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Un'antica Tradizione: le Maschere Altoatesine
Un'antica Tradizione: le Maschere Altoatesine
Provincia di Bolzano

La maschera è di origine preistorica. La usavano i Cinesi, i Giapponesi, le tribù dell'Africa ed altri popoli orientali. In Europa la conoscevano, nell'età del ferro e del bronzo (2000-1000 anni a.C.) i Greci, i Romani, i Germani, gli Etruschi. Le più antiche maschere riproducono il disco solare e quello lunare: venivano usate nei riti che precedevano la guerra e la caccia, quando si volevano scongiurare fenomeni meteologici (pioggia, fulmine) e astronomici (eclissi) o per il compimento di riti sacri, nunziali, funebri e familiari.
Si ritiene che l'uso delle maschere sia stato introdotto in Alto Adige dai Longobardi, un popolo germanico stabilitosi nelle Alpi dall'anno 568 al 774. Non è stato però ancor detto quando, al riguardo, i Longobardi debbano ai Reti, ai Celti, agli Etruschi, agli Illiri, ai Goti, ai Bajuvari ed agli altri popoli che li precedettero, tra cui i Romani; i quali avevano conquistato le valli alpine e l'Alto Adige nell'anno 15 a.C. e vi erano rimasti incontrastati padroni e signori fino al 476, cioè fino al tramonto dell'Impero Romano d'Occidente, facendo fra l'altro conoscere alle genti autoctone, che essi chiamarono col nome generico di «Reti», riti, usi e costumi nuovi, la lingua e le leggi di Roma.
E' quindi legittimo ritenere che le popolazioni dell'Alto Adige abbiano dato alle loro maschere una nuova fisionomia, imitando si, quelle dei popoli che le tenevano soggiogate, ma realizzandole in modo diverso, influenzate com'erano dall'ambiente selvaggio in cui vivevano, dalla presenza di animali feroci quali l'orso, il lupo e la lince e dalla stessa loro vita di primitivi sempre a contatto della natura e in lotta con le fiere.
Pastori e cacciatori si sentivano più forti e più coraggiosi, coprendosi la faccia con maschere mostruose a foggia di testa di orso, di cane, di cinghiale, munite di numerose corna e di zanne, per poter avvicinare o spaventare gli animali, compiendo salti acrobatici con l'aiuto di pertiche ed indossando un vestito, sul quale erano fissati molti campanellini tintinnanti.
Gli aborigeni si coprivano il viso con maschere fatte con corteccia di larice, con barba di bosco (un lichene), con fitte retine e tessuti, raffiguranti le loro divinità, gli spiriti maligni, i dèmoni e le persone care defunte, nella convinzione che la figura della maschera consentisse loro di immedesimarsi in quelle entità invisibili.

Nella Val Camonica, a ponente del Lago di Garda, verso Bergamo, dove ebbero vita le prime manifestazioni della «Commedia dell'Arte», si notano sulle pareti rocciose incisioni preistoriche, attribuite agli Euganei, un popolo originario dell'Italia, che viveva tra le Alpi e il mare e che fu costretto sui monti dai Veneti-Illirici, verso il 900 a.C.
Le più antiche rappresentano scene di caccia e palafitte abitate; le più recenti, invece, preromane, stele, monumenti funebri, simili a quelle dell'età del bronzo scoperte in Scandinavia, con disegni geometrici e simboli, come dischi solari, ruote crociate, decorazioni a spirale di tipo evoluto. All'ingiro, incisioni rupestri di figure umane mascherate con copricapo a forma di mitria e con le braccia tese in alto, in atto di adorazione del dio Sole.
Gli storici tedeschi vedono nei dischi e in taluni simboli scolpiti nelle rupi la testimonianza del lancio dei dischi di fuoco, ancora oggi in uso nell'Alto Adige e in altre regioni alpine, nella prima domenica di quaresima e durante il solstizio d'estate. Nelle maschere con copricapo invece essi scorgono i cappelli bizzarri variopinti dei «saltari» (guardie campestri), dei coscritti dichiarati idonei, di taluni costumi femminili, di alcune maschere tradizionali, nonché l'ornamento, con corona e stelle luccicanti, dei biondi capelli dei bambini (die Sternsinger), che all'Epifania vanno in numero di tre di casa in casa e cantano nenie natalizie. Il gesto di adorazione del dio Sole con le braccia tese in alto era noto ai Reti dell'Alto Adige e lo conservarono fino a quando si convertirono al cristianesimo (dal V al VII secolo).

I Reti della vicina Valle di Non (gli Anauni dei Romani) già nel 400 d.C. tenevano cortei mascherati: con urli diabolici chiamavano la gente, perché vi assistesse, come riferisce l'«Acta Sanctorum», nella leggenda dei Martiri Anauni. E ancora dopo tre secoli, nel manoscritto di una rappresentazione popolare mascherata dell'Epifania, si nomina la Berchta, spirito demoniaco.
I «Poenitentiali Vigilanum» dei Franchi (fine del VI secolo) proibiva di mascherarsi «maias et orcum» cioè da «uomo selvaggio»: travestimento che nella Ladinia e nel Trentino veniva chiamato, con voce ancora in uso, «Orco».
Le notizie più attendibili sull'uso delle maschere di culto furono tramandate dai Longobardi. Nell'«Editto di Rotari» dell'anno 643 si legge più volte la parola «masca», cioè «stringa» (strega, donna selvaggia), che significa larva, rete, maglia, oggetti che servivano e servono ancor oggi per celare il volto. Maschera si fa derivare appunto dal Longobardo «masca». Sulle tombe dei defunti i Longobardi piantavano rituali paletti, con infilate teste di uccelli, precursori delle stelle e delle lapidi funerarie; accanto al morto solevano mettere una maschera e piccolissimi campanelli, intendendo con ciò offrire al defunto una difesa contro i geni del male. Non è stato ancora chiarito se tale usanza essi la portarono dalle loro terre, oppure se era già nota ai Reti romanizzati.
Le maschere facciali di culto sono menzionate in un manoscritto monacale del XIII secolo, di proprietà della Biblioteca Universitaria di Innsbruck. Non se ne conosce però la provenienza.

