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Il cavaliere e il drago
Il cavaliere e il drago
Val Badia e di Marebbe (BZ)

Massiccio, ferrigno, tutto torrioni e dirupi, si erge, fra San Vigilio di Marebbe e Badia, il «Sasso della Croce». Lassù, rintanato fra le rocce, viveva, una volta, un terribile drago. Occhi di fuoco, aveva l'orribile mostro, zampe di leone, testa e corpo di serpente e sul dorso portava due grandissime ali che, aperte e spiegate, oscuravano il sole. Dal suo inaccessibile covo, il mostro spiava la preda - uomo od animale che fosse - e quando questa, ignara, gli giungeva a tiro, si levava repentino in volo e con gran strepito d'ali, sibili e fischi laceranti, le piombava addosso divorandola.
Giorni di terrore si vivevano nella valle, un dì sì ridente e tranquilla. Molte famiglie già portavano il lutto e chi non lo portava guardava con angoscia, con sgomento all'incerto domani.
Nessuno più poteva sentirsi sicuro della vita e la paura teneva tutti i prigionieri entro la stretta cerchia del villaggio. I mandriani non salivano più col gregge ai verdi pascoli dell'Armentana, né i boscaioli si azzardavano a recarsi a tagliar legna nei boschi, chè dall'alto il mostro dall'occhio di fuoco tutto vedeva, pronto a calare all'improvviso sulla vittima.
No, nessuno osava più allontanarsi dal villaggio, nessuno. Ad ogni ora del giorno centinaia di occhi scrutavano ansiosi le grige rocce del «Sasso della Croce» e, quando la mole scura del drago s'affacciava alla bocca dell'antro e il primo sibilo fendeva l'aria, un grido d'allarme si levava dai casolari: era il segnale. Tutti allora si rinchiudevano in casa, si sprangavano porte e finestre; in un battibaleno il villaggio rimaneva deserto come se vi fosse passata, con una ventata, la morte. Dietro le porte, le finestre, la gente piangeva e pregava, mentre urli orrendi riempivano sinistramente l'aria.
Saziata l'orribile fame (la vittima purtroppo non mancava mai) il mostro tornava alla sua dimora tra le rocce e tutto si rifaceva tranquillo. La gente riapriva le case, momentaneamente felice; gli uomini mandavano fuori il bestiame dalle stalle, le donne tornavano a sfaccendare per casa e i bimbi riprendevano i giochi interrotti, sotto il vigile occhio materno.
Così ogni giorno, da settimane, da mesi, ormai …
Ardimentosi cavalieri, uomini d'arme non avevano esitato ad affrontare il mostro con le armi, ma nulla avevano potuto i darli acuminati, nulla i colpi di lancia contro l'impenetrabile corazza che proteggeva il mostro in ogni parte del corpo. Tutti erano periti nell'impari lotta e le loro ossa erano rimaste laggiù, ai piedi della montagna.
Ma così non poteva durare e, un giorno, gli abitanti dei villaggi più esposti alla minaccia del mostro, decisero di abbandonare le loro terre per cercare altrove asilo e salvezza.
Nottetempo, in lunghe file nere, tristi e silenziosi, trascinandosi dietro gli animali, i montanari lasciarono i loro casolari e raggiunsero il fondovalle. Lassù non rimase anima viva. Quando il drago si vide mancare la preda, estese su altre contrade, su altri villaggi il suo triste dominio e la schiera delle vittime sembrava non aver più fine.
Ma un giorno …
Un giorno si sparse nella valle la notizia che Prack il prode dei prodi, avrebbe affrontato il drago in combattimento.
