappellina
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Il Diavolo Affila le Falci
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Il Diavolo Affila le Falci
Trens - Valle d'Isarco (BZ)
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Nell'ampia e solatia Valle dell'Isarco, a pochi chilometri da Vipiteno, sul pendio esposto alla benefica carezza del sole, sonnecchia il paesello di Trens, con le sue modeste casucce, sgretolate e incolori. Sullo sfondo, spicca contro il cielo, maestoso, il «Monte delle Streghe», simile a un gigante accovacciato, immerso nel sonno. All'estremità superiore del paesello, in posizione dominante, vigile come un pastore in mezzo al suo gregge, si erge la chiesetta col caratteristico campanile aguzzo; e, accanto al tempio, l'umile casetta di un contadino. Proprio quel povero abituro, tanti e tanti anni or sono, fu tacito spettatore del fatto più strano che si sia mai udito. Il contadino che vi dimorava, spirito audace e intraprendente, seppe ridurre il diavolo a suo obbediente servitore. Alla mezzanotte di ogni natale, Lucifero si posava con frastuono assordante sul tetto di quella casupola e rimaneva per qualche minuto sdraiato, accanto al comignolo, rimuginando forse, nella sua mente infernale, qualche nuovo malanno contro la tranquilla popolazione immersa nel sonno. Se ne avvide l'astuto contadino e studiò un suo piano. La vigilia di Natale dell'anno successivo, egli ammucchiò tutte le sue falci e i suoi falcetti sul tetto della casa, vi aggiunse tutte le falci del vicinato, e poco prima della mezzanotte, dopo essersi camuffato da perfetto diavolo, con due enormi corna piantate sulla fronte, si issò sino al camino; e, presa in mano una falce, attese. Allo scoccare della mezzanotte, mentre i rintocchi delle campane annunciavano che era nato il Salvatore, ecco d'improvviso apparire Lucifero, con lo sguardo torvo e minaccioso, sprizzante fiamme paurose dagli occhi iniettati di sangue. Imperturbabile, l'audace contadino, senza proferire parola, gli porse con gesto imperioso la falce che teneva in mano. Quindi ridiscese tranquillamente dal tetto, svestì gli indumenti diabolici e si recò alla chiesetta, per assistere alla Messa di mezzanotte. Intanto il diavolo, appoggiandosi al comignolo, con rapidità incredibile cominciò ad affilare le falci e i falcetti; ed era tanto l'ardore di compiere l'opera, che tutto intorno era uno sprizzante di scintille, mentre sulla fronte dell'artefice infernale scorrevano rivoli di sudore. Ultimato il lavoro, il diavolo prese le sembianze di un drago spaventoso, ed emettendo urli raccapriccianti, spiccò il volo verso il «Monte delle Streghe», lasciandosi dietro una scia rossastra. Persino gli abeti, come terrorizzati, curvarono le cime verso il suolo, sotto il soffio poderoso prodotto dalle gigantesche ali del drago. Il prodigio si ripetè l'anno seguente, e per molti anni ancora, sino a quando il geniale e audace contadino non fu chiamato, dal Signore, alla vita eterna. La sua morte avrebbe purtroppo privato gli abitanti di Trens di un arrotino impareggiabile! Invano un altro contadino, facendosi animo, volle ritentare l'inganno: ma gli invocarono l'audacia e l'intraprendenza di colui che lo aveva preceduto, e la prova gli fu fatale. Egli ammassò opportunamente falci e falcetti sul tetto, e poco prima di mezzanotte vi salì, con esitazione. E quando Lucifero, puntualmente, riapparve minaccioso come sempre, fu tanto il terrore che invase il malcapitato contadino, che dalla mano tremante gli sfuggì la falce, che avrebbe dovuto porgere imperiosamente al diavolo. Scoperto così l'imbroglio, Lucifero, al colmo dell'ira, scagliò un calcio tremendo al mucchio delle falci, che volarono lontano con fragore: poi, afferrato per il collo il disgraziato contadino, impietrito dallo spavento, scomparve per sempre con l'infelice, nelle tenebre della notte. Da quel giorno, i contadini di Trens affilano con le proprie mani falci e falcetti, e assistono con devozione al rito della notte di Natale
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La campana di Santorsola
Val di Giovo - Racines (BZ)
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Quando la Primavera giunse nella remota Val di Giovo, la neve ricopriva ancora il piano e il monte. Morta sembrava la valle, sotto quella coltre gelida e bianca. Non una voce intorno; solo di quando in quando, il rombo cupo della valanga rompeva il vasto silenzio. Rabbrividì Fata Primavera al soffio tagliente del rovaio che scendeva dai monti e fu per tornare indietro. Ma, d'improvviso, da uno squarcio fra le nubi rise il sole col suo raggiante e tonto faccione. «Rimani - sembrava dire, incoraggiante il sole - rimani, benefica Fata ed io t'aiuterò». Infatti, ai suoi tepidi raggi, la neve a poco a poco si sciolse ed apparve, bruna ed umida, la terra. «Finalmente!» esclamò la Primavera ed impaziente si diede a correre il piano e il monte. Coprì di verde tenero i prati, donò, a manciate, gemme e boccioli agli alberi e alle siepi, rivestì le rocce d'erica purpurea. La valle si faceva di giorno in giorno più verde, più bella. Gli uomini guardavano con occhi fiduciosi e ridenti la loro terra: era tempo di far uscire il gregge al pascolo, di dar mano alla vanga, alla zappa. Si aprirono le stalle e gli ovili, uscirono le pecore con i belanti agnellini e subito si sparsero su per i pendii a brucare i teneri germogli. Nei campi il grano, che durante il lungo inverno aveva dormito sotto la neve, accestiva. Ma un giorno il cielo si fece plumbeo, fosco e cominciò a piovere. Piovve a dirotto per giorni e notti intere; scomparso il sole, tutto divenne grigio sotto la pioggia fredda e greve. Rigagnoli d'acqua torbida, motosa, scorrevano lungo i pendii, si raccoglievano a valle ad ingrossare il torrente. Il Rio di Giovo rumoreggiava sinistramente, rimbombando tra i massi in onde schiumose, in vortici paurosi. Poi l'onda rovinosa ruppe gli argini, si riversò sulle campagne travolgendo tutto ciò che incontrava sul suo cammino. E la pioggia non cessava. Dalle soglie delle case disseminate lungo la costa i contadini scrutavano il cielo, sperando in un raggio di sole. Ma l'acqua come per cattivo sortilegio, cresceva, cresceva ed in breve raggiunse il pendio, scacciando i miseri dalle loro case. Bisognava fuggire, mettersi in salvo finchè c'era ancora tempo; ma dove? Da un'altura a ridosso del monte, una chiesetta tutta bianca, nello spento grigiore del cielo, sembrava invitare gli infelici a cercare lassù un asilo più sicuro. In lunga e lenta fila, i profughi salirono fino all'ospitale rifugio; davanti gli uomini curvi sotto il peso delle masserizie strappate con tanta fatica alla rapacità dell'acqua, dietro le donne con i bimbi più piccoli in collo e i più grandicelli per mano, in silenzio, senza speranza, con il cuore gonfio di pianto e d'angoscia. E la chiesetta accolse quella gente sventurata. Dall'alto dell'aguzzo campanile la piccola campana, la Sant'Orsola continuava a far sentire intorno la sua voce. Piangeva la piccola campana, implorava, invocava pietà e i lenti rintocchi scendevano fin giù nella valle, smorzandosi nella nebbia che stagnava pesante sulla terra sommersa. Come sembravano lontani, ora, i bei giorni di