L'affresco sul lato destro della navata principale della chiesa dei Domenicani, in Bolzano, distrutto con la navata stessa da un bombardamento nell'anno 1944, era anteriore al 1350. Rappresentava San Cristoforo, che secondo la leggenda, si poneva al servizio del diavolo, e alcune maschere sataniche con cornetti e naso lungo, imitanti la demoniaca Berchta.
Nel Duomo di Bolzano il medesimo bombardamento mise allo scoperto delle teste grottesche sui capitelli delle colonne che reggono il coro. Sono di stile gotico antico, se non romanico. Intorno al collo hanno un ampio fazzoletto, che copre anche la testa e la parte superiore della fronte.
Simili mascheroni o visacci, scolpiti nel marmo, non sono rari nelle chiese e nei palazzi di stile romanico della Germania e della Svezia, ma non appaiono così somiglianti alle maschere delle Alpi, come quelli del Duomo di Bolzano.
Anche la Bibbia e l'Arte hanno contribuito a diffondere l'uso delle maschere. Del grande pittore e scultore altoatesino Michael Pacher (circa 1480) si può ammirare nel Chiostro dell'abbazia dei Canonici Regolari di Novacella, presso Bressanone, l'affresco «Lazzaro e il ricco Epulone», con facce di angeli e diavoli, che tengono Lazzaro nell'inferno (Vangelo di San Luca, Cap. XVI).
Il Gotico, e ancor più il Barocco, diedero grande impulso all'uso delle maschere nelle manifestazioni popolari.
Basti ricordare la Berchta (spirito demoniaco).
A carnevale venivano prese di mira le persone non gradite: gli avari più noti, le donne linguacciute e scollacciate e le zitellone impenitenti.
Questi personaggi venivano imitati dalle maschere con gesti chiaramente allusivi. Alle finte donne senza marito, era riservato un trattamento «speciale»: uomini robusti, anch'essi travestiti, le afferravano e le caricavano sul carro carnevalesco, che attraversava le vie del paese fra gli applausi, le risa e i lazzi del popolino. Le malcapitate venivano scaricate e relegate nella «Palude» di Vipiteno.
Dietro al carro seguiva una turba di maschere chiassose, che rappresentavano tutti gli strati sociali: l'operaio, il mercante, l'impiegato, il maestro, il magistrato.

Uomini mascherati (i Klöcklen), letteralmente coperti di paglia (simbolo della fertilità), alla fine di febbraio o i primi giorni di marzo, a seconda dell'andamento della stagione, fingono una rissa nei campi e urlano come dannati, per «svegliare» il grano che sta per germogliare, e cantano preghiere. Il contadino, proprietario dei campi li invita ad entrare nel maso ed offre loro una ricompensa.
E' un'usanza pagano-cristiana.
Altri Klöcklen, con maschere che simboleggiano le forze della natura, nei quattro giovedì dell'Avvento tracciano col piede in terra (o nella neve) una croce davanti ad ogni casa; ne segnano una seconda col gesso, sulla porta d'entrata - la Croce preserva dalla potenza del Male - pregano e cantano un inno religioso. Il contadino li fa entrare nel suo maso protetto dalla Croce, offre loro vino e grappa, e anche del denaro, oppure lardo affumicato (Speck), salsicce (Wurst), carne salmistrata ed altre cibarie, che consumeranno con le ragazze e in allegra compagnia durante il carnevale.
Queste usanze sono di origine germanica.
Chiasso, canti, danze si alternano secondo un rituale che trova giustificazione e continuità, almeno così si ritiene, nel culto del dio Sole, fonte della luce e del calore, nonché nelle tradizioni augurali dell'inverno, nate per allontanare gli spiriti cattivi e richiamare con preghiere e scongiuri quelli buoni nei campi, nel maso e nella stalla.
Klöcklen, parola arcaica, non traducibile, sembra significasse battere, far chiasso.

Tra le usanze antichissime dell'Alto Adige accenneremo a quella delle maschere di legno. Una volta si costruivano nella Val Gardena, nella Valle Aurina e a Vipiteno.
In tutte le valli altoatesine, però, nelle lunghe sere invernali, ogni contadino ne faceva per sé e per i familiari, a tempo perso, dopo avere intagliato le figure del presepio.
Oggi le fanno solo a Predoi, in Valle Aurina. Predominano i visi cornuti di diavoli e di spiriti cattivi, ma non mancano maschere che ricordano il dio Sole dal viso sereno, folletti e nani sorridenti con barbette caprine e orecchie di pecora.
Le maschere di legno non sono più legate a usanze popolari. Tuttavia, una volta all'anno i giovani vanno in giro mascherati, compiono gesti bizzarri ed emettono urli che vorrebbero essere l'imitazione del rito propiziatorio del ritorno della primavera, e compiono cerimonie che simboleggiano la lotta dell'uomo contro gli spiriti maligni dell'inverno.
I giovani mascherati della Valle Aurina vanno di casa in casa, recitano e improvvisano facezie e burle, versi e farse. Partecipano talvolta alle feste nuziali e familiari e alle manifestazioni popolari dell'Epifania (la strega Berchta) e del carnevale, con maschere sataniche orribili, al suono di corni da caccia.
Frutto di un'antica tradizione, la maschera di legno riesce ancora ad inserirsi un po’ ovunque per la sua originalità e a suscitare un interesse particolare: quello dei collezionisti e dei forestieri, i quali ne acquistano per decorare qualche angolo della casa con un oggetto bizzarro e curioso.

