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La bolla papale che attesta il miracolo
L'Ostia Incarnata
Alatri (FR)

La testimonianza di questo evento miracoloso è riportata in un lettera inviata da Papa Gregorio IX al vescovo della diocesi alatrina, Giovanni V. Il documento, datato 13 marzo 1228, riporta il fatto che gli era stato precedentemente descritto dal vescovo, in un documento a noi non pervenuto. Una giovane, suggestionata dal cattivo consiglio di una vecchia strega, dopo aver ricevuto dalle mani del sacerdote l'ostia, la trattenne in bocca fino al momento in cui la nascose in un panno dove, tre giorni dopo, ritrovò l'ostia trasformata in carne. Nella lettera inviata al vescovo (questo documento è attualmente conservato nell'archivio del Duomo di Alatri), il papa interpreta l'evento come un segno divino contro le diffuse dottrine eretiche contrarie al dogma della Transustanziazione. Non è privo di significato, per alcuni, il fatto che tale miracolo sia avvenuto a soli dodici anni di distanza dal IV Concilio Lateranense, nel quale venne ribadita la veridicità del dogma della Transustanziazione (="passaggio totale della sostanza del pane e del vno in quella del corpo e sangue di Cristo, in virtù della consacrazione").


Il complesso di San Pietro a Monte
Il cinghiale di Civate
Civate (LC)

Re Desiderio giunse in una località chiamata Civate, luogo molto grazioso, straordinariamente ameno e dal clima molto salubre, ricchissimo di vigneti ed adorno di boschi, bagnato da abbondanti acque che offrono a tutti una gran varietà di pesci. Questo borgo è anche posto tra due catene di alture di cui una ad oriente comprende il monte Pedale, l’altra ad occidente il monte Barone; a mezzogiorno ed aquilone lo accarezza un lago che sfocia nel fiume Adda; da settentrione la Valle Mater Agraria…

Mentre (Desiderio re dei Longobardi) ritrovava in tanta serenità la pace dello spirito, un giorno il figlio Adalgiso, un bel ragazzo prestante, uscì con i compagni per cacciare, caso mai si imbattesse in un cervo, un orso o un cinghiale o qualsiasi altro animale della foresta, e giunse con molto sforzo, attraverso la boscaglia intricata, sul monte Pedale. Parecchio affaticato per il difficile cammino, si asciugava il sudore abbondante nella frescura, sotto l’intreccio folto delle fronde, nell’ombra silvestre e, per refrigerarsi, si ristorava alla brezza.

Alzato lo sguardo, poco lontano vide un enorme cinghiale che grugniva divorando castagne e ghiande selvatiche. Lo inseguì coi cani. Il cinghiale, veramente stupefacente per mole, forza e zanne acuminate, uscì con violenza allo scoperto in modo tale da essere assalito dai cani dai denti possenti. Infine, stremato dall’immane lotta, si diede alla ricerca di un rifugio solitario e nascosto.

Dopo aver scorazzato vagabondando con tremenda ferocia qua e là, giunse su un poggio del monte posto sotto le cime più alte, dove lo accolse una gradevole radura. In quel tempo, infatti, vi viveva un servo di Dio, di nome Duro, che scegliendo una dimora solitaria, lì esercitava il suo ufficio sacerdotale e vi conduceva una esistenza semplicissima, costruendo un piccolissimo oratorio in onore del beato Pietro. Il cinghiale dunque, cercando la salvezza nella fuga, trovò l’ingresso della chiesa spalancato. Deposta senza indugio la sua ferocia, si acquattò presso l’altare, quasi consegnandosi alla protezione dell’apostolo, chiedendo da lui un aiuto.

Adalgiso, allorché lo scoperse, irruppe nella chiesa desiderando ardentemente uccidere il cinghiale e, prima ancora di scagliarsi sull’animale, improvvisamente sperimentò un fatto meraviglioso, un’opera stupefacente mai più vista, dal momento che fu privato della vista e della luce! Adalgiso sprofondò nelle tenebre; da lui era fuggita la luce del giorno!

Quel venerando padre allora, Duro, testimone di un così grande prodigio con altri che erano sopraggiunti, per la cecità… innalzò in quel medesimo luogo sacro una preghiera al Signore. Pure lo stesso ragazzo, vedendosi privato della luce, cominciò a promettere copiosi doni e ad elevare grandi voti: se il Signore gli avesse ridonata la vista, avrebbe innalzato una chiesa, naturalmente dedicata a San Pietro, più ampia di quella precedente e l’avrebbe arricchita con molte decorazioni e, riportatevi le reliquie del beato, promise di conservarle lì con grande venerazione.

