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La cintura stregata
La cintura stregata
Caldaro (BZ)

Poco sopra Caldaro, quasi a prolungamento di quell'abitato, verso la montagna, sorge Sant'Antonio, un gruppo di case adagiate sul dolce pendio ed esposte alla benefica carezza del sole.
Il 13 giugno si celebra, in quel paesello, la festa del Patrono: si impartisce la benedizione ai bambini, e moltissimi devoti, provenienti da tutti i paesi delle valli vicine, vi si recano in pellegrinaggio.
Appunto in quel giorno si verificò il fatto straordinario che sto per narrare.
In un maso poco fuori di Sant'Antonio, abitava, molti anni fa, una giovane donna, tanto bella quanto misteriosa, che per la sua ineguagliabile liberalità, era da tutti conosciuta ed amata.
Eppure, sotto tanta vistosa generosità, si celava l'animo più perfido che si possa immaginare. Molte sventure martoriavano e affliggevano gli abitanti della vallata: ma chi avrebbe potuto immaginare che quei mali erano il funesto prodotto delle arti malefiche di quella donna, in apparenza tanto magnanima e caritatevole?
Nel giorno della festa del Patrono, dunque, in un anno imprecisato di quell'epoca lontana, due contadinelle di San Michele Appiano si recarono, come tanti altri fedeli, in pellegrinaggio a Sant'Antonio.
Al ritorno, passarono davanti al maso della donna, che si mostrava in sembianze amichevoli, e furono invitate ad entrare e a far merenda con lei. Sulla tavola vennero portati i cibi più squisiti della zona, e le due semplici creature, dopo aver fatto onore alla ricca imbandigione, si alzarono con la mente avvolta da una piacevole ebbrezza e con l'animo disposto a tutte le cortesie. Di questa favorevole disposizione trasse subito profitto la falsa amica, per chiedere alle malcapitate ospiti qualcosa, che in una situazione normale sarebbe apparsa troppo strana.
Consegnò loro una cintura di colore sanguigno assai lunga e veramente meravigliosa, affermando che voleva farne dono agli abitanti di San Michele: era un oggetto dotato di straordinarie virtù contro tutti i malanni, sempre che fosse usato come la generosa donatrice avrebbe indicato.
Appena giunse al paese, le due ragazze avrebbero dovuto salire sul campanile, senza farsi notare da nessuno, per avvolgere la stupenda cintura intorno alla campagna, che suonava ogni volta che si avvicinava un temporale.
La donna insistette molto sul particolare della segretezza: e le due fanciulle, forse per effetto del generoso vino trangugiato, non trovarono straordinaria la cosa: anzi, ringraziarono l'amica, assicurandola che avrebbero fatto puntualmente quanto lei desiderava.
Strada facendo, oppresse dal caldo e dal languore prodotto dai fumi del vino, le ragazze sedettero sotto un grande melo, per riposarsi: ma inavvertitamente si addormentarono. Fu un sonno breve, ma sufficiente per fare svanire dalle loro menti la confusione e l'incertezza.
Raschiatesi le idee, le misteriose parole della donna tornarono loro in testa con chiarezza: «Appena giunte a San Michele, salite sul campanile, senza farvi notare da nessuno, e con le vostre mani cingete la cintura intorno alla campana. Vi raccomando, però, non fate parola ad anima viva».
Perché, dunque, tanto mistero?
Si guardarono mute, timorose: poi una di loro trasse la cintura dal sacco in cui era stata riposta e la distese per terra: dalla fascia rossastra si sprigionava un tale sfolgorio, che gli occhi ne erano abbagliati, come quando si tenta di fissare il disco solare.
«La nostra campana sarà stupenda, con questo straordinario ornamento!».
L'altra taceva pensierosa.
«Se provassimo ad avvolgerla intorno a questo melo, per vederne l'effetto?», soggiunse la prima, con voce fioca e piena di trepidazione. Detto fatto. Fu un effetto spaventoso, che riempì di sgomento le due ragazze, spingendole l'una verso l'altra, in un abbraccio disperato. Subito dopo avere avvolto la cintura intorno al tronco, questo, con uno schianto pauroso, si squarciò per tutta la sua lunghezza, come se la lama infuocata di un fulmine lo avesse colpito in pieno.