Centoventi anni fa viveva a Predoi un contadino di nome Gregor Steger, proprietario del medioevale, modestissimo «Maso Steger», ancora esistente, a 1428 metri sul livello del mare.
Uomo inteligentissimo, si era fatto da solo una cultura leggendo almanacchi, racconti popolari e la Bibbia. Dalla viva voce dei suoi convalligiani raccolse farse, commedie, versi, detti e proverbi, trasmessi da secoli di padre in figlio. Tutto egli rielaborò e scrisse, appoggiandosi di preferenza agli episodi della dura vita dei canòpi e dei minatori delle antichissime miniere di rame della Valle Aurina ed intessendovi leggende dei «Veneziani», nani in cerca di oro e di pietre preziose. Il popolo era convinto che quegli omuncoli cercatori di tesori provenissero dalla laguna veneta.
Tipo ameno da tutti benvoluto, fondò la «Società filodrammatica delle Valli Aurina e Pusteria», dopo aver avuto parte attiva nel «Club dei geni, dei poeti e degli attori». Nelle recite che lui stesso preparava faceva sempre la parte dell'immancabile diavolo. Il gioco di mano, la magia, la stregoneria e la gherminella erano il suo forte. Si metteva una maschera da lui fatta con legno di pino cembro talmente mostruosa, da far rizzare i capelli.
Il grande merito di Gregor Steger fu quello d'aver saputo tenere in vita, con le sue creazioni scritte, la commedia popolare, che ancora oggi, anche se in misura ridotta, viene recitata nella «Stube», nell'aia o nel fienile, senza sfarzo di mobili e di arredi.
A Gregor Steger si deve, almeno in parte, se in Valle Aurina si usano ancora oggi le maschere di legno.
Le maschere conservate nei musei di Bolzano, Bressanone, Vipiteno, Innsbruck, Vienna e di altre città sono state realizzate negli ultimi duecentocinquant'anni. Sono quasi tutte di legno, e nessuna reca la firma dello scultore. Talune, coperte di foglioline d'oro, si ritengono intagliate da Vigil Raber, scultore ed attore altoatesino.
Un museo di Vienna possiede due dozzine di maschere tirolesi ed alcune del Trentino, di bellissima fattura.

Le maschere per manifestazioni popolari sacre vennero gradatamente sconsigliate, indi proibite dalla Chiesa; le altre sopravvisero; ma nell'anno 1672, nel Tirolo, fu proibito di coprirsi la faccia con maschere sataniche e di girare con armi e bastoni. Più tardi fu permesso di circolare mascherati fino al suono dell'Ave Maria (ore 18).
Ma ben presto il Governo Tirolese impose una tassa sulle maschere, che fu però abolita dopo la Rivoluzione del 1848.
Da allora ne sono state fatte anche di stoffa, di seta e di cartapesta.
L'uso delle maschere venne proibito in Alto Adige nel 1920, per motivi di sicurezza pubblica.

La letteratura sulle maschere dell'Alto Adige, del Trentino, del Friuli, del Bergamasco e della Val Camonica, sotto molti aspetti affini per usi, costumi e tradizioni, è molto scarsa; se ne fanno soltanto cenni occasionali nelle descrizioni delle rappresentazioni sacre e popolari dei secoli passati.


Superstizioni intorno agli animali
Superstizioni intorno agli animali
Provincia di Bolzano