festa! La campana riempiva dei suoi squilli giocondi il monte e la valle. Dalle case, la gente sciamava allegra e saliva alla chiesuola, ed era tutto un garrire di rondini attorno al campanile, mentre sul piccolo sagrato i bimbi giocavano, garruli, al sole. Ma il ricordo del tempo felice rendeva ai miseri più dolorosa, più disperata la loro avventura. E il cielo era sempre nero, nemico, e non smetteva di piovere. Gli uomini guardavano con gli occhi persi l'acqua che continuava a salire e già minacciava anche la chiesetta. Non c'era salvezza, dunque, neppure lassù? Tristemente, i profughi, si rimisero in spalla le loro poche cose e s'incamminarono verso il monte. Soltanto il vecchio campanaro rimase. Come poteva, lui, così vecchio e solo, lasciare l'unica cosa sua, la più cara al suo cuore, la piccola campana? Al mattino, a mezzogiorno, a sera, il vecchietto si rifugiava nel campanile, afferrava con tutte le sue povere forze la fune e tirava, din, don, dan, din, don, dan… La campana rispondeva, riempiva con la sua voce quel lugubre silenzio di morte. Ma lentamente, sotto lo sguardo impietrito del poveretto, l'acqua giunse a lambire il sagrato. Bisognava fuggire finchè s'era in tempo, fuggire subito! Curvo, appoggiato al suo bastone, il vecchio campanaro lasciò la chiesetta, ma prima di allontanarsi, sollevò gli occhi verso il campanile: «Addio, Sant'Orsola - disse con voce di pianto - addio! D'ora in poi non potrò più esserti d'aiuto e dovrai suonare da sola! Addio!». E con passo stanco, più vecchio, più curvo che mai, s'allontanò per il sentiero che portava verso l'alto del monte. Camminava già da un bel po’, quando gli sembrò di udire nell'aria, smorzati e fievoli, i rintocchi di una campana. Credette di sognare e sostò in ascolto. Un rintocco, tanti rintocchi sempre più distinti e sonori:«Mio Dio, ma questa è la Sant'Orsola!» esclamò stupito il buon campanaro e stette ad ascoltare come rapito in un'estasi beata. Din, don, dan, din, don, dan… «E' la sua voce, questa, la sua voce!». E il vecchio rideva e piangeva di gioia come un fanciullo. Continuò a suonare la fedele Sant'Orsola per molti giorni ancora e tanto suonò, che la pioggia a poco, a poco smise di cadere ed apparve il sole. Splendido come un Dio, vinse la tetra nuvolaglia, sfolgorò radioso sulla valle. L'acqua nera, limacciosa cominciò a scendere, la nebbia si sfaldò in veli leggeri che il vento disperse lontano. La terra era avida di sole: sole, sole, sole chiedevano gli uomini, gli animali, le piante. Col sole la terra lentamente risorse a nuova vita. Gli uomini ricostruirono pazientemente le loro dimore, ripresero a lavorare i campi con rinnovato amore. I solchi accolsero le sementi, campi e prati fiorirono. Gli alberi, come ad un invito misterioso, si coprirono di gemme, le gemme si tramutarono in foglie e fiori, i fiori divennero frutti. Una nuova vita risorgeva nella remota Val di Giovo e nella memoria degli uomini svanì a poco a poco anche il ricordo della lontana e terribile sciagura. Ma lassù, nell'alta valle, la montagna rimase spoglia e nuda, né un ciuffo d'erba né un crespo d'erica ravviveranno mai più la morta roccia
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Il Lago di Luco
Val d'Ultimo (BZ)
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Estate. L'alpe di luco è tutta di smeraldo. Fra il verde della prateria occhieggia limpido, chiaro, il piccolo lago che dall'Alpe prende il nome: il lago di Luco. Il mattino è sereno; il giorno promette bene. Già le mandrie sono uscite al pascolo: s'ode di lontano il suono festoso dei campanacci. Ecco leo, il mandriano. E' un ragazzotto robusto, ben piantato, dall'atteggiamento fiero, un po’ spavaldo. Viene avanti schioccando la lunga frusta, è allegro. L'eco coglie a volo gli schiocchi alti e sonori e glieli rimanda ad uno ad uno, senza sbagliare; il gioco è divertente. Leo guida la mandria nelle vicinanze del lago, dove il pascolo è grasso ed abbondante. Calme, le mucche si spargono qua e là e affrontano avide il muso nell'erba sapida e rorida di rugiada. I vitellini vivaci si sbizzarriscono in buffe piroette attorno alle madri poi, ghiotti, si mettono a brucare. Seduto sull'erba, Leo sorveglia il bestiame, richiama qualche animale che sta per allontanarsi troppo dal branco e comincia a fantasticare. Come d'incanto la sua solitudine si popola di personaggi cari alla sua fantasia: sono maghi potenti, fate benefiche, vispi nanetti, folletti capricciosi. E' tutto un mondo, il mondo delle fiabe, delle leggende, che egli, fin da piccolo, ha udito narrare dalla nonna e dal nonno, nelle lunghe veglie invernali. Si avvicina al lago. Com'è calmo e limpido! Nelle sue acque si specchiano alcune lievi e bianche nuvolette. Una libellula verdazzurra si libra a volo sulla tersa superficie, la sfiora, intreccia agili voli, plana, scatta verso l'alto, scompare. Una rana affiora fra l'erbe della riva. Si tuffa, zaff… plaff… un gorgo, è sparita. Leo guarda quelle acque placide e mute. Chi gli ha mai detto che in fondo al lago vivono delle orribili streghe, dannate ad un'eterna prigionia? Guai a turbare quelle acque! Tremenda, inesorabile si scatena la vendetta delle prigioniere. Leo scruta affascinato il lago.«Fole, fole», dice come parlando tra sé e scoppia in una risata alta e squillante. La voce rimbalza lontana sulle rocce, si spegne. Di nuovo è silenzio nella prateria. Il mandriano, come preso da un sottile incantesimo, torna a fissare le acque; ombre scure passano sul suo viso. Ma perché non tentare di sciogliere finalmente il mistero? Se incantesimo c'è, si vedrà. E' una sfida? Forse. Deciso, il giovane leva di tasca la coroncina del rosario e la getta nel lago. Crede, l'incauto, di scoprire, così, se nel lago ci siano veramente le streghe! Imprudente! Ora lo saprai. Enormi nuvoloni neri avanzano dai quattro punti dell'orizzonte, si ammassano rapidamente, si accavallano, oscurano il sole, coprono l'azzurro. D'improvviso si fa notte. Bagliori di fuoco rompono di tratto in tratto le tenebre seguite da tuoni che riempiono l'aria di schianti e di fragore. Ulula il vento e spazza la prateria. Senza più freni si scatenano le forze immani della natura, sconvolgendo nella loro furia il sereno mondo dell'alpe. Impazzisce di terrore l'armento; l'aria rintrona di muggiti, mentre il saettante bagliore dei lampi illumina per un attimo una massa biancheggiante di groppe in fuga. Solo, indifeso, il mandriano è in balia della bufera. Vorrebbe urlare ma il terrore gli strozza l'urlo in gola, vorrebbe fuggire, ma il terrore lo inchioda al suolo. E' solo, il disgraziato, solo, disperatamente solo. Gli sembra di affogare, di sprofondare sempre più in quell'abisso di tenebre che sommergono cielo e terra. Si copre gli occhi con le mani. Quanto durerà? Un lampo, uno schianto. Come morto si abbatte sull'erba, il poveretto. Per ore ed ore imperversò la bufera e finalmente tornò il sereno. Quando il ragazzo rinvenne, vide attorno a sé uno spettacolo miserando: morto il bestiame, devastato il pascolo. Livide le montagne sembravano guardare lontano tanta desolazione e tanta rovina. Inebettito, Leo girovagò a lungo per l'alpe, senza darsi pace. Ora conosceva il mistero del lago. L'avrebbe rivelato al suo padrone?
