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Il Guardiano dell'Inferno
Il Guardiano dell'Inferno
Bolzano (BZ)

C'era mercato a Bolzano, quel giorno. L'osteria «All'Ospedale» era affollata di contadini scesi in città fin dalle prime ore del mattino. Solo, seduto ad un tavolo un po’ appartato, stava un giovane dal viso pensieroso. Ma ciò che colpiva maggiormente in lui era la chioma; una chioma bianca, che contrastava stranamente con la freschezza del viso ancor quasi imberbe.
Egli girava lentamente lo sguardo sui presenti, ma i suoi occhi erano tristi come se in essi si fosse spenta la luminosa giocondità della giovinezza.
I contadini sedevano ai tavoli, parlavano a voce alta, ridevano rumorosamente, scherzavano. Passavano le bottiglie, si riempivano i bicchieri del rosso e frizzante vino delle colline bolzanesi e, tra un bicchiere e l'altro, si combinavano affari, si intrecciavano amicizie.
Il solitario giovane sembrava non interessarsi a quanto avveniva intorno a lui; stava assorto nei suoi pensieri che, certo, non dovevano essere né sereni, né leggeri, se il suo viso manteneva sempre quell'espressione desolatamente triste ed accorata.
Non rimase a lungo solo, che un vecchio contadino dal viso bonario venne a sederglisi accanto, offrendogli da bere.«Bevi - disse il vecchio - il vino è buono e dà allegria», e così dicendo, sollevò alto il bicchiere. Il ghiaccio era rotto. In breve il contadino seppe conquistarsi la fiducia del giovane e, senza dar a vedere troppa curiosità, gli chiese il perché di quei capelli precocemente bianchi.
Il giovane parve esitare prima di rispondere, poi sommessamente prese a narrare.
«Mi chiamo Jörgl - cominciò il ragazzo - nacqui in una casa poverissima; molte le bocche da sfamare, scarso il pane, scarsissimo il companatico.
«A nove anni fui messo a servizio in casa di un ricco contadino: piansi molto nello staccarmi dalla mamma, dal babbo, dai miei fratellini. Là, nella casa straniera, mi sentivo tanto solo. La notte, nel mio letto, invocavo la mamma, soffocando i singhiozzi fra le lenzuola e solo a tarda ora riuscivo a prendere sonno, con gli occhi ancor bagnati di lacrime.
«Dovevo lavorare dall'alba al tramonto, nella stalla, nei campi, nel fienile. Un giorno - era ottobre - fui mandato nel bosco ad aiutare i servi a raccogliere lo strame. Con la mia gerla in ispalla, fischiettando, m'addentrai fra i pini e gli abeti; il sole giocava fra le verdi chiome disegnando arabeschi d'oro sul muschio verde che tappezzava il terreno.
«Quello era il regno delle cince, dei merli, dei fringuelli. Mi fermai, come sempre, ad ascoltare i loro richiami festosi, i loro gorgheggi canori, divertendomi ad imitare le loro voci, i loro trilli.
«D'un tratto gli uccelli cessarono il loro canto e il bosco si fece improvvisamente muto. Che stava per accadere? Feci per riprendere il cammino, quando mi si parò davanti un uomo. Alto, nero di capelli e di occhi, aveva nell'aspetto qualcosa di strano e di misterioso.
«Impaurito cercai di fuggire, ma egli mi trattenne rassicurandomi che non mi avrebbe fatto alcun male. Benevolmente dimostrò di interessarsi di me, della mia famiglia, ed infine mi chiese d'entrare al suo servizio per sette anni.
«Di che cosa potevo sospettare, io, povero fanciullino?
Accettai subito e chiesi al signore il permesso di recarmi a salutare i miei cari, ma egli non acconsentì.
«Con un oscuro presentimento in cuore, seguii il nuovo padrone. Egli mi condusse con sé per le innumeri vie del mondo; vidi paesi, città meravigliose, udii parlare le più strane lingue, conobbi genti dai più strani costumi.
«Dopo lungo peregrinare, giungemmo in una valle remota, chiusa fra rocce impervie, strapiombanti in orrendi e profondi burroni. Non un segno di vita in quello squallore.
«"Siamo arrivati" - disse l'uomo misterioso - e nei suoi occhi perpetuamente tetri e corrucciati, passò un sinistro balenìo. "Siamo arrivati". Mi guardai attorno disperato, oppresso da quel desolato silenzio di morte.
«"Hai paura?" mi chiese, beffardo, l'uomo. Non risposi; avrei voluto fuggire, fuggire lontano, gettarmi fra le braccia protettrici della mamma. Oh, ella avrebbe saputo difendermi! E invece ero solo. Il misterioso signore continuava a guardarmi con quei suoi occhi tetri e duri. Ora capivo chi era costui, ma troppo tardi.
«Qui egli aveva stabilito la sua triste dimora. Con fare imperioso, m'additò un enorme portone nero dentro la roccia. "Vedi - mi disse - quella è la porta dell'inferno. Giorno e notte - egli continuò - tu dovrai vegliare a quella porta; tu dovrai aprirla a coloro che si presenteranno e chiuderla non appena saranno entrati. Ricordati che da quel portone nessuno, mai, dovrà uscire! Nessuno. Per il tuo servizio avrai a sazietà vino e carne, ma non un goccio d'acqua. Dovrai rimanere qui sette anni, poi potrai tornare al mondo dei vivi. Nella dimora dei morti solo il portinaio dev'essere vivo". Così disse e scomparve.
«Più morto che vivo, cominciai il duro servizio. A schiere giungevano i dannati: erano uomini, erano donne, giovani e, si, anche qualche ragazzo… Sostavano un attimo sulla soglia dell'orribile portone, poi, quasi trascinati da una forza misteriosa, scomparivano nella tetra prigione.«Urla, pianti, accenti d'ira echeggiavano fra le lugubri pareti della dimora infernale. Orrore! Giorno e notte, senza soste, la schiera delle anime perdute si rinnovava, come si rinnova di continuo l'onda del fiume.
«Riconobbi fra queste qualche mio amico, che avevo lasciato lassù fanciullo. Come avrei voluto salvarlo, strapparlo da quel luogo maledetto! Ma nulla potevo, nulla.«Alla vista di tanto orrore, i miei capelli mutarono colore: erano biondi, divennero canuti come quelli d'un vecchio.
«Finalmente i sette lunghi anni passarono: l'uomo misterioso riapparve. Fui libero. Tornai nel mondo, rividi il sole, i fiori, il cielo, riudii voci di gioia, canti sereni. Credevo di sognare. Tutto era così bello! Corsi, volai alla mia casa, ritrovai il babbo, la mamma, i fratelli già cresciuti. Tutto era, dunque, come una volta?
Avrei dovuto essere felice, vero? Ma non lo ero, non riuscii ad esserlo neppure più tardi. Il mio cuore è malato di tristezza, oppresso dal peso di tante pene viste e sofferte, di tante amarezze, di tante lacrime.
«La vita allegra, spensierata, non è più per me - mormorò mestamente il giovane -. Sempre mi opprime il ricordo del mio doloroso passato: quella valle di pianto, quell'orribile porta, quelle schiere di anime disperate…»
La sala fumosa risuonava di voci, di risate alte, rumorose.
«Tutti sono allegri qui, - disse Jörgl alzandosi - solo io …», e, salutato il buon vecchietto, uscì dall'osteria