Sin dagli albori della preistoria, i primi abitatori della terra sentivano il bisogno di conoscere l'origine delle cose e le cause del bene e del male. Ne cercavano la spiegazione prestando fede alle apparenze e credendo fermamente nella partecipazione alle cose visibili di esseri misteriosi e soprannaturali: geni buoni, geni cattivi.
Tali credenze diedero origine ad un'infinità di superstizioni, tramandate di generazione in generazione e via via ingranditesi col passare di bocca in bocca. Esse diedero il via a tutte le più sottili forme di arti diaboliche, quali la magia, la stregoneria, il sortilegio, la tregenda, il malocchio, la cabala, l'oracolo, l'occultismo, l'evocazione degli spiriti, la scoperta dei tesori nascosti…
Si credeva che alcune di queste arti fossero possedute da esseri viventi, uomini ed animali, dotati di poteri soprannaturali, noti con i nomi di maghi, streghe, giganti, nani, folletti, gnomi e coboldi
Il popolo era in rapporti di amicizia con gli animali; molti tra gli antichi pagani credevano che le anime dei trapassati cominciassero una nuova esistenza: ebbe così origine l'idea della metamorfosi delle loro divinità in animali.
Il cavallo era tenuto in grande considerazione; gli si attribuiva il dono della profezia. Ancora oggi, sulla facciata principale delle fattorie si vedono, anche in Alto Adige, teste di cavallo scolpite nel legno o dipinte.
Erano ritenuti sacri il toro, la vacca, la capra, la pecora, il gatto, il cane, il cervo, l'orso, il lupo, il cinghiale, il tasso, l'oca, il corvo, il cigno, l'aquila, il cuculo e taluni serpenti.
Certo in quei tempi lontani la fantasia predominava decisamente sulla ragione. L'animale, a cui si attribuivano molte qualità fisiche e spirituali comuni a quelle dell'uomo, ha pure dei diritti e dei doveri; è capace, come l'uomo, di lode e di biasimo, di premio e di castigo.
Oltre che alle streghe, si celebrarono processi agli animali per azioni da essi compiute, ritenute dannose all'umana società.
Il toro imbizzarrito che aveva ucciso una persona, il porco che aveva divorato un bambino nella culla, il cavallo che con un calcio aveva ucciso un servo o il padrone… era un omicida. L'animale veniva arrestato e condotto nella prigione degli uomini malfattori.
Il giudice laico istruiva il processo penale, ascoltava le testimonianze a carico e a discarico e pronunciava la sentenza di morte. L'animale, reo del delitto ascrittogli, veniva consegnato al boia ufficiale incaricato delle esecuzioni capitali contro gli uomini; questi provvedeva ad eseguire la sentenza mediante l'impiccagione, il rogo, l'affogamento o la decapitazione, secondo come aveva sentenziato il giudice.
Prima che l'animale venisse condotto al supplizio, in carcere gli veniva preletta la sentenza. Nelle località vicine e in quelle principali del paese la sentenza veniva comunicata anche al pubblico sul sagrato in giorno di domenica. Apposite norme di diritto penale si riscontrano nelle leggi delle stirpi germaniche che dominarono in Alto Adige agli inizi del medio evo: Ostrogoti (loro re Teodorico di Verona che sconfisse, e fece prigioniero, secondo la leggenda, re Laurino del Giardino delle Rose (Catinaccio), Longobardi (re Alboino), Bajuvari (Bavaresi) e Alemanni.
Non solo nell'antichità e durante il medio evo, ma perfino nei tempi moderni (Codice di diritto penale emanato dall'Imperatrice d'Austria Maria Teresa (1740-1780) si processarono animali rei di assassinio, di ferimento, di furto, di occupazione abusiva della proprietà terriera altrui, applicando il codice comune anche nel nostro Alto Adige, come negli stati confinanti Svizzera e Italia e particolarmente in Francia.
I processi civili erano fatti agli insetti, ai bruchi, alle cavallette, agli scarabei, alle lumache, alle serpi, alle talpe e ai topi, che avevano distrutto il raccolto dei campi e dei vigneti. I proprietari ricorrevano anzitutto alle preghiere ed alle processioni propiziatorie, convinti che il flagello fosse stato mandato da Dio per punizione dei loro peccati. Se le preghiere rimanevano inascoltate, i danneggiati ricorrevano al giudice ecclesiastico, il quale emetteva contro i devastatori regolare ordine di comparizione; naturalmente i «rei» erano rappresentati da un procuratore e dall'avvocato difensore. Il processo aveva luogo con comparse, arringhe, requisitorie, perizie, testimonianze: un processo vero e proprio con le caratteristiche minuzie, i cavilli, gli artifizi, le lunganaggini dei giuristi medioevali.
La sentenza conteneva l'ingiunzione agli animali di lasciare il territorio invaso entro un dato termine, pena la maledizione e la scomunica, e di ritirarsi in un terreno incolto o boschivo, dove non sarebbero più stati molestati. Di tali processi si ha più d'un esempio anche in Alto Adige. Nell'anno 1338 numerosi stormi di cavallette penetrarono dalle pianure d'Ungheria nelle Alpi. Il 24 agosto, giorno di San Bartolomeo, le sciagurate calarono sulla rurale Bolzano, sulla ridente plaga di Oltr'Adige e sull'ubertosa Val d'Adige, devastando e distruggendo campi e vigneti, orti e frutteti.
Il parroco di Caldaro, istituito un regolare giudizio, pronunciò, contro le voraci cavallette, condanna di bando dal territorio… «considerato che recano danno e rovina agli uomini e al paese, si tien per giusto che siano bandite e disperse. In nome del Padre, del Figliolo e dello Spirito Santo.»
Gli atti del processo sono custoditi nell'Archivio di Caldaro.
E' noto il processo contro i topi di Stelvio, celebrato dal Giudice di Glorenza (Val Venosta) nell'anno 1519. Il dibattimento, svolto secondo le norme del diritto romano vigente, durò un intero giorno; alla fine la corte pronunciò la nota, ironica sentenza, che bandiva i topi dai poderi comunali e privati di Stelvio.

Nelle leggende delle Alpi, a cui appartengono anche quelle dell'Alto Adige, gli animali tengono ancor vivo l'interesse del popolo montanaro, anche se nessuno più crede nelle facoltà loro attribuite dalla fervida fantasia dei primi abitatori di questa splendida «Terra fra i monti».
La strega di Merano trasformò in un asino il servo dell'«Osteria alla stella». Egli riprese il suo aspetto normale il giorno della festa del «Corpus Domini», divorando un rosario benedetto (Merano).
Padre e figlio andavano di notte da Sluderno a Spondigna. Nella brughiera scorsero un cavallo. Il padre gli si avvicinò e lo prese per la criniera. Il figlio gridò: «Padre, padre, lascia andare il cavallo! Gesù, Giuseppe, Maria!». A questa invocazione, l'animale si fece di fuoco e con grande fracasso si allontanò… (Sluderno).
Il Gigante di Rodengo, vigile custode del castello, si trasforma a piacimento in toro, in mosca, in zanzara (Rodengo).
Due contadini che giurarono il falso, sono condannati a girare eternamente a cavallo di un caprone di fuoco (Villandro).
Lungo la vecchia strada, che da Burgusio porta a San Valentino alla Mutta, si incontravano una volta degli animali di aspetto spettrale, con enormi occhi di fuoco. Impedivano il passo ai viandanti. Assomigliavano a cani e a maiali (Burgusio).
Nel Castel Caldivo di Egna appariva ogni cento anni un cane tutto nero, che si azzuffava col padrone e con un soffio spegneva tutte le candele (Egna).
Un pastorello uccise un ramarro. Subito ne apparvero due. Li uccise ambedue e ne comparvero tre, poi quattro, e così via fino a sette. L'ultimo aveva però due teste. Uccise anche quello e ne apparve uno con due teste, indi con tre… indi con sette teste; questo saltò addosso al fanciullo e lo morse nella faccia. Erano streghe sotto le sembianze di rettili (Villandro).
Due gatti nerissimi si aggiravano lungo il torrente Plima in Val Martello. Spaventavano i passanti, il bestiame e i pastori. Saltavano loro addosso e li graffiavano. Erano le anime inquiete di un marito e di una moglie, che erano vissuti in discordia (Martello).
Una donna, morta senza aver adempiuto il voto di recarsi al Santuario di Pietralba, assunse le sembianze di un rospo. Dopo sette anni, al cospetto della Madonna, si trasformò in bianca colomba e salì al cielo (Bolzano).