Dopo aver pronunciate così tali promesse, per intervento della misericordia divina riacquistò la luce degli occhi! Dunque, tutti coloro che erano presenti rendevano grazie a Dio, che così meravigliosamente tutto dispone…


Monumenti: San Pietro al Monte
Il Ponte del Diavolo
Borgo a Mozzano (LU)

Un capo muratore aveva iniziato a costruirlo ma ben presto si accorse che non sarebbe riuscito a completare l'opera per il giorno fissato e preso dalla paura delle possibili conseguenze si rivolse al Maligno chiedendo aiuto al fine di terminare il lavoro. Il Diavolo accettò di completare il ponte in una notte in cambio dell'anima del primo passante che lo avesse attraversato. Il patto fu siglato ma il costruttore, pieno di rimorso, si confesso con un religioso della zona che lo consigliò di far attraversare il ponte per primo ad un porco. Il Diavolo fu così beffato e scomparve nelle acque del fiume.

Il ponte della Maddalena (come viene propriamente chiamato) unisce le due sponde del fiume Serchio all'altezza del paese di Borgo a Mozzano. La sua costruzione risale ai tempi della Contessa Matilde di Canossa (1046-1115), che ebbe grossa influenza e potere su questa zona della Toscana, la Garfagnana, ma il suo aspetto attuale è dovuto alla ricostruzione effettuata da Castruccio Castracani (1281-1328), condottiero e signore della vicina Lucca, nei primi anni del 1300. L'aspetto del ponte è quello medievale classico a 'schiena d'asino', con la differenza, che qui diventa caratteristica unica, che le sue arcate sono asimmetriche e quella centrale è talmente alta e ampia che la sua solidità sembra una sfida alla legge di gravità.


Il Santo che abitava in un faggio
Il Santo che abitava in un faggio
Castiglione di Garfagnana (LU)

Il viottolo era ripido, ingombro di sterpi e di ciottoli. Che fatica salire con quell'enorme sasso tra le braccia! Nandino non ne poteva proprio più. Quanto mai non aveva preso uno di quei sassetti, che si possono tenere in tasca! Va bene che era una penitenza, ma con quel caldo, con quella salita…
- Ehi, Ricuccio, ne abbiamo ancora per tanto? - chiese al cugino che gli camminava davanti.
Quella mattina, di buon'ora, era stato uno scherzo avviarsi. L'aria era fresca e gli alberi, sulle loro teste, facevano una bella ombra. A mano a mano, però, che il sole si era alzato e il caldo aveva cominciato a fiaccar le gambe, i passi erano diventati lenti, faticosi, e il peso del sasso addirittura insopportabile.
- Bè, non saprei… -, rispose Ricuccio, dopo un po’, fermandosi per riprender fiato. - Guarda un po’...
Alzarono gli occhi lungo tutta la fiancata del monte: in cima, bianco e aguzzo, spiccava il campanile della chiesa.
Era lassù che dovevano arrivare: alla Chiesa del Pellegrino. E là, finalmente, avrebbero potuto depositare la pietra trasportata per tutta l'altezza della montagna, come penitenza per i peccati commessi.
Si snodava davanti a loro una lunga fila di persone e ciascuna, donna, uomo, o fanciullo, portava la propria pietra.
- Ehi, voi, ci muoviamo? - disse qualcuno alle spalle di Ricuccio.
I due ragazzi ripresero lentamente a salire. Che bello quando, al ritorno, avrebbero potuto godersi l'ombra dei noccioli e il fresco dei prati!