Il tiratore sacrilego
Il tiratore sacrilego
Bolzano (BZ)

Di fronte a Rencio, a due passi dalla città tra una lussureggiante distesa di vigneti, si adagia la ridente silenziosa frazione di Campiglio. Vicino, l'Isarco, le cui acque fruscianti spandono intorno un monotono, ininterrotto ronzio, una misteriosa canzone che viene ripetuta instancabile, all'infinito.
Racconta la leggenda che molti e molti anni or sono, era stata organizzata a Campiglio, in occasione di una tradizionale festa locale, una gara di tiro a segno; e da tutte le parti della provincia erano accorsi giovani desideriosi di dar prova della loro abilità. Era tra questi un certo Lorenzone, abilissimo tiratore, ma gradasso e presuntuoso. Costui, tronfio per le sue numerose vittorie passate, si era presentato a quella nuova gara con la prosopopea del dominatore.
Aveva assistito con un risolino di ostentata indulgenza e superiorità alla prova di altri competitori, mentre in un folto crocchio andava vanitosamente esaltando le sue passate bravure.
Poi era venuto il suo turno:«Ora vi mostrerò io - aveva gridato superbo - come si spara!».
E tutti gli astanti avevan fatto silenzio per seguire attenti la prova del campione; un colpo, due tre… ma il bersaglio era rimasto inviolato. Sorrisi ironici, mormorii beffardi.
Il tiratore sembrava aver perduta, allora, la sua spavalda sicurezza e, trangugiato, d'un fiato, per rianimarsi, un bicchiere di generoso vinello, aveva ritentata la prova: niente ancora!
Le pallottole passavano sibillando accanto al bersaglio e andavano a schiacciarsi lassù, contro la roccia, sollevando piccole nuvolette di polvere grigia: sembravano stregate!
Al suo sguardo, intatto, non erano sfuggiti i sorrisetti ironici e sprezzanti dei presenti; e la sua vanità, punta sul vivo, era d'un tratto esplosa in un impeto di furore. Si era guardato intorno in cerca di qualcosa su cui sfogare la sua incontenibile ira, aveva visto sulla sponda opposta dell'Isarco il vetusto crocifisso, che si scorge ancora là, accanto al «Maso Bietschenhof», all'inizio della strada che da Rencio porta al Renon e rivoltosi ai suoi schernitori, con un lampo sinistro negli occhi, aveva sdegnosamente gridato:
«Bene, io mi scelgo un bersaglio al quale nessuno di voi, o codardi, oserebbe tirare. Se fallissi il segno, colpirei pur sempre il Signore!».
Poi d'un tratto aveva puntato il fucile e prima ancora che gli astanti sbigottiti avessero potuto impedirgli l'atto inconsulto e sacrilego, aveva fatto fuoco contro quel crocifisso. Era seguito un sibilo, un grido, e si era visto il giovane abbattersi al suolo, fulminato, mentre il cielo andava oscurandosi con densi nuvoloni cupi e minacciosi.
La pallottola aveva colpito il piede sinistro di Gesù, ma era rimbalzata conficcandosi diritta nel cuore del tiratore.
Su questo crocifisso tu puoi vedere ancora il segno del colpo, che i secoli non potranno cancellare, e spesso in questo luogo tragico puoi udire, confuso con il sibilo del vento, un colpo secco di fucile: è l'anima vagante del sacrilego tiratore.
Questo dice la canzone, che l'Isarco continua a ripetere instancabile all'infinito ad un mondo sordo che non lo comprende. Ascoltala, viandante, e tu pure, forse, potrai un giorno intenderla.


