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Il voto incompiuto
Il voto incompiuto
Cornedo e Pietralba (BZ)

Lasciate le ultime case di Cardano, la Val d'Ega, quasi all'improvviso, si restringe fra due ardite pareti di roccia porfirica. In fondo, incassato fra la strada e la pendice scoscesa del monte, scorre, scrosciando, il torrente Ega.
Il paesaggio è crudo, aspro, vivo di una sua particolare e suggestiva bellezza.
E quasi a guardia della forra, ardito sulla sommità del bastione roccioso, si erge Castel Cornedo. Massiccio, ferrigno, come germogliato e cresciuto sulla roccia stessa, appare il maniero a chi lo guardi dal fondovalle.
Nei tempi antichi viveva in quel castello un cavaliere con la sua famiglia e la numerosa servitù. Tutt'intorno si estendevano le sue terre. Al piano, i campi e i vigneti rigogliosi, sulle alture i verdi pascoli e i boschi di conifere. Sparse lungo il fianco e al piede del monte stavano le casupole dei contadini che lavoravano quelle terre.
Dal suo nido di falco il castellano dominava le strade e i sentieri che incrociavano al piano, là, dove le due valli - la Val d'Isarco e la Val d'Ega - confluiscono. Lassù nel suo maniero egli si sentiva sicuro; era abbastanza temuto per tenere a bada i nemici, abbastanza generoso per tenersi fedeli gli amici. Il Signore di Castel Cornedo, il cavaliere orgoglioso ed audace, si vantava di non conoscere la paura.
Ma un giorno una terrificante notizia giunse al castello. A Bolzano era scoppiata la peste. La gente moriva; intere famiglie perivano vittime dell'orribile morbo. Le case si svuotavano paurosamente e il male dilagava ormai nei sobborghi e nel contado; la «morte nera» mieteva, inesorabile e crudele, larga messe di vite umane. Le campane non suonavano più e anche il cielo incombeva plumbeo sulla terra in gramaglie. La costernazione e il terrore regnavano in città.
Anche nel castello entrò la Paura; s'infiltrò subdola fra le spesse e munitissime mura, senza far rumore. Il cavaliere brillante, l'uomo dalle audaci imprese, cominciò a non sentirsi più tanto sicuro; si vide solo, indifeso di fronte ad un nemico che non conosceva, che non portava né elmo, né corazza, ma che sapeva uccidere senza pietà.
Che cosa potevano contro di lui le solide mura, le torri, le schiere di armati? Ironia! Nulla. Nell'imminenza del pericolo, il cavaliere divenne umile, e comprese che altrove egli doveva cercare aiuto e difesa. In preda ad un'angoscia disperata si rifugiò, solo, nella piccola cappella del castello e là proruppe in un grido d'invocazione: «Madonna Santa, aiutateci! Se tu risparmierai il castello dalla peste, farò un pellegrinaggio con tutta la mia gente fino a Pietralba!»
Si videro giorni d'ansia, ma il subdolo male non riuscì a superare le mura. Sembrava che un difensore invisibile e potente avesse preso a proteggere gli abitanti.
Come Dio volle, la pestilenza, un giorno, cominciò a diminuire e a poco a poco cessò del tutto.
La vita riprese nella città e nei villaggi. I sopravvissuti, gli scampati, tornarono alle loro attività, alle opere consuete; gli artigiani cominciarono a riaprire le loro botteghe, i mercanti tornarono ad esporre alla luce le loro mercanzie, i contadini posero mano di nuovo alla vanga e alla zappa. Le strade, le piazze della città si fecero animate, vive; riflettevano nel movimento, nell'animazione l'incontenibile gioia di coloro che, dopo aver vissuto ore d'incubo, si ritrovavano a salutare il sole e la vita.
Cessato il pericolo, il Signore di Cornedo dimenticò ben presto le ore angosciose che lo avevano fatto trepidare, dimenticò pure la promessa con cui aveva ottenuto dalla Madonna la salvezza per sé e per i suoi. Nel castello ripresero le feste, le partite di caccia, tornò l'allegria e la baldanza.
Com'erano ormai sbiaditi nella memoria i giorni della sventura e del pericolo! A che ricordarli, se ora la vita sorrideva invitante, così ricca di promesse e di speranze? Ma la morte gelida ed esosa non dimenticò; furtivamente giunse al castello, silenziosa penetrò entro le mura. Il morbo funesto non risparmiò nessuno; mute le pietre assistevano a tanta tragedia.
Il castello rimase disabitato; invaso da erbacce il gran cortile, vuote le scuderie, deserte le sale, un giorno echeggianti voci festose, di dolci melodie di menestrelli. Nelle torri vennero ad abitare i gufi e trovarono ospitalità intere famiglie di pipistrelli.
La gente del luogo, passando da quelle parti, lanciava uno sguardo pieno di sgomento al sinistro maniero e girava al largo.
Ma una notte… Una notte i morti del castello ritornarono. Quasi obbedendo ad un arcano ed irresistibile richiamo, si dettero convegno fra quelle mura desolate. Non mancava nessuno. Spettrali, avvolti in funerei mantelli, riempirono il grande cortile.
Senza una voce, senza un cenno, ad un tratto si misero in fila e in processione uscirono.
Davanti, alto, imponente, cavalcando lo scheletro di un cavallo, procedeva il Signore di Cornedo. La lugubre teoria degli scheletri si snodava lungo il sentiero della montagna e sembrava non aver mai fine. Al loro passaggio uscivano dai cespugli, di tra i massi, scheletri di cani, di gatti, perfino di topi e di ratti; anche questi si univano ai primi, seguendoli, nel loro viaggio notturno.
Dov'erano diretti? Scesero nella valle, s'inerpicarono sul fianco del monte opposto, traversarono pascoli e boschi; andavano a Pietralba ad adempiere la promessa che non avevano mantenuto in vita.
Ora, finalmente, erano in pace con se stessi e con Dio. Perdonati ed assolti, i morti tornarono alle loro tombe vegliate dal silenzio e dalla pietà degli uomini.


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