Forse Nandino e Ricuccio non sapevano che quel loro pellegrinaggio si ripete da mille anni. Forse non sapevano che per mille anni, pellegrini di ogni paese si erano inerpicati per quel viottolo e per altri viottoli della «Gran Selva» con lo scopo di raggiungere la cima della montagna dove, in un faggio, appunto mille anni fa, viveva un re.
Era venuto dalla lontana Scozia, dove aveva lasciato il suo regno, il suo trono a cavallo di un delfino, aveva raggiunto l'Italia.
Dopo aver peregrinato un po’ qua e un po’ là, si era finalmente rifugiato in quella parte dell'Appennino Tosco-Emiliano.
Non aveva fissa dimora; la sua umiltà, il suo spirito di adattamento gli consentìvano di riposare ovunque si trovasse e cibarsi di cardi selvatici. Ammansiva le belve, curava gli infermi, aiutava chi era più misero di lui. E i popoli di quelle montagne, che accorrevano a lui per qualsiasi bisogno, ben presto lo santificarono, chiamandolo San Pellegrino. Il Santo ebbe dei seguaci tra cui, il più fedele, fu San Bianco.
Insieme, San Pellegrino e San Bianco proteggevano i viaggiatori, che a quell'epoca correvano pericoli di ogni sorta. Ed era gran conforto, per chi doveva muoversi da una località all'altra, sapere di poter fare affidamento sui due buoni Santi!
San Pellegrino visse così fino a cent'anni quasi. Poi improvvisamente non si seppe più nulla di lui e non se ne sentì più parlare. Poi un giorno una donnetta lo trovò morto, rinsecchito e incartapecorito, sulle falde del monte, adagiato su un giaciglio di foglie. Questa donnetta del Frignano insieme al marito, lo seppellì e, scelti due lunghi rami di faggio, i più dritti, li legò insieme per farne una croce da porre sul piccolo tumulto.
Una lunga vita svolta tutta per il bene con un amore profondo e caritatevole per il prossimo, finiva così, sotto le braccia di una croce improvvisa.


Il Caprone Diabolico di Sant'Anna
Il Caprone Diabolico di Sant'Anna
Fornovolasco (LU)

Una mattina, un uomo di Fornovolasco, andò al mercato di Massa per comprare un vitello. Mentre tornava a casa, con il vitello sulle spalle, ragionava su come era stato bravo a raggirare con l'astuzia il venditore. Ma più ragionava più il vitello cresceva ed aumentava di peso. Così decise di fermarsi alla chiesetta di Sant'Anna per riposare. L'uomo si rese conto che il vitello era diventato un grosso caprone, che era in realtà il diavolo stesso. L'animale fuggì nel bosco lasciando dietro di sè striscie di fuoco. L'uomo, terrorizzato, corse in paese e raccontò il fatto ad i suoi compaesani i quali decisero di dare la caccia al diavolo, ma non lo trovarono; però notarono che sul muro della chiesetta di Sant'Anna era apparsa un'impronta nera di animale. Provarono a mandarla via ma non ci riuscirono, essa riappariva sempre!


Il corpo mummificato di S.Zita
nella chiesa di S.Frediano a Lucca
Miracolo delle Rose e dei Fiori
di Santa Zita

Lucca (LU)

La giovane Zita, all'età di 12 anni, lasciò la sua casa e si recò in città, a Lucca, per poter trovare un lavoro. Entrò subito al servizio della famiglia Fatinelli, una famiglia molto ricca di Lucca che abitava vicino alla chiesa di San Frediano. Ogni giorno quando i signori Fatinelli avevano finito di mangiare Zita riempiva il suo grembiule dei pezzi di pane che restavano e li portava ai poveri; ma un giorno mentre scendeva le scale trovò il suo padrone che con uno sguardo molto arrabbiato le chiese cosa avesse all’interno del suo grembiule; ella non per mentire, ma per indicare come era fiorita la carità, gli disse che aveva soltanto rose e fiori. Il signor Fatinelli incredulo gli chiese di aprire il grembiule, lei lo aprì e vide che i pezzi di pane si erano trasformati veramente in rose e fiori.
Il 27 Aprile di ogni anno sulla piazza di San Frediano vengono costruiti dei veri e propri giardini ornati di fiori in ricordo del miracolo delle rose e dei fiori. La gente si reca all’interno della chiesa a visitare ed a baciare l’urna dove da 8 secoli riposa S.Zita per ricevere la benedizione.



La chiesa di S.Frediano a Lucca
La Deviazione del Serchio
Lucca (LU)