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Le Genti Misteriose
Val Pusteria (BZ)
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Un tempo assai lontano, sui monti di Onies, che cupi e selvosi s'innalsano verso il «Vallo delle Gane», viveva una stirpe di uomini misteriosi. Chi fossero, donde venissero, non è scritto neppure nei libri più antichi e, invano, cercherebbe il curioso che volesse saperlo. Abitavano, costoro, in tetre caverne rocciose, in luoghi solitari, sdegnosi d'incontrarsi con altri uomini. Gente selvatica era quella. Alti e robusti come querce erano gli uomini, e adusi a tutte le intemperie. Con ogni tempo, in ogni stagione, uscivano a caccia per boschi e foreste: del bosco, della foresta, essi conoscevano tutti gli agguati e non temevano né il lupo, né l'orso, ch'essi affrontavano armati d'ascia, d'arco e di frecce. Le donne erano timide e silenziose; custodivano il fuoco, arrostivano la cacciagione, crescevano con grande amore i figli come fanno tutte le mamme del mondo. Ma non sempre quegli uomini solitari, duri, scontrosi, erano sordi alla voce degli altri uomini, dei fratelli che abitavano nei casolari sparsi sui declivi e nella valle. Nel bisogno, nella necessità accorrevano, si prodigavano con generosità e premura. Ma guai se qualche malintenzionato avesse osato recar loro offesa: la loro vendetta era certa e crudele. Non di rado le fanciulle di quella strana stirpe lasciavano le loro fredde caverne per mettersi a servizio in qualche famiglia di contadini. Che cosa le attirava al piano? Forse il calore di una casa - una vera casa - ospitale ed accogliente, o i modi umani, cordiali della gente? Forse l'uno e l'altro, e le famiglie di Onies accoglievano volentieri le timide fanciulle che venivano dal «Vallo delle Gane». Esse, infatti, solerti e laboriose, accudivano con ogni diligenza ai lavori in casa, nei campi, nella stalla. Ma pur vivendo tra gente amica, esse si mantenevano schive, né gradivano d'essere interrogate su cose o fatti riguardanti la loro vita, la loro famiglia. Strane creature! Come un triste retaggio, esse portavano con sé, nei modi e nell'anima, quella scontrosità, quella selvatichezza, che neppure la vita serena e la familiarità, con gente buona e di cuore, riusciva a vincere. Così infatti erano gli abitanti delle caverne, perpetuamente corrucciati, dannati ad una vita squallida, arida, senza gioia. E, poiché non conoscevano la gioia, odiavano tutto ciò che di bello, di buono possedevano gli altri uomini. E odiavano, i disgraziati, perfino la voce delle campane, l'armonia dell'onda sonora che unisce la terra al Cielo, l'uomo a Dio. E tale era il loro astio che, in ischerno, chiamavano bubboli da capre le piccole campane dalla voce argentina. Ma ciò non bastava, chè i sacrileghi davano spesso l'assalto ai campanili, rubavano le campane per poi sotterrarle in luoghi nascosti ed inaccessibili. Tempi oscuri erano quelli. Lentamente, faticosamente la parola di Cristo penetrava nelle nostre valli. Ma già i primi cristiani di Onies avevano costruito la loro chiesetta e dall'alto del bianco ed esile campanile una piccola bronzea campana spandeva intorno i suoi squilli chiamando i fedeli alla preghiera. L'udirono gli uomini misteriosi e ne provarono rabbia e dispetto. Di notte, quei tristi scesero dal monte e rapirono l'innocente campana andando a seppellirla su, su, ai piedi di uno scosceso dirupo, sotto un pesante cumulo di pietre. Troppo tardi se ne accorsero i Cristiani! La cercarono disperatamente al piano, al monte, invano; della campana nessuna traccia, nessun segno. Per molti, molti secoli, la piccola campana rimase lassù, muta e prigioniera del buio. Ma sta scritto che una campana benedetta non rimarrà per sempre prigioniera; presto o tardi verrà qualcuno a liberarla, o riportarla alla sua chiesa, al suo campanile. Un giorno, dunque, un pastorello (i misteriosi abitanti del «Vallo delle Gane» erano ormai scomparsi) salì con il gregge ai pascoli alti. Come il solito, lasciò che le pecore si mettessero a brucare, e si spinse su per un costone in cerca di pigne di mugo. Lassù i mughi erano folti e le pigne, coi dolci pinori, vi si dovevano trovare in abbondanza. E su, e su, d'un tratto il ragazzo sollevando gli occhi, vide qualcosa brillare ai piedi delle crode rocciose, dove un tempo avevano abitato le genti misteriose. Che poteva essere? «Forse un tesoro» si dice l'ignaro pastorello ed incuriosito, in men che non si dica, raggiunse il luogo da cui aveva visto venire il luccichio. Ma non c'erano che pietre, lassù, pietre bianche, grige, taglienti, levigate dalla pioggia e dalla neve. Per nulla scoraggiato, si dette a rovistare, a scavare fra il pietrame, con le mani, con le unghie, affannosamente, senza darsi respiro. Il tesoro - poiché, secondo il ragazzo, non poteva trattarsi che di tesoro - doveva essere nascosto là sotto. E scava e scava (erano tutte un taglio quelle povere mani!) finalmente apparve il tesoro. E che tesoro! Era la campana di Onies, la campana rapita. Com'era bella, così lucida e tersa! Il sole vi si specchiava in un'aureola di barbagli d'oro. E ancora intatta, era, senza una scalfitura, senza un'incrinatura, con il suo piccolo, tondo battaglio di bronzo, pronto a rimbalzare entro la concava cupola sonora. Che prodigio, dopo tanti e tanti anni! Troppo felice, il pastorello dimenticò in quel momento le sue pecorelle e corse, non corse, volò per balze e sentieri, fino in paese a portare la notizia del fortunato rinvenimento. Chi sa dire il giubilo dei Cristiani di Onies? In processione riportarono in paese la campana ed essa riprese il suo posto, là sull'esile campanile, che da troppo tempo, ormai, attendeva orfano e solo. Ancora oggi, la fida campana, librata lassù nell'azzurro, chiama i fedeli, canta nella gioia, implora nel dolore. Sull'onda viva dei suoi rintocchi, le preghiere degli uomini raggiungono sicure le vie del Cielo
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La Madonna di Senales
Val Senales (BZ)
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Chiusa fra monti, questa nostra terra atesina, sempre c'incanta con la bellezza dei suoi paesaggi e ci parla al cuore con la voce della sua anima austera, profondamente religiosa. Ecco: là presso un crocicchio ci attende un ligneo crocifisso, qua una bianca cappellina sorride tra il verde, più in alto, nel regno della solitudine e del silenzio, forse, un vetusto santuario c'invita alla meditazione e alla preghiera. E, spesso, una pia leggenda è fiorita attorno a quel crocifisso, a quella cappellina, a quel santuario e ci narra di fatti miracolosi, di apparizioni, di ritrovamenti di sante reliquie. E nel dolce rievocare, fatti e cose ci appaiono soffusi di pura e commossa poesia. Anche il Santuario della Madonna di Senales ha la sua leggenda. Ascoltate. Ci fu un tempo in cui, uomini di fede ardente lasciavano la loro casa, la loro famiglia, affrontavano disagi di ogni genere per recarsi a visitare i Luoghi Santi. Vestivano il rozzo sanrocchino ed avevano per unico compagno di viaggio il fido borbone. Lungo e faticoso era il loro cammino, malfide le strade, ma grande e ferma la virtù che li guidava. Si dissetavano alle fonti come gli uccelli del buon Dio ed in Suo nome elemosinavano il poco pane di cui sostentarsi lungo la via. Ogni breve ed angusto riparo serviva per la notte. Molti di essi venivano dai lontani paesi del nord ed andavano a Roma per toccare e baciare quella terra che il copioso sangue dei Martiri aveva santificato. Erano i «romei». Un giorno, due di codesti pellegrini giunsero in Val Senales. La valle è remota, chiusa fra cupe selve e montagne impervie scintillanti di ghiacci, di nevi; (come e perché fossero giunti fin lassù non è detto nella leggenda). Dopo aver camminato a lungo fra bosci, rocce e dirupi, giunsero su di un'altura, dove si apriva una grotta. Qui essi sostarono in preghiera, ringraziando il Signore di aver loro provveduto un rifugio per la notte che stava per sopravvenire. Inginocchiati sulla nuda terra, i due pellegrini pregavano e al loro mistico fervore la natura tutta univa la sua preghiera fatta di mille voci, di infiniti sussurri, di imponderabili palpiti. D'un tratto, uno dei due, forse il più giovane, alzò il capo: era ormai buio. Improvvisamente una luce vivida, intensa si accese e brillò nel bosco vicino. Che poteva significare quel chiarore nella notte? Subito dopo anche l'altro pellegrino alzò il capo e guardò muto la luce misteriosa che sembrava ammiccare di lontano. Si alzarono i due uomini e, attirati da una forza irresistibile, mossero verso il luogo dove brillava il misterioso chiarore. Che videro? A terra, sull'erba, stava, come dimenticata da qualcuno, una graziosa tavoletta di legno, finemente intagliata, raffigurante la Madonna e Gesù Bambino seduti sul tronco d'un albero. «Com'è bella!» esclamarono ad una voce i due pellegrini, «e come splende!» E le loro mani tremavano di commozione nel toccarla ed i loro occhi brillavano di gioia nel contemplare le divine sembianze del Bambinello Gesù e della sua Mamma Celeste. Felici, i due pellegrini corsero al maso più vicino a dare la notizia dello straordinario rinvenimento. La lieta novella riempì di gioia quella gente di fede, semplice e buona. Subito vecchi e giovani accorsero sul luogo e videro il piccolo quadro che, nella notte, aveva lanciato il luminoso appello. Commossi s'inginocchiarono pregando, poi, al lume delle torce, la sacra Immagine fu portata in casa e collocata nella «Stube», al posto d'onore, là sotto il grande crocifisso. Ma il mattino seguente la contadina, che per prima entrò nella «Stube», ebbe la dolorosa sorpresa di non ritrovare più, fra i fiori e le candele, la piccola tavoletta Sparita. Fu rinvenuta più tardi nel bosco, nel luogo stesso dove era stata trovata la prima volta. Il fatto, davvero straordinario, si ripetè ancora, ogni qualvolta quella buona gente tentò di portare in casa la sacra Immagine. Capirono, allora, gli ingenui e semplici montanari, che altro e diverso doveva essere il volere del Cielo e di unanime accordo, decisero di costruire in valle, in luogo accessibile a tutti, una chiesetta ove collocare degnamente la tavoletta prodigiosa. Detto fatto. Si misero all'opera; chi trasportava pietre, chi abbatteva alberi, chi lavorava d'ascia e d'accetta a preparare travi e tavole. Ma, dopo qualche tempo, il lavoro iniziato con tanto alacre entusiasmo, sembrò doversi arenare causa i continui infortuni ed incidenti che colpivano i lavoratori. Muratori cadevano dalle impalcature, carpentieri si ferivano ed una sfiducia greve ed opaca demoliva, a poco a poco, la volontà e l'entusiasmo degli uomini. Sconsolati, i buoni montanari guardavano quei muri lasciati a mezzo, quelle cataste di tronchi odorosi di resina che, forse invano, attendevano la mano dell'uomo. Tutto sarebbe rimasto, dunque cosi? Non vollero credere gli uomini, forti, avezzi alle prove e agli ostacoli più duri. Forse … E guardarono in alto. Storni di uccelli si abbassarono, raccoglievano col becco qualche trucciolo e sfrecciavano via, verso l'altura di fronte, Andavano e venivano, lievi, instancabili, tracciando nell'aria un ponte di voli e di trilli, sopra il colle e la valle. Credette la gente di buona volontà, di vedere in quei voli un segno del Cielo e, docile, iniziò là, su quel colle, la costruzione di una nuova chiesetta. Sorse così, dove oggi si trova, il Santuario della Madonna di Senales, a 1508 metri sul livello del mare. I fedeli montanari non dimenticarono e, per rievocare più fedelmente il miracoloso rinvenimento, ogni anno la venerata Immagine viene portata in processione da giovani del luogo vestiti da pellegrini
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Le campanelle di pasqua
valli altoatesine (BZ)
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Finalmente l'uggioso Inverno se ne andò. Un bel mattino, come d'incanto la Primavera s'affacciò alle porte del mondo. Era attesa, chè le gemme degli alberi e delle siepi non aspettavano che il suo magico tocco per aprirsi e la terra, gonfia di succhi e di umori, non desiderava che un suo cenno per ornarsi di erbe e di fiori. «Era tempo» - disse tra sé l'accorto contadino che per lunghi, lunghissimi giorni era stato a spiare il cielo, e, impaziente trasse fuori gli attrezzi del suo lavoro. «Era tempo» - esclamò la massaia, sollevando fiduciosa gli occhi verso l'azzurro e, tutta allegra, prese a sciorinare all'aria il primo grande bucato di stagione.«Era tempo, era tempo» - trillarono i bimbi in coro, uscendo dalle case tetre e buie, e corsero, vispi come uccellini, a cercare la prima carezza del sole primaverile. Dalle aie ripose il festoso coccodè delle galline, alternato all'altisonante chicchirichì dei galli. «C'è qualcosa di nuovo sulla terra - disse un giorno San Pietro, guardando giù sul mondo dal suo alto trono sospeso fra le nubi - vedo, vedo…». La terra rinverdisce, le rondini sfrecciano nell'azzurro e l'aria è piena di gridi, di voci festose di bimbi. Primavera è tornata; dopo il lungo sonno invernale la terra si sveglia, rinasce alla vita. Sorrise il santo Vecchio e «Pasqua è ormai vicina - annunciò con voce esulante - alleluja, alleluja!». «Angeli del Cielo, udite, venite!..». La voce possente volò, si sparse sotto le volte della celeste dimora. Gli angeli erano tutti al lavoro, chè molto c'è da fare nel regno del Signore. Chi stava lucidando le stelle del firmamento, perché più chiare, più lucenti splendessero nella notte, dando gloria a Dio e gioia agli uomini; chi sprimacciava le bianche nuvolette perché più soffici, più leggere corressero per il cielo ad abbellire le albe e i tramonti, a far sognare mondi meravigliosi ai malati immobili nei bianchi lettini degli ospedali, ai bimbi poveri che giocano nei vicoli stretti e scuri… Altri, molti altri, fedeli messaggeri tra la terra e il Cielo, partivano, arrivavano, silenziosi, belli, luminosi, a volte lieti, a volte tristi, s'inginocchiavano ai piedi del Signore, pregavano, talvolta piangevano. Udirono, gli angeli, la gran voce.«E' Pietro che chiama» - dissero - guardandosi l'un l'altro. E chi lucidava le stelle smise di lucidare e chi sprimacciava le nuvolette smise di sprimacciare e tutti accorsero solleciti all'appello di Pietro. Il Gran Vegliardo era là, ritto con il viso radioso entro la lunga barba argentea. «Miei cari, piccoli angeli, fedeli servitori - egli disse - ho una meravigliosa nuova da darvi. Ascoltate». Gli angeli gli si fecero accosto riverenti, mentre nelle loro ali passava un fremito leggero. E' vicina la Pasqua del Signore. Sia gloria a Colui che risorge e gioia e letizia siano in cielo e in terra!». «In quel giorno solenne si sciolgano tutte le campane del Paradiso e il loro "Gloria" si spanda per le infinite vie del Cielo e scenda sulla terra, messaggio di amore e di speranza agli uomini. Preparate le campane per il gran giorno, che esse brillino pulite e terse, come oro, al sole! E saldi siano i battagli e resistenti le funi, perché abbiano a reggere validamente al festoso scampanio. E siate prudenti - soggiunse il Santo - prudenti affinchè non vi accada che una fune, per il gran tirare si spezzi, o che una campana si stacchi dal suo aereo castello e vada a cadere, chissà dove, sulla terra». Gli angeli accolsero in silenzio i saggi ammonimenti del Vecchio, che subito riprese: «Andate, creature fedeli, e fate come ora avete appreso. Gloria al Signore!». Gli angeli si misero al lavoro di lena e dopo breve tempo le campane erano là, issate sui loro alti castelli, lucide e scintillanti come non lo erano mai state prima di allora. E venne il giorno tanto atteso. L'annunciò il sole, alto, raggiante sopra i monti e un brivido di gioia sfiorò la terra. L'erbe nei prati si rizzarono sugli steli sottili e i biancospini si ornarono di mille e mille candide stelline. Giù nella valle i mandorli in fiore coprirono il bruno della terra con la nuvola bianco-rosata delle loro corolle. Un fremente inno di giubilo, di osanna si levò dalla terra, raggiunse, toccò la volta celeste. Gli angeli corsero alle campane, toccarono con mano leggera le funi, poi, tutti all'unisono, via: din, dan, don, din, dan, don… Era un crescendo continuo, possente; l'onda sonora saliva, si dilatava, sorvolando la terra fino ai più lontani orizzonti. Din, dan, don, din, don, dan… Ma d'un tratto che avvenne? Le campane, come impazzite, presero ad oscillare paurosamente nell'aria, più forte, sempre più forte. Non s'avvidero, gli angeli, tutti presi com'erano da quel magico, splendido gioco, che le funi non reggevano, non potevano reggere oltre? Trac, trac, trac… Mio Dio! Una campana si stacca improvvisamente dalla volta, un'altra la segue e un'altra ancora, precipitano, scompaiono entro la massa candida delle nubi. Chi le vede più? «Maria, aiutaci» invocano gli angeli con il pianto e l'angoscia nella voce «aiutaci!» e cadono in ginocchio coprendosi il volto con le mani. E Maria, la Mamma buona, stende pietosa la mano sulla terra: nessuno dovrà piangere per le campane cadute dal Cielo, nessuno dovrà piangere nel santo giorno di Pasqua. Sostenute dalle ali possenti del vento, le campagne si posarono dolcemente sulla terra senza recar danno a nessuno. Miracolo! E dove esse si posarono, spuntarono dal suolo tante e tante leggiadre campanule dalla delicata corolla di un bel viola argentato. Le farfalle, per prime, scoprirono i fiori del miracolo e diedero loro il benvenuto in una festa di voli, di danze gioiose mentre le api, accorse da lontano, riempivano l'aria mattinale del loro festoso ronzio. Spiccavano fra l'erbetta tenera e lucida del prato, le argentee campanule, sparse qua e là, solitarie o a piccoli cespi. Ne erano sbocciate un po’ dappertutto: sui declivi solatii, lungo i sentieri, e, perfino, fra le povere, aride zolle prigioniere della roccia nuda e grigia. Come al solito, quel giorno, alcuni pastorelli uscirono per condurre al pascolo il gregge. Le pecore belavano di contentezza e gli agnellini, nati da poco, zampettavano ancora malsicuri accanto alle madri. Il mattino era sereno e il cielo così azzurro, così terso! Le pecore si sparsero per il prato e i pastorelli si sedettero al margine del sentiero. Solo il più piccolo di essi, che portava in braccio un agnellino tenero e bianco, seguì il gregge. D'un tratto vide che tra l'erba qualcosa di nuovo: no, un fiore come quello non l'aveva mai visto prima d'allora, no, davvero! E com'era bello! Sembrava proprio una campanellina d'argento. Il fanciullo chiamò, felice, i compagni: «Venite a vedere le belle campanelline!» ed ai compagni indicò le piccole campanule occhieggianti tra il verde. Sono le «campanelle di Pasqua» sono i fiori del Signore, e subito ne colse un mazzolino da offrire alla mamma. E ancor oggi, quando la primavera si apre, tornano a far capolino tra il verde, lungo i pendii dei nostri monti, le «campanelle di Pasqua». Dondolano tremule al sole le argentee corolle, fra voli di farfalle e ronzii d'api: sono gli anemoni.
