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Scena di Ulisse e Polifemo
Villa Romana del Casale - Piazza Armerina (EN)
Ulisse e Polifemo
Acitrezza (CT)

La leggenda dell'incontro di Ulisse con Polifemo, che è una chiara metafora della superiorità dell'intelligenza sulla violenza, ha la sua esaltazione letteraria nella "Odissea". Il poema omerico fu scritto circa sette secoli prima della nascita di Cristo, ma con ogni probabilità riprese leggende che già si tramandavano popolarmente da epoche precedenti. Ulisse, nel suo pellegrinaggio lungo il Mediterraneo per tornare nell'isola di Itaca dopo l'assedio di Troia, approda in un'isola, la "Terra dei Ciclopi", dove chiede ospitalità al gigantesco e selvaggio Polifemo. Il ciclope, però, gli uccide alcuni compagni e li divora. Per salvarsi, Ulisse fa ubriacare di vino il rozzo gigante, gli acceca l'unico occhio e così può tornare ad imbarcarsi. Inutilmente il ciclope accecato tenterà di colpirlo lanciandogli come massi le cime di alcuni monti identificate dalla leggenda nei "Faraglioni di Acitrezza". L'autore della "Odissea" aveva scritto che la "Terra dei Ciclopi" era un'isola del Mediterraneo: fu un poeta del quinto secolo avanti Cristo, Euripide, nel dramma satiresco "Ciclope", a localizzare la "Terra dei Ciclopi" nella fascia costiera che separa l'Etna dal mare. La leggenda passò poi nella letteratura romana e venne ripresa da Virgilio che nel libro III della "Eneide" immaginò una sosta di Enea in Sicilia durante il viaggio da Troia verso il Lazio. L'esule troiano -secondo i versi di Virgilio- approdò vicino all'Etna e qui incontrò un ex compagno di Ulisse, Achemenide, il quale gli raccontò il modo in cui Ulisse aveva sconfitto Polifemo.

Il mito di Aci e Galatea
Il mito di Aci e Galatea
Acitrezza (CT)

Nella striscia di costa jonica contrassegnata dai "Faraglioni di Acitrezza" è ambientata una delle leggende più poetiche dell'antichità, quella che racconta la vicenda passionale della bella ninfa Galatea, figlia del dio marino Nereo, e del suo innamorato, il mite pastorello Aci.
Secondo l'antico racconto, il rozzo ciclope Polifemo, invaghitosi della ninfa, schiacciò il rivale sotto un macigno e gli Dei, impietositi dallo strazio di Galatea, trasformarono il sangue del pastorello in un fiume che trova pace nel mare dove l'attende l'abbraccio affettuoso dell'innamorata.
La fantasia ha così personalizzato, ammantandoli di poesia, l'infuriare periodico dell'Etna (interpretato dalla violenza del ciclope Polifemo), la spuma del mare (il candore della pelle della ninfa Galatea) e il fiume Aci, che scorreva nei pressi di Capomulini (il pastorello innamorato).


Scilla e Cariddi
Provincia di Messina

La mitologia dello stretto è molto ricca di fatti legati agli dei e al mare. Già la nascita della Sicilia è legata ad una forconata assestata da Nettuno all'Italia. Il culto di Nettuno fu molto forte (tanto che gli vennero dedicati tre templi) e a lui è dedicata una fontana, in cui Scilla e Cariddi sono incatenati. La forma del porto è legata alla leggenda dell'evirazione di Urano, da parte del figlio Cronos, con una falce di selce. Il figlio dopo l'operazione buttò nel mare di Messina l'arma, che si trasformò nella lingua caratteristica del porto. Orione venne considerato una specie di fondatore della città, grazie alla sistemazione che diede al porto e al capo Peloro (le barriere di puddinga presenti nei due luoghi sono opera sua?). Sicuramente il mito di Scilla e Cariddi è quello più famoso. Le due donne sono state vittime di fatti atroci e destinate al controllo delle sponde dello stretto, con l'intento di ostacolare il passaggio ai naviganti. Cariddi, che significa vortice, fu punita per aver rubato dei buoi ad Ercole mentre attraversava lo stretto. Giove la scagliò nello stretto e la trasformò in gorgo, destinato a inghiottire e rifluire i flutti tre volte al giorno. Questi movimenti imponenti di acqua trovano riscontro nei gorghi che nello stretto sono molto evidenti in prossimità di Capo Peloro con il flusso detto bastardo e di Capo Faro e Punta Sottile con il reflusso detto garofalo. In altri luoghi il mare spesso è in gran subbuglio, come nei pressi di San Raineri. Scilla, che a seconda dell'etimologia può significare pericolo o cane, fu punita con una pozione venefica, preparata dalla maga Circe e gettata, nella fonte in cui soleva bagnarsi, da Glauco. Il giovane figlio di Nettuno, era follemente innamorato della bellissima Scilla, ma non essendo corrisposto volle vendicarsi con questo gesto. La povera Scilla, appena si bagnò, fu trasformata in un mostro con 12 artigli, 6 teste e una muta di cani ululanti (simbolo delle onde che si infrangono nelle grotte) vincolati alla sua cintura. Per l'orrore si buttò nelle acque dello stretto, dando il nome a quella località calabrese, e per vendetta si impegnò a terrorizzare i naviganti di passaggio, compreso Ulisse. Quando questi passò, Scilla riuscì a vendicarsi nei confronti di Circe catturando sei marinai d'equipaggio, che divorò. Il mito di Scilla e Cariddi, nella città di Messina è ricordata con la fontana di Nettuno del Montorsoli.