Frediano, giunto pellegrino in Italia dall'Irlanda, si stabilì come eremita nei pressi di Lucca. Egli raccolse presto attorno a sé chierici e sacerdoti con l'aiuto dei quali eresse la chiesa dei Santi Martino e Vincenzo, che oggi porta il suo nome. Eletto vescovo intorno al 560, egli compì il suo miracolo più celebre, che cementò il legame con la città: la deviazione del corso del Serchio e la conseguente bonifica della campagna lucchese. Secondo la leggenda, Frediano tracciò con un rastrello il nuovo corso del fiume, sul quale, per via prodigiosa, si incanalarono immediatamente le acque. Sarebbe morto a Lucca il 18 marzo del 588. La fama di santità di Frediano e, in particolare, il miracolo del Serchio gli valsero sin dal tardo sec. VI una venerazione molto intensa, come apprendiamo da un passo dei "Dialogi" di Gregorio Magno; nel pieno Medioevo il culto fu promosso in particolare dalle congregazioni canonicali facenti capo alla basilica a lui intitolata in Lucca. La devozione radicata nella vita religiosa lucchese è testimoniata dalle numerose chiese a lui intitolate nell'ambito dell'antica diocesi, e trova espressione nella festa celebrata in città il 18 novembre, a memoria di una traslazione del corpo nella basilica di San Frediano. San Frediano è rappresentato in abiti vescovili, spesso con l'attributo del rastrello, a ricordo dello strumento usato per deviare il corso del Serchio.

Le reliquie dei Re Magi
Milano (MI)

I milanesi per secoli chiamarono i tre Re Magi Eleuterio, Rustico e Dionigio. La loro storia è avvolta nel mistero: si dice che probabilmente non fossero nemmeno re, ma solo degli uomini molto ricchi. Neppure si conosce da quale paese d’Oriente venissero esattamente; di sicuro morirono in Persia, martiri della fede e i loro corpi furono sepolti in un’unica tomba, all’inizio del IV secolo, a Costantinopoli. "Una leggenda racconta che le loro reliquie furono custodite nella basilica di Sant’Eustorgio dal IV al XII secolo. Fu Eustorgio a riceverle in dono dall’imperatore Costantino nel 325, quando si recò nella capitale dell’impero d’Oriente per ricevere la consacrazione a Vescovo di Milano. Le spoglie furono trasportate fino a Milano in un sarcofago molto pesante, lo stesso che ancora oggi vediamo nella basilica di S. Eustorgio con la scritta "Sepulchrum Trium Magorum" . Quando i viandanti arrivarono in città, la fatica rese impossibile trasportare oltre Porta Ticinese il ponderoso sarcofago; allora Eustorgio, saggiamente, ordinò che in quel luogo venisse costruita la basilica dei Re Magi, dove vennero deposte le sacre reliquie. "Lì rimasero fino al XII secolo, finché non furono rubate. Era il giorno il 10 giugno 1164, dopo la famigerata distruzione della città ordinata da Federico Barbarossa. Le spoglie trafugate furono portate a Colonia e deposte con grande solennità in un’urna d’argento intarsiata, nella chiesa di San Pietro. Ma i Milanesi non si rassegnarono mai alla perdita del sacro tesoro, tanto più che consideravano le ossa dei Magi miracolose contro i mali e i sortilegi. Fu Ludovico il Moro a chiederne per primo la restituzione nel 1494, e coinvolse nell’impresa anche Papa Alessandro VI, senza però ottenere nulla; neppure re Filippo di Spagna, Pio IV, Gregorio XIII e Federico Borromeo riuscirono ad avere soddisfazione. "Solo il Cardinal Ferrari, nel 1903, riuscì ad ottenere in restituzione qualche ossicino, che tuttora è custodito dentro un piccolo scrigno, posto in una cavità della parete, sopra l’altare dei Magi nella basilica di S. Eustorgio.

I Gigli di Nola
I Gigli di Nola
Nola (NA)

Le origini della Festa dei Gigli si ritrovano in un racconto di Papa Gregorio Magno. Nel 410 d.C. i Goti di Alarico arrivano a Nola dopo aver già saccheggiato Roma. Depredano la città e deportano in Africa i migliori giovani per farne schiavi. Il Vescovo Paolino, nominato proprio l'anno precedente alla Cattedra Episcopale nolana, decide di offrire se stesso e i beni della sua chiesa in cambio dei nolani rapiti. Naturalmente fu subito accettata la proposta, ma oltre che deportare in Africa Paolino, non desistettero a farlo con tutti gli altri. Già distrutta e derubata, la città fu, dunque, anche beffata e privata del suo amato protettore e la popolazione calata nel più profondo sconforto. Ma Paolino era persona di grandi doti: giunto in Africa come schiavo, stupì i suoi rapitori con le sue azioni, allo stesso tempo, umane e miracolose: protettivo nei confronti degli altri deportati, umile nei confronti dei tiranni, ebbe il dono di portare ovunque pace e serenità e di trasformare in terreno fertilissimo l'arido deserto. I suoi rapitori, riconosciuta la grandezza del personaggio, decisero di liberarlo con tutti i suoi compagni e di riaccompagnarli in patria con grandi onoreficenze. L'intera popolazione accorse in massa sulle coste ad accogliere la nave del Vescovo, organizzando un enorme corteo in cui ognuno portava quel poco che gli era rimasto, in segno di gioia e ringraziamento: i frutti del proprio lavoro, gli stessi attrezzi usati per produrlo ma soprattutto fiori e ceri accesi (cilii, in dialetto, da qui l'origine del nome gigli). Da quel momento, ogni anno il ritorno del Vescovo fu rievocato con grandi festeggiamenti durante i quali la barca di Paolino veniva accolta in un grande corteo in cui sfilavano ceri e torce sempre più grandi, fino a trasformarsi, nei secoli, nella Festa dei Gigli che oggi conosciamo.