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San Lucano
Valli d'Isarco e di Fiemme (BZ)
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Lucano, il santo Vescovo di Sabiona, era oramai vecchio. Di giorno in giorno le sue spalle si facevano più curve, più lenti e stanchi i suoi passi. Presto, forse molto presto, la silenziosa - la Morte - avrebbe bussato alla sua porta per dirgli: «Vescovo Lucano, il Signore ti chiama! Vieni». Oh, Lucano era pronto alla chiamata, ma una grazia, una grazia sola chiedeva al Signore prima di lasciare per sempre questa terra, e in ginocchio, a mani giunte, così pregava: «Signore Iddio, che leggi nel cuore degli uomini le gioie e le pene, le speranze e gli affanni, accogli, pietoso, l'estremo mio desiderio. Fa che questi miei poveri occhi possano vedere ancora una volta il Santo Padre, il dolce Vicario di Cristo in terra. Quale gioia per me riunire le sue sante parole, quale conforto poter chiudere questa mia lunga vita con la sua benedizione!». Quando venne la buona stagione, Lucano fece sellare la sua mula e, accompagnato da un fido servitore, lasciò Sabiona. Cammina, cammina… un giorno i due viandanti giunsero al margine d'un bosco. Gli alberi alti e folti intrecciavano in alto le loro chiome frondose. L'ombra, il silenzio, la quiete, invitavano ad una sosta. «Fermiamoci qui», disse Lucano scendendo dalla sua cavalcatura, e sciolse la mula perché potesse pascolare più liberamente. D'un tratto, uno schianto di rami e di frasche s'udì venire dal bosco: un orso enorme, spaventoso, usciva in quel momento di tra gli alberi e, grugnendo paurosamente, s'avventava sulla povera mula azzannandola. Pazzo di terrore, il servitore cercò disperatamente rifugio sull'albero più vicino e il vecchio Lucano rimase solo ed indifeso nel pericolo. Non tremò il Santo; alzò gli occhi al Cielo in una muta preghiera, poi, calmo, mosse verso la belva, ancora intenta al pasto sanguinoso e così le parlò: «Gran danno mi arrecasti, belva crudele, privandomi della mia cavalcatura. Ora, in mone di Dio onnipotente, io ti comando di prendermi in groppa e di portarmi per tutta la durata del mio lungo viaggio». Dondolando il grosso testone irsuto, l'orso subito ammansito, s'avvicinò al Santo e si lasciò docilmente sellare e mettere il morso. «Ed ora andiamo», disse Lucano salendogli in groppa e il buon bestione s'avviò trotterellando come il più pacifico, il più mite dei cavalli da sella. E via, via: la strada correva per ampie vallate, per gole e valli ed alture e, per villaggi e città. Il sole dardeggiava sempre più caldo e la polvere e la sete bruciavano la gola, ma Roma era ancora lontana e la strada sembrava senza fine. Dopo molte settimane di cammino, i due pellegrini giunsero a Spoleto. Erano stanchi da non poterne più, avevano fame e sete e subito si diressero verso una locanda. L'oste si fece loro incontro tutto premuroso e pieno di rispetto, preparò la tavola, portò del pane e del vino, poi, tutto confuso e quasi vergognoso, s'accostò a Lucano dicendo: «Perdonate, Monsignore, se la mia casa, oggi, non può offrirvi quell'ospitalità che vi conviene; mia moglie è gravemente ammalata ed io…» e non potè più proseguire, che già il pianto gli faceva nodo alla gola. Il santo Vescovo ebbe pietà del poveretto e si fece condurre al letto dell'inferma. La donna era moribonda; giaceva assopita, il volto più bianco della cera, il respiro lento, affannoso. Nella stanza i figli, i parenti piangevano soffocando i singhiozzi, pregavano. Lucano s'avvicinò in silenzio alla malata, la segnò lievemente con la croce: subito ella aprì gli occhi, si sollevò sui guanciali prorompendo in un grido: «Sono guarita, sono guarita!» Nella stanza, ora, si rideva, si piangeva di gioia, si gridava al miracolo. L'oste guardava estatico la sua donna, timoroso quasi di abbandonarsi a quella gioia troppo grande, troppo bella; i figlioli si stringevano attorno alla mamma, l'accarezzavano e non volevano più staccarsi da lei. Parole, voci, esclamazioni affettuose s'incrociavano attorno alla donna risanata e mai festa più bella, mai gente più felice s'era dato di vedere in quella casa. E tanta era la felicità, che nessuno s'avvide della scomparsa di Lucano. Quando l'oste e i parenti se ne accorsero, lo cercarono dappertutto: dov'era il santo Vescovo? Perché se n'era andato? Si chiedevano affannosamente. Ma Lucano era ormai lontano e calcava di buon trotto verso Roma. Ma via via che s'avvicinava alla mèta, una pena, un cruccio sottile, tormentoso, gli stringeva il cuore, perché non aveva nulla, proprio nulla da offrire al Santo Padre. Lucano era povero e vuota era la sua bisaccia di pellegrino, chè, sempre ogni suo bene aveva diviso tra i poveri, affinchè l'affamato avesse un pane e l'ignudo una veste. Ma un dono, un piccolo dono l'avrebbe pur voluto offrire al Padre amato. Così andando, il Santo e il suo compagno videro ai lati della strada una bella macchia di robinie. Veniva dal verde il giocondo chioccolio d'una fonte e un sommesso bisbigliare d'uccelli. All'improvviso un frullo d'ali agitò le fronde e fr, fr, fr… una, due, tre… uno stormo di pernici si aprì il varco tra il fogliame, spiccando il volo verso l'alto. Ristette gioiosamente stupito Lucano, poi, sollevati gli occhi ridenti disse: «Volate, volate, uccelli del buon Dio, volate dove più azzurro è il cielo e portate al Padre Santo tutta l'allegrezza che vi fa così lieti e felici!». Con un rapido e festoso battere d'ali gli uccelli si lanciarono in alto, sempre più in alto, scomparendo verso il bel cielo di Roma. E a Roma finalmente, giunsero anche i due viandanti. «Signore, ti ringrazio d'avermi concesso questo giorno benedetto», esclamò il Vecchio Vescovo raggiante d'incontenibile gioia e, così come si trovava, con indosso le povere vesti che portavano il segno del molto cammino, corse ad inginocchiarsi ai piedi del Papa. Ma, che è o che non è, d'un tratto senti che il mantello, il suo povero e logoro mantello, gli si faceva pesante, pesante da schiacciargli quasi le spalle; se lo tolse, poiché era tutto zuppo, fradicio di pioggia, cercando, attorno, con gli occhi, un gancio o un chiodo su cui appenderlo. E mentre cercava, un raggio di sole entrò di sbieco dalla finestra, fendette l'aria diritto e lucente come una spada. Non stette a pensarci due volte. Lucano prese il mantello e, senza dir parola, lo gettò sul raggio luminoso. E lì rimase sospeso in uno scintillante pulviscolo d'oro. Guardò attonito il Papa lo straordinario prodigio, ma non se ne stupì, poiché già sapeva che l'umile Vescovo, che gli stava innanzi, era un prediletto del Signore, un Santo. Gli si avvicinò e abbracciandolo, disse: «Gioisci, Lucano, pastore fido e buono, chè ancora una volta il Signore ha voluto mostrarti la sua grazia. Torna, ora, al tuo gregge lassù fra i monti alti e selvosi e che il Signore ti accompagni. Và!» Tornò Lucano alla sua Sabiona ed ivi rimase beneficando il suo popolo, finchè il Signore lo chiamò a sé nella sua gloria. Secoli e secoli sono passati, d'allora, ma il nome del santo Vescovo è sempre vivo e venerato nella Valle d'Isarco, come lo è pure in altri luoghi della nostra Regione
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Le tre fanciulle di Maranza
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Le tre fanciulle di Maranza
Valli d'Isarco e Pusteria (BZ)