Un bambino, rapito da un gigante, viene tenuto prigioniero da una strega nella foresta.
Ogni giorno egli deve pulire la casa; non deve però entrare in una stanza: sarebbero guai! La strega è contenta del bambino, perché è ubbidiente; ma questi, vinto dalla curiosità, dopo tre giorni entra nel locale proibito. Vede la carrozza tutta d'oro, trainata da un camoscio d'oro. Senza indugio, ci salta sopra, piglia in mano le redini, fa schioccare la frusta d'oro e via al galoppo. Lo insegue il gigante, ma il camoscio è più veloce di lui. Il bambino arriva a casa. E' salvo. Camoscio, carrozzella e frusta spariscono (Val Pusteria).

Sull'Altipiano di San Genesio un giorno ad un viandante al di là del Rio Valàs, apparve un castello. Era molto stanco e desiderava un giaciglio per riposare.
Fece pochi passi, e con sua grande sorpresa il ponte levatoio del castello si abbassò. Entrò nel cortile. Guardò attorno. Né uomini, né cani facevano la guardia.
Salì sullo scalone, trovò la porta aperta, percorse lunghi corridoi e giunse nella «sala dei cavalieri». Ammirò i bei mobili, i finissimi cristalli, le armi e le armature, i magnifici tappeti. In un'alcova scorse un letto con baldacchino e si mise a dormire.
A mezzanotte in punto un rumore lo svegliò. Un serpentello con una splendida corona in testa strisciò sul letto e con sguardo implorante fissò negli occhi il viandante. Questi, per nulla spaventato, ammirò la corona d'oro tempestata di pietre preziose e, allungata una mano, deciso gliela tolse.
Subito il sepentello sparì e al suo posto apparve una bellissima signora biancovestita, che così gli parlò, mentre monete d'oro piovevano sul letto, in una capace pentola di bronzo: «Prendi, questo è il compenso che ti do, perché mi hai liberata. Sono stata castalda. Da trecento anni custodisco il tesoro del castello, tenendo sempre la corona in testa. Nessuno mai me la levò. Ora devo a te la mia liberazione».
E sparì (Altipiano di San Genesio e del Salto).


Il bambino con la camiciola bagnata
Il bambino con la camiciola bagnata
Arco alpino (BZ)

Da quando era morto il suo bambino, una mamma non aveva più smesso di piangere. Piangeva il giorno, piangeva di notte, piangeva sempre. Nessuno riusciva a ridarle un po’ di tranquillità, nessuno poteva convincerla a cercare in se stessa la rassegnazione, a saper accettare il suo triste destino.
A nulla giovavano le esortazioni e l'affettuosa assistenza delle persone a lei care: angosciate reprimevano esse pure il pianto.
La povera donna si recava di giorno e di notte nel vicino cimitero e dava libero sfogo al suo dolore; le lacrime cocenti bagnavano la terra che racchiudeva il suo tesoro. Non sapeva rassegnarsi, non sapeva trovar pace la povera mamma, tanto felice quando il bimbo era venuto alla luce bello, biondo, con gli occhietti azzurrissimi come il cielo dei nostri bei monti, che lo avevano visto nascere.
E così anche la «notte della Berchta», la vigilia dell'Epifania, la mamma si trovò a piangere sulla tomba del suo bambinello. Le lacrime le rigavano le gote ed alzando gli occhi velati verso l'orizzonte, vide avvicinarsi nel buio delle tenebre una schiera infinita di bimbi condotta dalla «Berchta» in ambito azzurro splendente, bellissima nell'aspetto e nel portamento.
I piccoli seguivano la loro protettrice attraverso i fori della siese e su questa si arrampicavano, facendo corona alla mamma desolata. Ella guardava quei visini sorridenti e per un attimo smise di piangere, forse sperando di scorgere fra di essi il suo bambino. E i piccini continuavano ad arrivare e l'ultimo di essi, con indosso una camiciola tutta bagnata e reggendo a stento una pesante brocca nelle mani, li seguiva infreddolito e stanco.
Il piccino non ce la faceva ad arrampicarsi sulla siepe, e allora la donna, nel suo istinto materno volle aiutarlo. Avvicinandoglisi, riconobbe il suo bambino; fuori di sé dalla gioia lo sollevò al di sopra della siepe e mentre se lo stringeva affettuosamente fra le braccia e lo copriva di baci, il figlioletto così le parlò: «Mamma, come sono contento di rivederti! Oh, come sono calde le tue mani. Non devi piangere tanto, mamma! Vedi, mammina, io devo raccogliere in questa brocca le lacrime che tu versi per me. E se tu piangi, la brocca si riempie sempre più, si fa pesante e non la posso portare.
Guarda, come le tue lacrime, uscendo dalla brocca, hanno bagnato la mia camicia!».
La mamma confusa sorrise al suo bambino, lo guardò fisso nei suoi begli occhietti azzurri, se lo strinse ancora una volta al seno, pronunciò una tenue «si…» e la processione dei bimbi scomparve.
Da quella notte, la mamma infelice non pianse più.