: www.giglidinola.tv

Manifestazioni: Sagra dei Gigli
La leggenda del Ponte Gobbo
Bobbio (PC)

San Colombano stava procedendo alacremente alla costruzione della sua Abbazia, allorchè fu preso dal desiderio di costruire anche un ponte sul Fiume Trebbia, ma la sua realizzazione, in contemporanea alla costruzione della chiesa, era piuttosto problematica.
Un giorno il Santo stava meditando all'ombra di una grossa quercia, allorchè gli si presentò davanti il diavolo in persona che si dichiarò disposto a costruire il ponte la notte stessa, a patto che fosse sua l'anima del primo essere vivente che vi passasse sopra.
San Colombano accettò senza esitare.
Al crepuscolo il diavolo era già all'opera a trasportare massi dal monte al letto del fiume. Il tempo era poco e bisognava far molto presto. Alle prime luci dell'alba il ponte si poteva dire finito. Però, per la troppa fretta ed il poco tempo, esso era riuscito tutto gobbo e storto, ma comunque il ponte era lì, e molto solido. Ed il diavolo dall'altra parte già stava appostato, pronto a ghernire l'anima del primo passante.
San Colombano vi fece passare per primo un cane. Così il diavolo, l'anima di un cristiano non l'ebbe mai.
Ancor oggi il ponte, oltre che «gobbo» è detto «Ponte del diavolo».



Il "Volto Santo" e Il Santuario dove è custodito.
Il Volto Santo di Manoppello
Manoppello (PE)

Nel 1638 i cappuccini vengono in possesso di una misteriosa reliquia. P. Donato da Bomba, nel 1640, scrive una "Relazione Istorica", conservata nell'archivio provinciale di cappuccini de L'Aquila. In essa viene narrato come il Volto Santo sia giunto a Manoppello portato da un misterioso pellegrino a Donat'Antonio Leonelli che lo conserva fino al 1608, preso con forza da Pancrazio Petrucci, venduto a Giacom’Antonio De Fabritiis e da questi donata ai cappuccini. (il testo completo della “Relatione Historica è consultabile nel sito). Il convento dei cappuccini viene fondato, dal 1618 al 1620, proprio negli anni in cui Giacom'Antonio De Fabritiis faceva porre il sacro velo tra i due vetri. La chiesa viene dedicata a S. Michele Arcangelo. In questa chiesa viene esposto alla venerazione del popolo il Volto Santo il 6 Aprile 1646. Per circa quarant'anni non fu oggetto di culto pubblico, ma custodito quasi privatamente in una nicchia a lato destro dell'altare maggiore. Solo nel 1686 viene costruita nel lato sinistro della chiesa una piccola cappella con un altare ove si trasloca la sacra reliquia e viene introdotta la festa liturgica del 6 agosto, giorno della Trasfigurazione del Signore. Un evento negativo porta ad un forte incremento del culto al Volto Santo. Il 1700 inizia con un lustro di forti terremoti che scuotono incessantemente l'Umbria, l'Abruzzo e il Sannio. P. Bonifacio da Ascoli dal 1703 espone più volte il Volto Santo alla pubblica venerazione. Si comincia a pensare ad una processione che porti il sacro velo all'interno delle mura, il che ha inizio nel 1712, la seconda domenica di Maggio. La processione pone un problema di sicurezza. Per proteggere meglio il sacro velo, P. Bonifacio di Ascoli nel 1703 vuol cambiare i vetri, così pure, nel 1714, P. Antonio da Poschiano, oltre i vetri, vuol impreziosire il tutto con una cornice in argento. In ambedue i casi, separati i vetri, l'immagine di Cristo svanisce, tornando a risplendere solo quando tutto viene riportato allo stato preesistente. Nel 1750, per evitare la coincidenza con la festa di S. Giustino, patrono di Chieti, la processione viene posticipata alla terza domenica di Maggio, data che resterà fino ad oggi.