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Molti, molti anni or sono giunsero nella Valle d'Isarco tre giovinette. Si chiamavano Aubert, Kubet e Guerre. Il loro nome le diceva straniere, ma nessuno seppe mai donde esse venissero, così povere e sole. Povere e sole camminavano per le vie del mondo, fra genti sconosciute, fra insidie e pericoli. Perché? Forse la guerra, forse la persecuzione di feroci genti pagane avevano costretto le poverine a fuggire, ad andare raminghe di paese in paese in cerca di un rifugio sicuro. Ma un Angelo del Signore era con loro: egli, invisibile, le guidava, sorreggeva i loro passi nel duro e lungo cammino. Fu così che un giorno, cammina e cammina, Aubet, Kubet e Guerre si trovarono alle porte della Valle d'Isarco. Aspra, selvaggia era, allora, la valle, tutta chiusa fra alti monti selvosi. In fondo, fra massi e botri scorreva il fiume schiumante d'acqua e solo la sua cupa voce rompeva il desolato silenzio del luogo. «Mio Dio, dove siamo?» si chiedono, smarrite, le fanciulle e cercano intorno con gli occhi un qualche segno di vita umana. E Guerre, la minore, trema di paura e stringe più forte la mano di Aubet. Ma Aubet è coraggiosa e dice: «Non temere, sorellina, il Signore è con noi. Egli non ci abbandonerà. Su, su, piccina, stringiti a me; insieme, mano nella mano, cammineremo finchè al Signore piacerà indicarci un tetto, un asilo». «Ed io pure sarò sempre con te, sorellina cara, ti difenderò, ti proteggerò» dice Kubet e gli occhi le splendono di santa fierezza. E le tre sorelle, tenendosi per mano, s'incamminano con passo leggero su per il ripido pendio che sale verso il monte. Vanno e vanno, attraversano boschi e pascoli deserti, spesso interrotti da profondi valloni, da scoscesi dirupi e finalmente arrivano a Lazfons. Ma non è questa la loro mèta. Si rimettono di nuovo per via e, dopo lungo cammino, scendono in Val Pusteria. E l'angelo buono è sempre con loro. Hanno sete? Una forte montanarina offre alle loro aride labbra la sua acqua limpida e fresca. Hanno fame? Il bosco generoso tiene in serbo per loro le bacche più dolci e mature. E quando l'aria imbruna e la prima stella occhieggia ancor sola nel cielo, una capanna, una grotta ben difesa offrono alle fanciulle un buon riparo per la notte. Cammina, cammina… Aubet, Kubet e Guerre, da Rio di Pusteria, per il Katzensteig, salgono verso Maranza. Ma il sentiero è tanto ripido e le povere fanciulle sono stanche, stanche da morire. Ed è luglio. Alto, nel cielo tersissimo, splende il sole e la campagna è in festa. Tutte le siepi sono fiorite e l'erba dei prati, già alta, ondeggia ad ogni soffio di vento, screziata di mille e mille colori. Anche la segale è già bionda nei campi poveri e magri e fra gli esili steli spiccano le macchie rosse e turchine dei rosolacci e dei fiordalisi. Ma il sole brucia e le pietre del sentiero scottano sotto i piedini nudi e scorticati. Ecco, non reggono più alla fatica e sfinite si abbandonano all'orlo di un prato. Ed hanno fame e sete, tanta fame, tanta sete! Dice Aubet, la maggiore, dal dolce composto viso di madonnina: «Non dobbiamo temere, sorelline care! Preghiamo il Padre ch'è nei cieli ed egli ci aiuterà». E subito s'inginocchia e prega:«Signore, soccorrici, mandaci un po’ d'ombra, un po’ di frescura! Noi moriamo!…» E, come d'incanto, ecco, ergersi al margine del prato un albero alto e frontoso che allarga intorno, pietoso, la sua chioma ed avvolge nella sua ombra ristoratrice le tapinelle. Allora Kubet, esile e bionda, con voce fatta trepida dalla gioia, dalla speranza, si getta in ginocchio e dice:«Grazie, Signore, dell'ombra che ci hai dato. Ascolta ancora la nostra preghiera! Abbiamo fame, non lasciarci perire». E i rami dell'albero subito si abbassano, si curvano sulle fanciulle offrendo alle loro avide mani le più belle, le più dolci ciliegie che si possano immaginare. E Guerre non vuol essere da meno delle sorelle e, congiungendo le mani, timida ed umile mormora: «Siano rese grazie a Te, Signore! Tu ci hai donato l'ombra e il cibo, ma abbiamo sete, ancora tanta sete!… Donaci un po’ di acqua, Signore!». Glo, glo, glo … una polla d'acqua limpida sgorga gorgogliando fra i sassi e l'erbe. Oh, la felicità di immergere la bocca, il viso, le mani in quell'acqua freschissima! Ritemprate, le fanciulle elevano al Cielo un canto di fede e di gratitudine, poi liete e serene riprendono il cammino che le porta a Maranza. Il villaggio è ridente: poche e scure casupole sparse tra il verde e mandrie e greggi al pascolo… Il luogo è bello - dice Aubet - ed abbiamo già camminato tanto!» Fermiamoci qui, aggiungono le sorelline, e chiediamo ospitalità a questa buona gente. E bussano timidamente a qualche porta: chiedono asilo ed offrono, in cambio, lavoro. I rudi, ma pietosi montanari accolgono volentieri le tre giovanette povere e sole e generosamente dividono con loro il poco pane nero e lo scarso companatico. Aubet, Kubet e Guerre hanno trovato, finalmente, un focolare, un tetto, povero si, ma quanto, oh! Quanto ricco di calore, di bontà! Ben presto le fanciulle diventano le beniamine del villaggio. Dal mattino alla sera, alacri e gaie, lavorano nelle case e nei campi, impastano e cuociono il pane, filano la lana, lavano e, se c'è bisogno, zappano la terra, falciano l'erba, concludono al pascolo il gregge. E se i predoni assaltano il villaggio, le intrepide giovinette si mettono alla testa dei difensori: pregano, impugnano un'arma e combattono. E quando la pace torna nel villaggio, esse riprendono in letizia le loro pacifiche occupazioni, chè il lavoro non manca e c'è sempre chi ha bisogno di aiuto. Lavorano: lavorano e pregano, le buone fanciulle, ed insegnano agli umili montanari a conoscere, ad amare il Signore. E molti di essi si fanno cristiani. Una nuova vita fiorisce nel piccolo, solitario lembo di terra benedetto dal Signore. Pace e serenità regnano nelle famiglie. La terra dà frutti abbondanti, le campagne sono fiorenti, il bestiame riempie le stalle... Anni, molti anni passarono… Che avvenne delle tre giovanette giunte un giorno, povere e sole da un paese lontano? La voce della leggenda tace né a noi è dato di sapere di più. Ma la memoria di Aubert, Kubet e Guerre rimase sempre viva nel cuore della gente di Maranza. Il ricordo della loro angelica bontà vinse il tempo, superò in breve gli angusti confini dell'alpestre villaggio. Nel 1500 esse furono proclamate Sante; sono, ora, le celesti protettrici di Maranza. Nella chiesa del paese un altare è dedicato alle sante fanciulle e un quadro le rappresenta nelle loro dolci sembianze: Aubet col rastrello, Kubet con la lancia, Guerre con il tridente del fieno. Ed ancor oggi la gente del villaggio si rivolge loro nei momenti del bisogno, del pericolo, del dolore. Ed è tanta la venerazione che il popolo ha per le sue Sante patrone, che il luogo dove esse, stanche, si riposarono in quel lontano giorno d'estate, viene chiamato «Jungfraurast», sosta (riposo) delle Vergini
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La teca dove sono conservati l'ostia-carne e i grumi di sangue
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Il Miracolo Eucaristico
Larciano (CH)
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Da oltre dodici secoli a Lanciano è conservato il primo e più importante Miracolo Eucaristico della Chiesa Cattolica. Tale prodigio avvenne verso la metà del secolo VIII d.C., nella chiesa di San Legonziano, per il dubbio di un monaco basiliano sulla presenza reale di Gesù nell'Eucarestia. Durante la celebrazione della Santa Messa, fatta la doppia consacrazione, l'ostia diventò Carne viva e il vino si mutò in Sangue vivo, raggrumandosi in cinque globuli irregolari e diversi per forma e grandezza. L'Ostia-Carne, come oggi si osserva molto bene, ha la grandezza dell'ostia grande attualmente in uso nella Chiesa latina, è leggermente bruna e diventa tutta rosea se osservata in trasparenza. Il Sangue è coagulato, di colore terreo, tendente al giallo-ocra. La Carne dal 1713 è conservata in un artistico Ostensorio d'argento, finemente cesellato, di scuola napoletana. Il Sangue è contenuto in una ricca e antica ampolla di cristallo di Rocca. Il Santuario è attualmente gestito dai Frati Conventuali Minori della Chiesa di San Francesco.