La Morte di Teodorico
Verona (VR) e Stromboli (ME)

Ad Odoacre, re degli Eruli, che aveva scelto Ravenna come capitale del suo regno, successe Teodorico, il grande re degli Ostrogoti. Egli arricchì la città di nuovi monumenti e le diede una splendida sistemazzione architettonica. Inoltre favorì la cultura e molto si adoperò per ottenere la pacifica convivenza del suo popolo con i Latini.
Nell'ultimo periodo della sua vita, però, divenne assai sospettoso; si sentiva ovunque minacciato ed ovunque vedeva congiure contro di lui. Attuò allora feroci persecuzioni di cui furono vittime, fra gli altri, i filosofi Boezio e Simaco, già consiglieri dello stesso re.
Sulla morte di Teodorico, avvenuta improvvisamente all'età di 72 anni, nacquero parecchie leggende. Eccone due:

Teodorico, re degli Ostrogoti, ebbe una lunghissima e movimentata esistenza: battaglie, conquiste, vittorie, tradimenti e impiccagioni, viaggi, gare, feste, memorabili battute di caccia…
Ma, dopo aver regnato in Ravenna per trentatre anni, la vecchiaia lo costrinse a ritirarsi nel suo cupo castello di Verona.
E qui, passeggiando silenzioso e malinconico sugli spalti, acciaccato dall'età, debole e triste, non gli rimaneva purtroppo che di riandare col ricordo ai bei periodi della sua giovinezza, alle ardite imprese, agli atti di audacia e di scaltrezza…
Non tutto era stato onesto ed esemplare, infatti, nella sua vita. Non tutto era bello da ricordare… Con insistenza gli ritornavano alla memoria le stragi, i popoli vinti, i propri uomini fatti trucidare ingiustamente…
Questo, soprattutto lo tormentava. E dovunque rivedeva l'immagine di Severino Boezio, l'eroico martire. Dovunque gli appariva lo spettro di Simmaco, il più illustre dei suoi senatori…
Il rimorso avvelenava gli ultimi giorni della sua vecchiaia, il ricordo delle sue vittime l'ossessionava notte e giorno.

Una volta, i servi gli portarono in tavola un grosso pesce. Dopo averlo fissato un po’, Teodorico l'allontanò improvvisamente da sé, preso da un enorme spavento.
-Si muove!-, gridava, coprensosi il viso. - Ho visto che gira gli occhi e digrigna i denti!
E tremando di paura, pallido e stravolto, spiegò che nel pesce aveva riconosciuto l'immagine di Simmaco, fatto decapitare da poco.
Fu preso, trasportato in camera sua e messo a letto. Panni caldi e coltri gli furono messi addosso; accorse il medico di corte; ma nulla riuscì a riscaldare e a dar un po’ di pace al poveretto.
La visione del pesce, che roteava gli occhi e digrignava i denti, non l'abbandonò più.
Infine, sentendosi prossimo a morire, il vecchio re si affrettò ad eleggere suo successore il nipote Atalarico, di soli nove anni.
Dopo tre giorni e tre notti di angosciosa agonia, Teodorico morì. Aveva settantadue anni.

Questa press'a poco la realtà. Ma sulla morte del barbaro re c'è anche una fosca leggenda, cantata da Giosuè Carducci in una bellissima poesia. Eccola: Teodorico, che viveva malinconico nel suo castello di Verona, guardava, un giorno, il dolce paesaggio sottostante. Invano il suo scudiero cercava di rallegrarlo, ricordandogli i bei tempi in cui, ancor giovane e gagliardo, cacciava pei boschi…
Egli era assorto così nei suoi pensieri, quand'ecco il suono di un corno, nelle vicinanze, lo fece trasalire. Poi, fulmineo, un cervo dagli zoccoli di smalto e dalle corna d'oro, gli sfrecciò davanti e, attraversata la prateria, s'infilò nel bosco.
Giovani guerrieri lo inseguirono di volata sui loro cavalli, l'arco pronto a colpire… Eccitato da quella visione, Teodorico balzò ai piedi, chiese il suo destriero ed i suoi cani. Ma i vecchi fedeli cani si ritraevano spauriti. Ormai da troppi anni il loro padrone non li conduceva più a caccia!
Invece il cavallo nero, che d'improvviso era balzato accanto al re, fremette e scalpitò, con occhi di fuoco e con la schiuma alla bocca.
Teodorico montò in arcione, partì, e invano lo scudiero gli gridò di fermarsi, di tornare. Il cavallo volava come il vento ed era impossibile arrestarlo.
Va e va, il cavallo, per monti e per valli, per pianure e per colli, mentre Teodorico, che vorrebbe frenare e scendere è trattenuto in sella da una forza invincibile.
Durante la folle corsa il vecchio re si raccomandava alla Vergine e a tutti i Santi.
Ma chi poteva esaudire la preghiera di un uomo dal cuore duro e che aveva seminato tanto dolore?
La Vergine, infatti, era intenta a illuminare la fronte pure e insanguinata dell'eroico Severino Boezio, il quale, nella sua aureola di bianchi capelli, apparve, finalmente, allo sguardo allucinato di Teodorico, mentre il cavallo, ormai oltre il confine calabro, si slanciava verso il cielo con un alto nitrito, inabissando il re nel cratere fumante dello Stromboli.


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