La Balla di Burro
La Balla di Burro
Avigna - San Genesio (BZ)

Appollaiato lassù, in cima al pendio, il maso di Kati aveva tutta l'aria di una di quelle casette piccine, piccine, che si vedono nei presepi, bianche e ridenti tra il verde.
Veramente piccolo era il maso, ma pulito e lindo come uno specchio. Accanto alla casa, come d'uso, stava la stalla che ospitava due brune vascherelle; sopra la stalla il fienile con il vecchio tetto di paglia. Dappertutto ordine e pulizia, chè la contadina, in questo campo, non la cedeva a nessuno.
Ne erano passati degli anni da quando kati, con la sua bella corona di trecce nere, il viso roseo e fresco, era divenuta la padrona del maso! Le trecce un po’ alla volta s'eran fatte bianche, il viso era tutto un ricamo di rughe, ma Kati era sempre la Kati, svelta, ancora dritta nella persona alacre, lavoratrice infaticabile. Sempre in moto, dalla mattina alla sera, dalla cucina alla stalla, dalla stalla al pollaio, al fienile, ella arrivava dappertutto.
Accorta, forse di più, astuta, la vecchia kati era assai esperta negli affari e nel piccolo maso regnava un certo benessere. Ella pensava a tutto, provvedeva a tutto e i figli, naturalmente, non chiedevano di meglio.
In un paese c'era chi parlava male della Kati, per invidia si capisce. Si diceva che fosse terribilmente attaccata al denaro, si diceva…
Due volte all'anno Kati mandava a chiamare il sarto di Chiusa, perché venisse a rassettarle il guardaroba: vestiti del marito e dei figli. Il sarto vi andava volentieri e con sollecitudine; Kati lo trattava bene e non tirava sulla spesa.
La «Stube» all'arrivo del sarto si trasformava in un vero laboratorio; vecchie giacche, pantaloni si ammonticchiavano davanti al sarto che osservava, sceglieva, tagliava e cuciva, operando con le sue abili mani vere e proprie trasformazioni.
L'ago correva; il vecchio orologio a cucù accompagnava col ticchiettio del suo pendolo il tempo che rapido trascorreva nell'alacre lavoro.
Nell'angolo della «Stube» Kati, volgendo le spalle al sarto, batteva la panna nella zangola. Il lavoro l'assorbiva tutta. Stava curva sull'arnese e batteva, batteva, bisbigliando a fior di labbra parole, frasi misteriose.
Se ne accorse il sarto e una volta, incuriosito, tese l'orecchio. Fu allora che udì Kati pronunciare la strana frase:«Siamo trenta, siamo trenta…» Caspita! Che poteva significare un'espressione del genere?
Intanto Kati, finito il suo lavoro scodellava in un recipiente una bella balla di burro, che così ad occhio e croce poteva pesare senz'altro non meno di 30 libbre. Le mucche era due e come, allora, un prodotto così abbondante?
Evidentemente i conti non tornavano. Non tornavano, no, ma spiegavano chiaramente come nel maso si potesse vivere con una certa larghezza.
Interrogativi, congetture si accavallano, si sgrovigliavano nella mente semplice dell'uomo, lasciando sempre, però, più dubbioso e perplesso.
Ma il sarto non era tonto e, da quel momento, si ripromise di tenere gli occhi bene aperti per vedere come sarebbe andata a finire la curiosa faccenda.
Si finse immerso del lavoro, ma di sotto alle folte sopracciglia l'occhio si muoveva rapidissimo nel seguire ogni atteggiamento, ogni mossa della contadina.
Anche quella mattina, come il solito, la vecchia Kati si mise a fare il burro. Sicura del fatto suo, l'astuta contadina versò il latte nella zangola e si accinse a batterlo, ma prima…ciac, fece scivolare rapidamente nel liquido una minuscola borsetta di cuoio. Per qualche istante il sarto rimase coll'ago in aria, trasecolato. Intanto Kati, tutta intenta al suo lavoro, batte, batte batte biascicando le parole di rito.«Siamo trenta, siamo trenta…». E, a lavoro ultimato, ecco le solite trenta belle libbre di burro.
Il sarto non ebbe che un desiderio: impadronirsi della borsetta che la contadina, approntato il burro, aveva messo ad asciugare sulla monumentale stufa della «Stube».
«Qui c'era senza dubbio un gioco di magia» si diceva il sarto e non riusciva a distogliere gli occhi dalla borsetta misteriosa. Cento maliziosi diavoletti gli mettevano in subbuglio la povera testa. «Comoda quella borsetta, non ti pare?» sussurrava uno. «Potresti provare anche tu!» soggiungeva un secondo. E un terzo suggeriva: «Il giochetto non è poi tanto difficile!».
Fu così che, quando Kati uscì dalla «Stube», egli s'impadronì della borsetta e, cogliendo un pretesto qualsiasi, chiese alla donna di poter tornarsene a casa, per quel giorno. Lo bruciava la curiosità di tentare la prova quanto prima.
Arrivò davanti alla sua casa ansante e trafelato, salì i gradini a quattro, a quattro, si chiuse in cucina.
Subito versò il latte nella zangola e nel latte gettò la borsetta, poi, pronunciando le parole che già conosceva, cominciò a battere… e batti che ti batti, alla fine ebbe anche lui le sue belle trenta libbre di burro. L'uomo non stava più in sé dalla gioia e dalla meraviglia; il gioco era riuscito. D'ora in poi avrebbe saputo approfittarne!
Ripostò il burro in dispensa, il sarto s'accingeva ad uscire per tornare al maso, quando si udì bussare lievemente alla porta. All'invito d'entrare, si fece avanti un uomo dall'aspetto piuttosto dimesso, dallo sguardo punto rassicurante.
«Buon giorno» disse l'uomo girando attorno lo sguardo, «avete fatto del buon burro, oggi, compare?». E, senza attendere risposta, con fare insinuante e prepotente insieme, egli s'avvicinò al sarto. «Bene - disse lo sconosciuto - se volete continuare, firmate questo foglio».
Il sarto, titubante, prese il foglio, scorse con l'occhio l'elenco dei nomi che v'erano scritti. Trasalì: tra questi figurava anche quello di Kati. Tonto non era il nostro uomo e quel nome lì, su quel foglio lo mise in sospetto. Non esitò un attimo; restituì all'uomo il foglio senza firmarlo, non solo, ma si affrettò a fargli scivolare fra le mani (che mani adunche!) anche la borsetta di Kati! Via, via tutto: non voleva aver niente a che fare con quel poco raccomandabile messere.
L'uomo si fece scuro in viso ed uscì senza salutare. Il sarto chiuse rapidamente l'uscio, fece scorrere il chiavistello e, accostato l'occhio alla serratura, seguì finchè potè i passi dell'uomo che si allontanava, urlando e bestemmiando orrendamente. Se n'era andato. Il sarto, rassicurato, prese a pensare ai casi suoi ed immagino, che da quel giorno, non abbia più avuto né coraggio né voglia di salire al maso di Kati per i consueti lavori d'ago.