Della cintura non c'era più traccia. Il diabolico oggetto era scomparso con un lampo accecante.
Pallide per lo spavento, le due contadinelle si guardarono inorridite, pensando al tragico evento di cui avrebbero potuto essere la causa, sia pure involontaria.
Allora corsero disperatamente verso casa, decise a non dir nulla dell'accaduto, per paura della vendetta della strega. Ma il loro pallore, il tremito che ancora le faceva apparire in preda ad un gran turbamento, le parole mozze e incerte che pronunciava finirono col tradirle. E, sotto le domande incalzanti dei familiari, rivelarono infine ogni cosa.
La notizia del terribile prodigio passò rapida di bocca in bocca, e in breve ne fu piena tutta la vallata.
E allora i valligiani compresero chi era stata l'origine dei loro mali.
Subito alcuni di essi, più coraggiosi e decisi degli altri, armatisi di falci e di tridenti, corsero verso il maso della donna infernale, per fare vendetta. Ma una terribile sorpresa li attendeva: entrati, con la furia dell'uragano, nella casa della strega, decisi ad ucciderla, la trovarono ritta in mezzo alla stanza, con gli occhi fiammeggianti e in atto di sfida.
Dopo un momento di esitazione, fecero per lanciarsi su di lei: ma la strega, con un urlo agghiaggiante, si tramutò in un gigantesco pipistrello nero, orribile a vedersi, che emetteva dalla bocca fiotti di fuoco e di fumo. Prima che potessero riaversi dallo sgomento, i contadini videro l'immondo animale prendere il volo, e passando attraverso la finestra, allontanarsi nell'aria e scomparire al di là della Mendola, lasciandosi dietro una scia fumosa.
Nello stesso tempo dall'interno della casa si sprigionarono grandi vampate di fuoco, che costrinsero i contadini a precipitarsi all'aperto, da dove poterono assistere alla completa distruzione del maso maledetto, di cui non rimase che un mucchio di cenere rossastra.
In quello stesso luogo nacque, a quanto si dice, un grande rovo spinoso, dalle aride foglie striate di nero e di rosso, che continuò persistentemente a rinascere e a rigogliare, sebbene fosse stato più volte estirpato fin dalle radici più profonde


Il Folletto che culla il bambino
Il Folletto che culla il bambino
Caldaro (BZ)

A San Rocco, un angolino di terra poco lontano da Caldaro, c'era, una volta, un mulino.
Il mulino era vecchio, vecchio, i muri mostravano le nude pietre e il tetto di paglia, annerito dal sole e dalle intemperie, era tutto tappezzato di verdi chiazze di muschio. Ma pur così misera, la casa non era triste. La rallegrava tutta il gaio moto dell'enorme ruota e il gioco sempre nuovo dell'acqua che, cadendo fra le pale, si disperdeva in mille spruzzi vaporosi, in miriadi di goccioline d'argento.
Nel mulino abitava un giovane mugnaio. Egli amava la povera casa in cui era nato e vissuto e l'amava ancor più, da quando vi aveva condotto la giovane sposa e vi era nato il suo primo figlio, il biondo e roseo Simml.
Dal padre, mugnaio, aveva ereditato la casa, il mestiere e la buona volontà di lavorare.
La giornata era sempre troppo breve per lui, tutto preso dal lavoro, tra il familiare rumore delle macine e il candido spolverio della farina.
Spesso veniva al mulino uno strano visitatore. Era costui un omino, né vecchio né giovane, piuttosto brutto, con due occhi piccoli, neri, lucenti come capocchie di spillo. Aveva modi simpatici e garbati, era allegro e servizievole. Nessuno sapeva nulla di lui: né come si chiamasse, né donde venisse. Volentieri egli s'intratteneva al mulino, dove trovava sempre il modo di rendersi utile con qualche modesto servizio.
Al mugnaio non sembrò vero d'aver trovato tanta perla d'uomo, e, felice, lo accolse come amico in casa sua.