* voltosanto@tiscali.it

: www.voltosanto.it

Il Sandalo di San Giovanni Evangelista
Il Sandalo di San Giovanni Evangelista
Ravenna (RA)

Sull portale della Basilica di San Giovanni Evangelista, distrutto durante i bombardamenti dell'ultima guerra, era raffigurata, in marmo, la leggenda del sandalo:
Una notte Galla Placidia e San Barbiziano pregavano nella chiesa, appena costruita, quando furono colti dal sonno. Ed ecco che a Barbiziano subito apparve, in sogno, un vecchio tutto vestito di bianco che reggeva un incensiere d'oro e benediceva l'altare. Barbiziano si destò e, con suo stupore, si accorse che la visione rimaneva. Svegliò, allora, Galla Placida e tutt'e due si prostrarono in adorazione davanti al vecchio, convinti che si trattasse dell'apostolo Giovanni.
Ma quando, poco dopo, levarono gli occhi, la visione era scomparsa. Di essa, sul pavimento davanti all'altare, era però rimasto qualcosa: un sandalo.


Galla Placidia e la Tempesta
Galla Placidia e la Tempesta
Ravenna (RA)

Il mosaico dell'abside della chiesa di San Giovanni Evangelista, fatta edificare a Ravenna nel secolo V da Galla Placidia, sorella dell'imperatore Onorio, raffigurava una nave che, guidata in mezzo alla tempesta da San Giovanni Evangelista, trasportava la stessa Galla Placidia e i suoi figli Valentiniano III ed Onoria verso Ravenna. Ecco da cosa ebbe origine quella strana raffigurazione:
Nel 424, mentre Galla Placidia tornava da Costantinopoli a Ravenna per assumere, in seguito alla morte del fratello Onorio, la reggenza in favore del figlio Valentiniano III, la nave fu sorpresa da una tremenda burrasca. Per qualche tempo ella fece animo ai naviganti, poi, cresciuta la tempesta e visto ormai imminente il pericolo di calare a fondo, Galla Placidia, abbracciati i due figlioli, si gettò in ginocchio sul ponte, levò gli occhi al cielo e supplicò Giovanni Evangelista, poiché era stato pescatore e aveva conosciuto le più furiose tempeste e promise di innalzare a Ravenna in suo onore una Basilica meravigliosa. Inginocchiati intorno a Galla Placidia, tutti pregavano con lei e quasi d'improvviso, il vento cadde, il mare si inquietò e la nave arrivò sana e salva in Italia. Giunta a Ravenna, Placidia sciolse il voto, facendo erigere al Santo la bellissima chiesa.
Il mosaico raffigurante la tempesta andò poi distrutto nel secolo XVI.


Il Presepe di Greccio
Il Presepe di Greccio
Greccio (RI)



Molti pesci e… un mulo
Molti pesci e… un mulo
Rimini (RN)

A Rimini, Sant'Antonio da Padova compì due dei suoi più significativi miracoli.
Più di sette secoli or sono a Rimini era capitato un umile fraticello, che si era messo nelle piazze e per le vie a predicare la bontà, il perdono e la pace. Ma era un predicare al vento, perché a Rimini, come del resto in ogni parte d'Italia a quell'epoca, ciò che soprattutto interessava ed agitava gli uomini era la politica, erano il guadagno e i divertimenti.
Che cosa fece allora il fraticello, visto che nessuno lo ascoltava?
Se ne andò sulle sponde del vicino Fiume Marecchia, e lì mise a predicare ai pesci che accorsero per sentire la predica. Tenendo il muso fuor d'acqua, essi se ne stettero lì per un bel pezzo ad ascoltare il fraticello.
Figurati come rimasero i Riminesi, allorchè la notizia del prodigio si diffuse per la città! Fu un accorrere da ogni parte e, finalmente, il fraticello fu ascoltato anche dagli uomini.
Si racconta, inoltre, che per convertire del tutto gli abitanti della città, il fraticello persuase ad inginocchiarsi davanti all'Ostia consacrata nientemeno che… un mulo. Di fronte a questo nuovo miracolo, i Riminesi non ebbero più dubbi e, pieni di vergogna, si prostrarono a loro volta davanti all'Ostia sacra.
A ricordo di questo secondo miracolo venne eretto nel 1556 il tempietto di Sant'Antonio.