Il tesoro di Castelchiaro
Il tesoro di Castelchiaro
Caldaro e Termeno (BZ)

C'è chi crede che molti siano ancora i tesori che la terra cela gelosamente agli occhi degli uomini.
Così la pensava anche Sepp, un giovane ed intraprendente contadino di Termeno, che, in quanto a tesori, la sapeva lunga.
Un giorno, a Caldaro, fra innumerevoli «si dice che … si crede … si narra…» udì parlare di un certo tesoro che, secondo le dicerie della gente, doveva trovarsi, da molti anni, nascosto nei sotterranei di Castelchiaro.
Da quel momento il nostro uomo non ebbe più pace: di giorno, di notte egli non faceva che sognare il tesoro, il favoloso tesoro di Castelchiaro.
E una notte Sepp, armato di piccone e badile, andò al Castello. Il buio fasciava ogni cosa, ma Sepp, pratico dei luoghi, non faticò a trovare il sentiero e in breve giunse sul posto.
Accese la lanterna e con passo cauto si avvicinò alle mura, trovò un breve pertugio, entrò. Un soffio d'aria gelida lo fece rabbrividire; ebbe paura, fu per tornare indietro, ma la brama della ricchezza lo trattenne.
Scese una lunga fila di viscidi gradini e giunse in un profondo sotterraneo. Il dondolio della lampada disegnava, ad ogni passo, strane e paurose ombre danzanti sulle pareti. Nugoli di pipistrelli, spaventati da quell'insolito chiarore, svolazzavano pazzamente qua e là sotto la bassa volta. D'un tratto Sepp inciampò in qualcosa di duro; sollevò la lanterna e vide che due piccole palle scure erano rotolate ai suoi piedi. Incuriosito le raccolse, le soppesò con la mano, erano delle comuni bocce, di quelle che usano da noi per il gioco dei birilli.
Senza dar peso al fatto, Sepp si mise in tasca le due palle e, non avendo trovato di meglio, tornò sui suoi passi. Ma lungo la strada le due bocce cominciarono a farsi pesanti, sempre più pesanti. Sepp non ci pensò due volte: levò di tasca le due palle e con stizza le scaraventò lontano. Rientrò in casa di umore nero; questa volta non aveva avuto fortuna. Si ricordò, allora, di aver letto che, spesso, andando alla ricerca di tesori, si rinvengono oggetti di nessun valore che poi, chissà per quale magia, si tramutano in purissimo oro.
Averci pensato prima! Forse quelle due palle… quelle due palle… erano d'oro! Si precipitò fuori, rifece la strada già percorsa, ma delle due palle nessuna traccia.
Ritornò a casa deluso, ma più che mai deciso a continuare le sue ricerche al castello.
La notte seguente, munito dei soliti attrezzi, tornò a Castelchiaro. La brama dell'oro gli crescava l'audacia. Ritrovò il pertugio, scese le scale e si ritrovò nel sotterraneo.
Lentamente, tastando col piede il terreno, Sepp percorse tutto il lungo corridoio. Frugava con avidi occhi l'oscurità; gli sarebbe stata benevola, questa volta, la fortuna?
D'un tratto scorse accanto al muro una massa scusa. Si avvicinò, guardò meglio: era un aratro, un vecchio aratro usato. «Me lo porto a casa» disse tra sé il giovane «forse servirà a qualcosa!». E forse …
Forte com'era, sollevò in aria l'aratro, se lo caricò in ispalla ed uscì. Ma dopo un po’ quell'arnese cominciò a gravargli le spalle da schiacciarlo, quasi, e Sepp non potè più proseguire; depose a terra l'enorme peso ed attese qualcuno cui chiedere aiuto.
L'alba doveva essere ormai prossima, che già il cielo cominciava a schiarire; voci d'uomini e il cigolio d'un carro provenivano dalla strada vicina. Erano contadini che andavano ai campi. Quando videro Sepp fermarono i buoi e: «Ohè! Buon giorno, Sepp! Che fai costì, sembri di malumore» Non ne posso più - borbottò Sepp - quest'aratro è tanto pesante che non riesco a portarlo a casa!». «Subito fatto - osservarono allegramente gli amici - tu carichi l'aratro sul carro e senza alcuna fatica esso arriverà a casa. Ti va?».
Così fecero e l'aratro arrivò a destinazione. Ora il pesantissimo arnese viene scaricato e trasportato in cantina; gli amici se ne vanno e Sepp rimane solo.
Trepidante si avvicina all'aratro, lo guarda da tutte le parti, lo sfiora con mano leggera; una ruvida crosta di fango secco lo ricopre tutto.
«Quale segreto nascondi sotto questo fango?» mormora tra sé l'uomo e con l'unghia prova a raschiare lo spesso strato di terra che ricopre il vomere. Qualcosa luccica, si, luccica. «E' oro, oro, oro!» grida come impazzito l'uomo!
Sepp, ora, non ha più alcun dubbio e con le unghie trasformate in lime e scalpelli si dà furiosamente a raspare, a sgretolare la secca crosta terrosa. E raspa che ti raspa, sgretola che ti sgretola, finalmente l'aratro appare in tutto il suo prezioso splendore.
Sepp è stanco, ma non sente la stanchezza; rivoli di sudore gli corrono lungo la faccia e il collo, ma egli non se ne accorge neppure. Estatico egli contempla il suo tesoro: è ricco, ora, enormemente ricco.
Per la prima volta quella notte Sepp non dormì. Pensieri inquieti, oscuri incubi lo tormentarono, lo assillavano. Con le prime luci dell'alba Sepp si alzò stanco, abbattuto, esausto.
Uno specchietto appeso alla parete riflettè l'immagine dell'uomo ricco; un viso scavato, due occhi infossati, i capelli… Gettò un grido: i suoi bei capelli neri erano divenuti bianchi, bianchi come la neve, in una sola volta.
Da quel giorno il disgraziato continuò a deperire; si fece taciturno, scontroso, lui, che un giorno era l'anima della compagnia.
«Che hai? - gli dicevano gli amici - Vieni con noi: un bicchierotto di Kretzer (e schioccavano la lingua) scaccerà tutti i pensieri neri e tornerai ad essere il Sepp d'una volta». Ma sepp non li ascoltava, tutto preso, schiacciato dal segreto della sua enorme ed inutile ricchezza. Divenne in breve lo spettro di se stesso, metteva paura al solo guardarlo.
Silenziosa, un giorno, la Morte venne a prenderselo: lo trovò in cantina, davanti al suo tesoro.
Mai nessuno, in paese, ebbe l'ardire di toccare il prezioso aratro, perché, come si vede, non sempre l'oro porta fortuna…