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Il Liquido Miracoloso di Beatrice d'Este
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Il Liquido Miracoloso di Beatrice d'Este
Ferrara (FE)
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Il Convento di Sant'Antonio in Polesine, abitato dalle Monache Benedettine a partire dal 1297, custodisce le spoglie di Beatrice d’Este. Dalla pietra tombale dove era originariamente custodita la salma (ora spostata), continua a formarsi un liquido, che le suore raccolgono in ampolle, a cui i credenti attribuiscono proprietà miracolose. All’interno sono visibili pregevoli affreschi di scuola trecentesca.
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L'Ostia che sprizzò Sangue
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L'Ostia che sprizzò Sangue
Ferrara (FE)
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Santa Maria in Vado è uno dei luoghi di culto più antichi e venerati di Ferrara, legato al miracolo avvenuto il giorno di Pasqua del 1171. L’Ostia, durante la celebrazione della Santa Messa, sprizzò sangue producendo macchie (ancora visibili) sulla volta della Cappella. Da allora la Chiesa è sacra al culto del ‘Preziosissimo sangue’. All’interno pregevoli opere del Filippi, Bononi e Scarsellino.
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La Testa del Frate di Santa Maria Maggiore
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La Testa del Frate di Santa Maria Maggiore
Firenze (FI)
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Un condannato stava andando verso la morte, e mentre passava davanti alla chiesa di Santa Maria Maggiore,
Un frate si affacciò da un finestrino tondo
posto sopra la porta laterale della chiesa, proprio di faccia a Via de' Conti.
Il finestrino era così piccolo da far passare solo la sua testa.
Il frate esclamò verso il condannato:
"Dategli da bere, 'un morirà mai"
il condannato gli rispose:
"E la testa di costì tu 'un la leverai".
In effetti il frate non riusci più a togliere la testa dal finestrino e di lì a poco morì.
Quando lo tolsero, misero una testa di pietra, perchè rimanesse sempre la memoria di tale fatto.
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La bolla papale che attesta il miracolo
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L'Ostia Incarnata
Alatri (FR)
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La testimonianza di questo evento miracoloso è riportata in un lettera inviata da Papa Gregorio IX al vescovo della diocesi alatrina, Giovanni V. Il documento, datato 13 marzo 1228, riporta il fatto che gli era stato precedentemente descritto dal vescovo, in un documento a noi non pervenuto. Una giovane, suggestionata dal cattivo consiglio di una vecchia strega, dopo aver ricevuto dalle mani del sacerdote l'ostia, la trattenne in bocca fino al momento in cui la nascose in un panno dove, tre giorni dopo, ritrovò l'ostia trasformata in carne. Nella lettera inviata al vescovo (questo documento è attualmente conservato nell'archivio del Duomo di Alatri), il papa interpreta l'evento come un segno divino contro le diffuse dottrine eretiche contrarie al dogma della Transustanziazione. Non è privo di significato, per alcuni, il fatto che tale miracolo sia avvenuto a soli dodici anni di distanza dal IV Concilio Lateranense, nel quale venne ribadita la veridicità del dogma della Transustanziazione (="passaggio totale della sostanza del pane e del vno in quella del corpo e sangue di Cristo, in virtù della consacrazione").
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Il complesso di San Pietro a Monte
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Il cinghiale di Civate
Civate (LC)
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Re Desiderio giunse in una località chiamata Civate, luogo molto grazioso, straordinariamente ameno e dal clima molto salubre, ricchissimo di vigneti ed adorno di boschi, bagnato da abbondanti acque che offrono a tutti una gran varietà di pesci. Questo borgo è anche posto tra due catene di alture di cui una ad oriente comprende il monte Pedale, l’altra ad occidente il monte Barone; a mezzogiorno ed aquilone lo accarezza un lago che sfocia nel fiume Adda; da settentrione la Valle Mater Agraria…
Mentre (Desiderio re dei Longobardi) ritrovava in tanta serenità la pace dello spirito, un giorno il figlio Adalgiso, un bel ragazzo prestante, uscì con i compagni per cacciare, caso mai si imbattesse in un cervo, un orso o un cinghiale o qualsiasi altro animale della foresta, e giunse con molto sforzo, attraverso la boscaglia intricata, sul monte Pedale. Parecchio affaticato per il difficile cammino, si asciugava il sudore abbondante nella frescura, sotto l’intreccio folto delle fronde, nell’ombra silvestre e, per refrigerarsi, si ristorava alla brezza.
Alzato lo sguardo, poco lontano vide un enorme cinghiale che grugniva divorando castagne e ghiande selvatiche. Lo inseguì coi cani. Il cinghiale, veramente stupefacente per mole, forza e zanne acuminate, uscì con violenza allo scoperto in modo tale da essere assalito dai cani dai denti possenti. Infine, stremato dall’immane lotta, si diede alla ricerca di un rifugio solitario e nascosto.
Dopo aver scorazzato vagabondando con tremenda ferocia qua e là, giunse su un poggio del monte posto sotto le cime più alte, dove lo accolse una gradevole radura. In quel tempo, infatti, vi viveva un servo di Dio, di nome Duro, che scegliendo una dimora solitaria, lì esercitava il suo ufficio sacerdotale e vi conduceva una esistenza semplicissima, costruendo un piccolissimo oratorio in onore del beato Pietro. Il cinghiale dunque, cercando la salvezza nella fuga, trovò l’ingresso della chiesa spalancato. Deposta senza indugio la sua ferocia, si acquattò presso l’altare, quasi consegnandosi alla protezione dell’apostolo, chiedendo da lui un aiuto.
Adalgiso, allorché lo scoperse, irruppe nella chiesa desiderando ardentemente uccidere il cinghiale e, prima ancora di scagliarsi sull’animale, improvvisamente sperimentò un fatto meraviglioso, un’opera stupefacente mai più vista, dal momento che fu privato della vista e della luce! Adalgiso sprofondò nelle tenebre; da lui era fuggita la luce del giorno!