La Spada nella Roccia di San Galgano
San Galgano - Chiusdino (SI)

Nel XII secolo, presso Chiusdino, in un austero castello viveva un giovanotto di nome Galgano, della nobile famiglia dei Guidotti, i cui passatempi erano tirar di spada, cavalcare e corteggiare belle donzelle.
Si racconta che un giorno gli apparisse l'Arcangelo Michele e da allora rinunziò al mondo, e sul Monte Siepi scagliò contro una roccia la propria spada, che vi si conficcò miracolosamente. Attorno alla spada nella roccia fu eretta la chiesetta rotondaIn seguito nella sottostante valle della Merse fu costruita una grande abbazia circestense detta, in suo onore, di San Galgano, che divenne un rinomato centro di studi e di economia di tutto il territorio circostante. Nel XVI secolo, per varie ragioni, l’abbazia venne abbandonata tanto che oggi ne rimane solo uno scheletro di pietre con il cielo per tetto.


Il Dito di San Gimignano
Il Dito di San Gimignano
San Gimignano (SI)

Un chierichetto di Colle Val d'Elsa che era presente a Modena alle solenni esequie del Vescovo Gimignano, le cui spoglie furono riposte nella Cattedrale della città, vide che il Vescovo defunto aveva al dito un meraviglioso anello, e così tentò di rubarlo, sfilandolo, ma con l'anello venne via l'intero dito. Spaventato e pentito, il ragazzo fuggì da Modena, tenendosi nascosta addosso la refurtiva, o meglio la reliquia. Tornò verso la sua città, in Toscana, e si fermò nella chiesa di una località non lontana da Colle, chiedendo con la preghiera il perdono divino per il gesto compiuto. Quando volle uscire dalla chiesa, si accorse che le porte erano misteriosamente serrate. Disperato, chiese aiuto, e confessò tutta la storia. Consegnò la reliquia ai religiosi della chiesa, e soltanto allora poté riprendere più leggero la via del ritorno a casa. Il dito del Vescovo di Modena restò così in quella località, che da allora avrebbe preso il nome di San Gimignano.


Stampa XVII secolo
L'Orso ammansito di San Romedio
San Romedio in Val di Non (TN)

Romedio, ormai vecchio e stanco, desidera incontrare l'amico Vigilio, vescovo di Trento. Manda il suo giovane discepolo Davide a preparare il cavallo. Davide va, ma vede un orso affamato che sbrana il cavallo. Saputa la cosa, Romedio dice a Davide: "Non aver paura! Metti le briglie all'orso. Lui mi farà da cavallo!". Il discepolo timoroso si avvicina alla belva feroce, ma con sua grande sorpresa l'orso mansueto si lascia mettere le briglie. A testa bassa, quasi a chiedergli perdono per aver mangiato il cavallo, l'orso va da Romedio e questi lo accarezza, gli monta in groppa e, compiendo prodigi, va a Trento accolto con festa dal vescovo e da tutta la città.


"Miracolo del SS. Sacramento" (particolare)
Bartolomeo Caravoglia
Basilica del Corpus Domini a Torino
Miracolo del SS. Sacramento
Torino (TO)

Il 16 giugno 1453, verso le cinque del pomeriggio, avvenne a Torino il celebre "miracolo del. SS. Sacramento". Nell'alta Val Susa, presso Exilles, le truppe di Renato d'Angiò si scontrarono con le milizie del duca Lodovico di Savoia. Qui i soldati si abbandonarono al saccheggio del paese ed alcuni penetrarono anche in chiesa. Uno di loro, sacrilego, forzò la porticina del tabernacolo e rubò l'ostensorio con l'Ostia consacrata. Avvolse tutta la refurtiva dentro un sacco e, a dorso di un mulo, passando per Susa e Rivoli, scese a Torino.
Sulla piazza maggiore, presso la chiesa di S.Silvestro ora dello Spirito Santo, sul luogo dove si eresse poi la chiesa del Corpus Domini, il giumento incespicò e cadde.
Ecco allora aprirsi il sacco e l'ostensorio con l'Ostia consacrata elevarsi al di sopra delle case circostanti tra lo stupore della gente. Fra i testimoni c'era un certo don Bartolomeo Coccono, il quale corse a dar notizia al Vescovo Lodovico dei Marchesi di Romagnano. Il Vescovo, accompagnato da un corteo di clero e di popolo, si portò in piazza si prostrò in adorazione e pregò con le parole dei discepoli di Emmaus: «Resta con noi, Signore».
Nel frattempo si era verificato un nuovo prodigio: l'ostensorio era caduto a terra, lasciando libera e splendente, come un secondo sole, l'ostia consacrata. Il Vescovo che teneva in mano un calice, lo alzò verso l'alto e lentamente l'Ostia consacrata cominciò a ridiscendere, posandosi dentro il calice.
In processione ci si recò verso la vicina chiesa Cattedrale dove il Vescovo benedisse il popolo ringraziando Dio di questo prodigio eucaristico che poi meritò a Torino il titolo di "Città del SS. Sacramento". Quasi a metà della navata della Basilica del Corpus Domini, circondato da una cancellata in ferro, si trova il punto esatto in cui cadde il mulo che portava l'Ostia del Miracolo. Nella Settimana Santa, il recinto interno (racchiudente la famosa pietra) viene adibito a "Santo Sepolcro" ed addobbato sontuosamente.