Pronto, cortese, l'omino sembrava voler dimostrare con la sua condotta la più viva riconoscenza verso colui che lo ospitava. Si prodigava in mille modi e, dove c'era da dare una mano, non mancava mai. Grande era la sua gioia, quando poteva avvicinarsi alla culla del piccolo Simml: lo vezzeggiava, lo cullava, cantandogli in sordina dolci ninnenanne.
Ma un brutto giorno, chissà perché, l'omino mutò umore e comportamento: divenne lunatico, bizzoso, intrattabile e cominciò a far dispetti e cattiverie d'ogni genere. Anche col bimbo non era più quello di prima: lo lasciava piangere e strillare e, quando lo cullava, lo faceva con tanta malgrazia, da rovesciare quasi la culla.
Non c'era più pace al mulino.
Una volta il mugnaio al colmo dell'esasperazione, rimproverò aspramente l'omino, tentando di metterlo alla porta. Non l'avesse mai fatto! Scattò, il perfido, come un serpentello: con gli occhi foschi di odio, furente d'ira gli si avventò contro lanciandogli in viso un'insultante risata.
La sghignazzata orrenda riempì, per un attimo, la casa.
Era una sfida? Una minaccia?
Il mugnaio comprese che così non poteva durare: la sua famiglia, la sua casa erano in pericolo. Che fare? Senza frapporre indugio, egli si recò dal parroco di Caldaro e al venerando sacerdote espose i suoi crucci e chiese aiuto.
Il vecchio parroco capì subito di che si trattava.
«Figlio mio - gli disse - a quanto pare, tu hai a che fare con uno di quegli spiriti malvagi, che cercano con ogni mezzo d'introdursi nelle case per molestare e recar danno alla gente. Ma non perderti d'animo - soggiunse l'accorto sacerdote - ora t'insegnerò il modo di ridurre all'impotenza lo spiritello.»
«Ascolta: appena tornato a casa, tu affronterai l'omino con queste parole: "Tutti gli spiriti buoni adorano Dio, il Signore. Qual è il tuo desiderio? Parla affinchè ti comprenda!".»
«Si calmo e deciso - concluse il parroco, congelando il giovane - e tutto andrà per il meglio!».
Rinfrancato, di buon umore, il mugnaio s'avvio verso San Rocco. Lungo il cammino, cento volte fece e rifece i suoi piani di battaglia: come, quando, avrebbe affrontato l'astuto folletto?
L'ansia di arrivare presto gli faceva divorare la strada. Il sentiero s'internava fra campi e vigneti; qua e là al piano e sul pendio qualche maso. Più lontano, accovacciato tra il verde, gli apparve presto il caro, vecchio mulino. Raggiunse la casa di corsa.
«Eccomi arrivato» - disse tra sé l'uomo ansante e trafelato. Aprì la porta della «Stube» e si arrestò sulla soglia.
Là, nel solito angolo, col viso aggrondato, lo sguardo cattivo, l'omino stava cullando il bambino. Le piccole mani adunche spingevano forte, sempre più forte la fragile culla. La zana oscillava, pencolava or di qua or di là; ancora una spinta, una spinta sola e si sarebbe rovesciata.
Tremò il mugnaio per la vita del suo piccino e, sconvolto dall'ira, si slanciò addosso al folletto, urlandogli sul viso le poche parole che, nell'agitazione del momento, ancora ricordava… «parla forte ch'io ti comprenda!».
L'omino, stretto nella morsa di quelle due mani che lo stritolavano, si dibatteva, urlava furiosamente. D'un tratto riuscì a liberarsi dalla stretta e ratto come il fulmine infilò la porta di casa. E il mugnaio dietro …
Ma buon per lui che s'arrestò sotto la gronda: guai se avesse oltrepassato quel termine! Il folletto l'avrebbe trascinato lontano, lontano e crudelmente dilaniato.
Ma là, sotto la protettrice ala del tetto, il mugnaio era al sicuro da ogni maleficio. Fuggì lontano il folletto, né più tornò a turbare la serena pace del mulino.


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