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La Storia di un Rubino
La Storia di un Rubino
Lives (BZ)

Alto, sullo spessore di roccia che si protende all'imbocco della Vallarsa, stava, una volta, un castello.
Là abitarono per molto tempo i nobili «Signori di Liechtenstein» che, nei lontani secoli dell'età di mezzo, ebbero potere e signoria su quelle terre dove oggi si estende, con le campagne circostanti, l'abitato di Laives.
Ma l'inaccessibile maniero ora non esiste più: diroccate, abbattute le torri e le mura, non rimane di tanta potenza che un cumulo grigio ed informe di pietre. Ma spesso anche le cose più umili, più dimenticate, hanno una voce e sanno parlare, a loro modo, al cuore, alla fantasia dell'uomo: e furono, forse, le antiche rovine, i ruderi sepolti del tempo, ad ispirare la fresca leggenda che vi voglio narrare.
Visse, un tempo, nel castello il nobile Pietro di Liechtenstein. Dagli avi, venuti certamente dal nord, come testimonia il nome del casato, aveva ereditato le numerose e fertili terre che formavano uno dei più bei feudi della valle.
Pietro era nato in quel castello appollaiato fra le rocce come un nido di falco, vi era cresciuto e lo amava come amava le sue terre, di cui conosceva ogni palmo, ogni angolo, ogni casupola, ogni sentiero.
Qui egli amava vivere e, non appena la sua dura ed aspra vita di uomo d'armi glielo consentiva, tornava tra le vecchie mura, tra le cose care ed i volti noti.
Dimessa la pesante armatura, via a cavallo per viottoli e sentieri o lungo le rive del Rio di Vallarsa a respirare, felice, la fresca aria natia.
Pietro di Liechtenstein era generoso e buono, trattava bene la sua gente, entrava sovente nelle case dei suoi contadini per conoscere più da vicino la loro vita, per sovvenire e soccorrere i loro bisogni. Tutti sapevano che la via che conduceva al castello era sempre aperta ai poveri, ai diseredati, che, numerosi, ricorrevano a lui per avere aiuti e protezione. E la fama delle chiare e nobili virtù del Signore di Liechtenstein correva di castello in castello, di valle in valle.
Com'era tepida l'aria in quel lontano giorno di primavera, quando Pietro, accompagnato dal fedele palafreniere, uscì dal castello per la solita cavalcata!
Già gli alberi si rivestivano del verde tenero delle foglioline appena nate e il cielo sembrava dipinto a nuovo tant'era terso ed azzurro. Giunto in fondo al sentiero, Pietro si voltò: anche il vecchio e severo castello sembrava meno arcigno in quel quadro di pura bellezza. Dai cespugli, dalle siepi, venivano sommerssi cinguettii, frulli improvvisi, qualche uccellino azzardava un richiamo, un gorgheggio, subito ripreso da un altro, da un altro ancora, ed era una festa tutt'intorno.
Pietro cavalcava felice. Anche il cavallo, un bel morello dall'occhio vivo ed intelligente, sembrava godere di quella giornata di primavera. Di tanto in tanto sollevava la testa, e con le froge dilatate e frementi respirava quella bell'aria che sapeva di erbetta fresca, appena nata, di fiorellini in boccio, di sole. A malapena s'adattava ad andare al passo, il focoso destriero, impaziente di lanciarsi al galoppo per la campagna, ma il cavaliere teneva salde le briglie e ne moderava prudentemente l'andatura.
Arrivarono così, senza quasi accorgersene, nel luogo dove c'era un mulino. Il posto era solitario e deserto: non una casupola, non una capanna, ma il bosco fitto e scuro e la voce sonora del torrentello che scorreva vicino. Sostarono.
D'un tratto di tra gli alberi videro uscire un nano, un omino alto una spanna, con una lunga barba bianca, vestito di rosso da capo a piedi. I due si guardarono sorpresi e, divertiti, stettero a vedere, o meglio a spiare le intenzioni e le mosse dell'omino.
Questi, per nulla intimorito dalla presenza dei due uomini, si fece avanti, poi - rimasto un attimo soprappensiero - si avvicinò decisamente a colui che per la ricchezza delle vesti e la dignità del portamento gli sembrava essere il capo, il signore, e gli chiese l'elemosina. Sorpreso dall'audacia del nano, il palafreniere fece per scacciarlo, ma il signore con un cenno della mano gli ordinò di ritirarsi.
Il cavaliere guardò con simpatia e benevolenza lo strano personaggio e levata di tasca una moneta d'oro, la lasciò scivolare nella mano rugosa che gli si protendeva davanti.
Rise di gioia il nano accarezzandosi la bella barba candida e, riposta la preziosa moneta nella tasca sinistra del suo giubbottino, levò dalla destra un magnifico rubino che porse al signore con un profondo inchino.
Il cavaliere non sapeva staccare gli occhi dalla gemma meravigliosa, che splendeva con mille preziosi scintillii nel palmo della sua mano. Nell'accomitolarsi, il nano raccomandò al signore di custodire gelosamente la gemma. «Essa - sussurrò con aria misteriosa - porterà fortuna a te ed ai tuoi discendenti»: e scomparve rapido nel bosco.
Felice dell'augurio, Pietro avrebbe voluto sapere ancora molte cose dal nanetto; smontò da cavallo, s'inoltrò tra le piante, lo cercò a lungo, ma l'omino s'era ormai dileguato.
Pietro tornò al castello al galoppo. Non vedeva la strada tanto il suo pensiero correva, volava lontano. Riudiva ancora negli orecchi la voce un po’ roca del nano: .. «conserva gelosamente la gemma, che porterà fortuna a te ed ai tuoi discendenti».
Chiamò da Bolzano un celebre orefice e fece incastonare il rubino nello stemma di famiglia. Il rosso vivo della gemma impreziosita, ora, con lo scintillio dei suoi riflessi, l'oro dei ceselli e dava vivezza ai colori degli antichi simboli araldici.
Ben a ragione, da allora il castellano potè chiamarsi «Signore di Liechtenstein».
Con lo stemma anche il nome passò alla sua stirpe che ebbe, un tempo, splendore e fortuna. La profezia del nano della Vallarsa si era avverata.


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