Il sacro telo di lino



Il Volto dell'Uomo della Sindone e il suo Negativo Fotografico
La Sacra Sindone
Torino (TO)

E’ una tela di lino spigato, cioè tessuto a spina di pesce che misura 4,36 metri di lunghezza e 1,10 metri di larghezza. Reca chiare le impronte di un corpo che si dice di Cristo con i segni delle ferite e delle piaghe. Viene esposta al pubblico in rare circostanze e la devozione e gli studi di cui è oggetto sono documentati nel Museo della Sindone (Via S.Domenico, 28). Vi sono esposte le insegne e i cimeli della confraternita; il cofanetto in cui venne trasportata la Sindone da Chambery a Torino, monete e medaglie commemorative, una sezione scientifica raccoglie i risultati delle ricerche sul lino. Dopo varie, tormentose vicende la reliquia fu ceduta nel 1453 da Margherita di Charny ad Anna di Lusignano, consorte di Ludovico I, secondo duca di Savoia. Da allora fu custodita a Chambery. Nel 1506 Papa Giulio II permette il culto liturgico e pubblico della reliquia. In seguito ad un incendio della cappella di Chambery il sacro lenzuolo rischia di essere distrutto. Viene dunque trasportato a Vercelli, poi a Nizza, poi a Milano e nel 1578 viene trasportata a Torino e da allora è rimasta sempre nella città piemontese, ora custodita nel Duomo di S.Giovanni, nella cappella della S.Sindone, appositamente sistemata dall'architetto Guarini.

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Il Miracolo del Sangue di Bolsena
Il Miracolo del Sangue di Bolsena
Bolsena (VT) e Orvieto (TR)

Nel 1264, l'avvenimento che fece decidere papa Urbano IV ad istituire per la Chiesa universale la Festa del Corpus Domini, fu il miracolo eucaristico di Bolsena. In quell'anno, sotto il papato di Urbano IV, che al momento tiene corte ad Orvieto, un giovane sacerdote tedesco, Pietro da Praga, percorre a tappe la Via Cassia, diretto a Roma. Ha il cuore pieno di dubbi, di incertezze teologiche sul fatto, asserito dalla Chiesa che, nell'atto dell'Eucaristia l'ostia ed il vino si trasformino veramente nel Corpo e nel Sangue di Cristo. Pietro crede invece che la celebrazione del mistero eucaristico abbia soltanto significato spirituale e allusivo e compie il lungo viaggio a Roma anche per cercare di placare la sua angoscia interiore. Arrivato a Bolsena, dove vivissima è la memoria di S. Cristina, e vi fa tappa. Prega a lungo davanti all'altare della piccola Santa, poi, la mattina seguente celebra la Messa nella stessa chiesa, prima di rimettersi in cammino. Giunto alla Consacrazione, dall'ostia spezzata sgorga il sangue che impregna il corporale del sacerdote, gli arredi del culto e anche alcune lastre di marmo del pavimento. Si grida al miracolo; l'emozione è grandissima; la notizia si diffonde fulmineamente per tutta la cristianità. Papa Urbano IV, in seguito all'evento, mandò immediatamente una commissione d'indagine che prelevò tutte le testimonianze e le condusse ad Orvieto; anzi, il Papa stesso andò incontro alla processione solenne e prese in custodia le reliquie, che vennero così conservate, quasi tutte, ad Orvieto; a Bolsena rimasero custodite le Sacre pietre, macchiate di Sangue, e l'altare legato al ricordo del miracolo.

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