La Madonna della Palude
La Madonna della Palude
Bolzano (BZ)

Una notte un carrettiere di Bolzano tornava da Bronzolo, dove aveva scaricato un carico di legname. Da Brozzolo, infatti, partivano un tempo i grandi zatteroni che, scendendo lungo il corso dell'Adige, trasportavano verso la pianura legname ed altro materiale proveniente dalle valli atesine.
La notte era calma, serena, e nel cielo v'era tutto un luccichio di stelle. Seduto sul carro, cullato dal monotono cigolio delle ruote, il carrettiere sonnecchiava. Gli sorrideva, tra il sonno e la veglia, l'immagine della sua casa oramai non più molto lontana. Ecco la grande cucina, ecco il focolare dove brillano le ultime brace, e, accanto al focolare, come sempre, la moglie buona e solerte. Sta intenta all'ago, la donna fida, e, di tanto in tanto, tende l'orecchio ai rumori che salgono dalla strada, per distinguer fra essi il cigolio di quattro ruote, lo scalpitio stanco dei due cavalli.
Va e va il carro sulla strada bianca vegliata dalla duplice fila di pioppi alti e diritti come sentinelle.
Ora la strada costeggia la palude (una palude che ora non esiste più, perché da tempo prosciugata). Dalle acque scure e limacciose si leva monotono il gracidio delle rane.
D'un tratto i cavalli rallentano il passo: il carrettiere si scuote: Diamine che succede? Gli sembra d'aver udito una voce, un flebile richiamo.
Ferma di colpo i cavalli e tende l'orecchio: forse s'è ingannato. S'ode solo il rauco coro delle rane e il fruscio leggero delle alte erbe del canneto; sorride fra sé il carrettiere e mormora: «scherzi del sonno, avrò sognato». Fa per risalire sul carro, ma ecco di nuovo, e questa volta ben distinta, la voce. Una voce dal tono dolce e supplichevole, un'invocazione: «Carrettiere, carrettiere, prendimi fuori, ti prego!..»
Sgomento e perplesso il carrettiere lascia cadere le redini. Non s'è ingannato, dunque, qualcuno ha invocato il suo aiuto: chi?
Il carrettiere, uomo generoso, non esita al richiamo, subito si dirige verso la palude da cui, gli è sembrato, venisse la voce.
S'inoltra nel folto canneto, cerca fra l'erba, fruga nel fango. Provvido un sottile raggio di luna ora si fa strada fra l'intrico di foglie e di fusti e sembra guidare l'uomo nell'affannosa ricerca.
Infatti, a breve distanza dai suoi piedi, qualcosa luccica nel fango. L'uomo si china e vede là, sommersa per metà nella melma, una statuetta. Con le mani tremanti per l'emozione egli la raccoglie, la ripulisce con cura pietosa; è una statuetta di pietra, alta circa sessanta centimetri, raffigurante la Madonna che tiene in braccio Gesù Bambino.
Il pio carrettiere mira commosso la dolce Immagine, e non sente più né sonno, né stanchezza. E' felice, tanto felice, ed in silenzio ringrazia la Provvidenza di aver concesso a lui, proprio a lui, povero e rozzo carrettiere, la grazia del miracoloso rinvenimento.
Che fare ora? Si domandava l'uomo tutto preoccupato di trovare un luogo sicuro, in cui collocare provvisoriamente la statuetta. Si guarda attorno: la strada, la palude, la capanna, nient'altro.
Gli balena nella mente un'idea: costruirà lui, con le sue mani, un riparo per la dolce Madonnina. Ritorna sulla strada: cerca e raccoglie in un batter d'occhio sassi ed altro materiale utile e si mette al lavoro. Le mani alacri si muovono senza posa: qui, una pietra, là un'altra, sorge in breve un umile tabernacolo con la sua piccola e concava nicchia. Là, nella nicchia raccolta e sicura come un nido, il buon carrettiere pone la statuetta.
Una preghiera, un simile saluto: il carrettiere risale sul suo carro e si allontana nella notte. Fin qui la leggenda.
La cronaca ci narra che, in seguito, al posto del rozzo e primitivo tabernacolo costruito dal carrettiere, fu eretta alla Vergine una cappelletta.


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