La speranza rinacque nel cuore della gente sventurata, perché tutti sapevano chi era Prack e tutti conoscevano il suo coraggio, il suo ardimento. Prack era un giovane cavaliere di Marebbe, forte e generoso; nessuno meglio di lui sapeva maneggiare la spada e tirar d'arco e chi l'aveva visto battersi in Terra Santa per la Croce di Cristo, narrava di lui cose mirabili. Come ogni cavaliere degno di questo nome, egli aveva eletto a suo celeste patrono San Giorgio, il Santo Cavaliere, di cui, si diceva, avesse avuto in retaggio la sella, una sella prodigiosa che conferiva, a chi l'usava, lo straordinario potere di sgominare qualunque avversario per quanto potente ed agguerrito egli fosse.
Udì il cavaliere le voci imploranti che disperatamente lo invocavano? Certo, si, e si accinse alla prova suprema.
Bisognava vincere, abbattere il mostro, salvare la sua gente, la sua terra, a qualunque costo. Si armò d'arco e di frecce il cavaliere, e sellato il suo fido morello, partì a spron battuto alla volta di Badia. Correva, volava il cavaliere, stretto al suo cavallo per sentieri scoscesi, per boschi e valloni, via, via, come portato dal vento. Giunse, così, ai piedi del «Sasso della Croce» e lì sostò. L'immane parete rocciosa gli si ergeva contro, grigia e fredda con le sue crode, i suoi dirupi, come un'enorme muraglia elevata paurosamente verso il cielo.
Prack alzò la visiera dell'elmo, puntò lo sguardo diritto verso la bocca dell'antro. Subito, il mostro, sentì nell'aria la presenza dell'uomo, del nemico ed enorme, spaventoso si spinse fuori con gli occhi balenanti, le fauci spalancate, battendo furiosamente la roccia con le enormi ali nere, che tutta l'aria intorno ne era sconvolta.
Prack non tremò, incoccò fulmineo una freccia e tese l'arco; con un sibilo sottile, sferzante la freccia partì, andando a conficcarsi per intero nel cuore del mostro.
Un urlo orrendo squarciò l'aria, si ripercosse sinistro per gole ed anfratti, moltiplicato, ingigantito dall'eco e il mostro si abbattè, contorcendosi, sul ghiaione. Lì giacque immobile, mentre un fiotto di sangue nero, infuocato, gli usciva dalla ferita, segnando una scia viscida e fumigante sulle pietre.
Il mostro era morto. La gente della valle era libera, dunque. Una gioia grande, mai provata prima d'allora, riempiva, gonfiava il cuore dell'eroico cavaliere. Con l'aiuto di Dio e di San Giorgio ancora una volta aveva vinto.
S'inginocchiò il giovane sulle pietre, al cospetto della montagna non più nemica, e mai preghiera più fervida, più riconoscente uscì dalle sue labbra. E Prack tornò al suo castello.
Giù nella valle, intanto, la gente attendeva con ansia e trepidazione un messaggio, una notizia. Che era avvenuto al cavaliere? Era ancora vivo? O era rimasto lassù, stritolato fra gli artigli del mostro?
Chi diceva una cosa, chi ne diceva un'altra e la disperazione e la speranza lottavano fra loro nel cuore di quei poveretti. Ma nessuna notizia, nessun segno venne dal monte ed i giorni ripresero a scorrere incerti e squallidi nella valle.
Un giorno un giovane pastore osò rompere il cerchio desolato della pianura; radunò il suo gregge e salì verso i pascoli alti. La curiosità, l'audacia, lo spinsero a salire più su, sempre più su, finchè si trovò ai piedi del «Sasso della Croce». Là, sul ghiaione, il pastore vide una gran carcassa, un mucchio d'ossa, alto così, bianco, sotto il sole. Era quanto rimaneva del drago.
Fugata la paura, la vita rifiorì nella valle. I profughi tornarono ai loro villaggi, ripresero sereni i lavori consueti.
Il ricordo dei giorni tristi a poco a poco svanì, ma viva rimase tra gli abitanti della Val Badia la memoria dell'eroico cavaliere di Marebbe.
Sul posto stesso, dove fu ucciso il drago, venne eretto più tardi un cippo, un'umile pietra rozzamente scolpita, che, fino a non molti anni fa, si dice, esistesse ancora.


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