Quel venerando padre allora, Duro, testimone di un così grande prodigio con altri che erano sopraggiunti, per la cecità… innalzò in quel medesimo luogo sacro una preghiera al Signore. Pure lo stesso ragazzo, vedendosi privato della luce, cominciò a promettere copiosi doni e ad elevare grandi voti: se il Signore gli avesse ridonata la vista, avrebbe innalzato una chiesa, naturalmente dedicata a San Pietro, più ampia di quella precedente e l’avrebbe arricchita con molte decorazioni e, riportatevi le reliquie del beato, promise di conservarle lì con grande venerazione.
Dopo aver pronunciate così tali promesse, per intervento della misericordia divina riacquistò la luce degli occhi! Dunque, tutti coloro che erano presenti rendevano grazie a Dio, che così meravigliosamente tutto dispone…
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Il Ponte del Diavolo
Borgo a Mozzano (LU)
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Un capo muratore aveva iniziato a costruirlo ma ben presto si accorse che non sarebbe riuscito a completare l'opera per il giorno fissato e preso dalla paura delle possibili conseguenze si rivolse al Maligno chiedendo aiuto al fine di terminare il lavoro. Il Diavolo accettò di completare il ponte in una notte in cambio dell'anima del primo passante che lo avesse attraversato. Il patto fu siglato ma il costruttore, pieno di rimorso, si confesso con un religioso della zona che lo consigliò di far attraversare il ponte per primo ad un porco. Il Diavolo fu così beffato e scomparve nelle acque del fiume.
Il ponte della Maddalena (come viene propriamente chiamato) unisce le due sponde del fiume Serchio all'altezza del paese di Borgo a Mozzano. La sua costruzione risale ai tempi della Contessa Matilde di Canossa (1046-1115), che ebbe grossa influenza e potere su questa zona della Toscana, la Garfagnana, ma il suo aspetto attuale è dovuto alla ricostruzione effettuata da Castruccio Castracani (1281-1328), condottiero e signore della vicina Lucca, nei primi anni del 1300. L'aspetto del ponte è quello medievale classico a 'schiena d'asino', con la differenza, che qui diventa caratteristica unica, che le sue arcate sono asimmetriche e quella centrale è talmente alta e ampia che la sua solidità sembra una sfida alla legge di gravità.
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Il Santo che abitava in un faggio
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Il Santo che abitava in un faggio
Castiglione di Garfagnana (LU)
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Il viottolo era ripido, ingombro di sterpi e di ciottoli. Che fatica salire con quell'enorme sasso tra le braccia! Nandino non ne poteva proprio più. Quanto mai non aveva preso uno di quei sassetti, che si possono tenere in tasca! Va bene che era una penitenza, ma con quel caldo, con quella salita… - Ehi, Ricuccio, ne abbiamo ancora per tanto? - chiese al cugino che gli camminava davanti. Quella mattina, di buon'ora, era stato uno scherzo avviarsi. L'aria era fresca e gli alberi, sulle loro teste, facevano una bella ombra. A mano a mano, però, che il sole si era alzato e il caldo aveva cominciato a fiaccar le gambe, i passi erano diventati lenti, faticosi, e il peso del sasso addirittura insopportabile. - Bè, non saprei… -, rispose Ricuccio, dopo un po’, fermandosi per riprender fiato. - Guarda un po’... Alzarono gli occhi lungo tutta la fiancata del monte: in cima, bianco e aguzzo, spiccava il campanile della chiesa. Era lassù che dovevano arrivare: alla Chiesa del Pellegrino. E là, finalmente, avrebbero potuto depositare la pietra trasportata per tutta l'altezza della montagna, come penitenza per i peccati commessi. Si snodava davanti a loro una lunga fila di persone e ciascuna, donna, uomo, o fanciullo, portava la propria pietra. - Ehi, voi, ci muoviamo? - disse qualcuno alle spalle di Ricuccio. I due ragazzi ripresero lentamente a salire. Che bello quando, al ritorno, avrebbero potuto godersi l'ombra dei noccioli e il fresco dei prati!
Forse Nandino e Ricuccio non sapevano che quel loro pellegrinaggio si ripete da mille anni. Forse non sapevano che per mille anni, pellegrini di ogni paese si erano inerpicati per quel viottolo e per altri viottoli della «Gran Selva» con lo scopo di raggiungere la cima della montagna dove, in un faggio, appunto mille anni fa, viveva un re. Era venuto dalla lontana Scozia, dove aveva lasciato il suo regno, il suo trono a cavallo di un delfino, aveva raggiunto l'Italia. Dopo aver peregrinato un po’ qua e un po’ là, si era finalmente rifugiato in quella parte dell'Appennino Tosco-Emiliano. Non aveva fissa dimora; la sua umiltà, il suo spirito di adattamento gli consentìvano di riposare ovunque si trovasse e cibarsi di cardi selvatici. Ammansiva le belve, curava gli infermi, aiutava chi era più misero di lui. E i popoli di quelle montagne, che accorrevano a lui per qualsiasi bisogno, ben presto lo santificarono, chiamandolo San Pellegrino. Il Santo ebbe dei seguaci tra cui, il più fedele, fu San Bianco. Insieme, San Pellegrino e San Bianco proteggevano i viaggiatori, che a quell'epoca correvano pericoli di ogni sorta. Ed era gran conforto, per chi doveva muoversi da una località all'altra, sapere di poter fare affidamento sui due buoni Santi! San Pellegrino visse così fino a cent'anni quasi. Poi improvvisamente non si seppe più nulla di lui e non se ne sentì più parlare. Poi un giorno una donnetta lo trovò morto, rinsecchito e incartapecorito, sulle falde del monte, adagiato su un giaciglio di foglie. Questa donnetta del Frignano insieme al marito, lo seppellì e, scelti due lunghi rami di faggio, i più dritti, li legò insieme per farne una croce da porre sul piccolo tumulto. Una lunga vita svolta tutta per il bene con un amore profondo e caritatevole per il prossimo, finiva così, sotto le braccia di una croce improvvisa.
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Il Caprone Diabolico di Sant'Anna
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Il Caprone Diabolico di Sant'Anna
Fornovolasco (LU)
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Una mattina, un uomo di Fornovolasco, andò al mercato di Massa per comprare un vitello. Mentre tornava a casa, con il vitello sulle spalle, ragionava su come era stato bravo a raggirare con l'astuzia il venditore. Ma più ragionava più il vitello cresceva ed aumentava di peso. Così decise di fermarsi alla chiesetta di Sant'Anna per riposare. L'uomo si rese conto che il vitello era diventato un grosso caprone, che era in realtà il diavolo stesso. L'animale fuggì nel bosco lasciando dietro di sè striscie di fuoco. L'uomo, terrorizzato, corse in paese e raccontò il fatto ad i suoi compaesani i quali decisero di dare la caccia al diavolo, ma non lo trovarono; però notarono che sul muro della chiesetta di Sant'Anna era apparsa un'impronta nera di animale. Provarono a mandarla via ma non ci riuscirono, essa riappariva sempre!
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Il corpo mummificato di S.Zita nella chiesa di S.Frediano a Lucca
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Miracolo delle Rose e dei Fiori di Santa Zita
Lucca (LU)
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La giovane Zita, all'età di 12 anni, lasciò la sua casa e si recò in città, a Lucca, per poter trovare un lavoro. Entrò subito al servizio della famiglia Fatinelli, una famiglia molto ricca di Lucca che abitava vicino alla chiesa di San Frediano. Ogni giorno quando i signori Fatinelli avevano finito di mangiare Zita riempiva il suo grembiule dei pezzi di pane che restavano e li portava ai poveri; ma un giorno mentre scendeva le scale trovò il suo padrone che con uno sguardo molto arrabbiato le chiese cosa avesse all’interno del suo grembiule; ella non per mentire, ma per indicare come era fiorita la carità, gli disse che aveva soltanto rose e fiori. Il signor Fatinelli incredulo gli chiese di aprire il grembiule, lei lo aprì e vide che i pezzi di pane si erano trasformati veramente in rose e fiori. Il 27 Aprile di ogni anno sulla piazza di San Frediano vengono costruiti dei veri e propri giardini ornati di fiori in ricordo del miracolo delle rose e dei fiori. La gente si reca all’interno della chiesa a visitare ed a baciare l’urna dove da 8 secoli riposa S.Zita per ricevere la benedizione.
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