Il nano in trappola
Il nano in trappola
Malles Venosta (BZ)

Un tempo, sui nostri monti, vivevano i nani. Dimoravano nelle grotte tappezzate di muschio, nei boschi verdi e cupi, ma, non di rado, prediligevano i pascoli alpini trapunti di genziane e di nigritelle.
Talvolta i nani lasciavano la loro alpestre dimora per scendere fra i contadini e i pastori. Strani davvero quegli omini!
A volte si dimostravano amici dell'uomo, aiutandolo nel suo lavoro e nelle sue necessità, a volte, invece, animati da inspiegabile astio, non esitavano a perseguitarlo con burle e beffe di ogni genere.
Così appresi dalle numerose leggende della Val Passiria, di Marzia, di Planol (Alta Val Venosta), dove talvolta accade di imbattersi in luoghi che, nel nome, ricordano ancora i misteriosi abitatori della montagna.
Nella pittoresca e selvaggia Val di Planol esiste un esteso pascolo chiamato tutt'oggi «Alpe dei nani». La primavera vi giunge tardi, ma al suo tocco, come d'incanto, ogni filo d'erba solleva il capino e mette un fiore. L'alpe sembra rinascere alla carezza del sole e, nelle brevi pozzette lasciate dall'ultima neve, si specchiano le delicate soldanelle.
Forse, lassù, sull'alpe verde, abitava quel nanetto che, puntualmente, due volte in settimana, scendeva a far visita ad una famiglia di contadini di Planol.
Alto un piede, vestito tutto di verde come una raganella, usciva improvvisamente dal bosco e, già da lontano, annunciava il suo arrivo con grida scoppiettanti.«Son qui - sembrava voler dire - non mi vedete?».
A salti, a balzi raggiungeva la casa, infilava la porta, entrava difilando in cucina: un ultimo balzo ed eccolo issato sul davanzale della finestra, suo posto preferito.
In cucina la faceva da padrone e si divertiva un mondo a spaventare la contadina con urla scomposte, con sghignazzi sguainati. La poveretta, per lo spavento, rovesciava la minestra sul fuoco ed, infine, era costretta a fuggirsene via, chiamando aiuto. Rideva, rideva allora l'omino e tutta la vasta e nera cucina echeggiava delle sue beffarde risate.
Ma questo non era tutto: il nano era inesauribile nell'architettare i suoi tiri birboni e, di volta in volta, si faceva più perfido e sfrontato.
Penetrava di soppiatto nel pollaio e rubava le uova fresche fresche dal nido. Inutilmente la gallina lanciava nell'aria il suo trionfante «coccodè»; quando la contadina, ansante e trafelata, giungeva nel pollaio, l'uovo non c'era più.
A volte, il mariuolo entrava nella stalla, legava i vitelli ad una sola catena, rubava il latte, mungendo di nascosto le mucche o tagliava fette di lardo dal maiale ancor vivo.
Il contadino, i figli, i servi, tutti erano impegnati nel montare di guardia alla casa, alla stalla, al pollaio, ma invano. Il nano riusciva sempre a portare a termine, indisturbato, le sue burle malvage.
Non c'era più pace nel maso. Allora la contadina pensò di ricorrere al consiglio delle vicine, cui raccontò la lunga serie di disavventure. Le esperte comari la consigliarono di aspergere la casa con l'acqua benedetta, di fare elemosine. Tutto ciò aveva effetto, al massimo, per un mese, poi il nano ritornava e con una perfidia ancor maggiore, quasi per rifarsi del tempo perduto, riprendeva a tormentare la donna. Un inferno.
Un giorno giunse da Malles una donna, nota in tutta la valle per la sua scaltrezza. La contadina la invitò in casa e le espose il caso suo. «Il rimedio c'è» le disse quella furbacchiona di tre cotte «prepara tu stessa una grossa trappola per topi, mettici una bella esca di lardo e poni la trappola sul davanzale della finestra. Ricordati di non accendere il lume e fa che nella cucina regni il più grande silenzio. Il nano, attirato dal profumo del lardo di cui è tanto ghiotto, entrerà nella trappola e, ciac… scatterà la molla: il nostro ometto rimarrà prigioniero. Sibito ti avvicinerai e gli dirai: "Promettimi di non molestarmi più o non uscirai vivo di qui!"».
La contadina, rasserenata, preparò una trappola di dimensioni non comuni e la collocò nel posto stabilito.
Il nano non si fece attendere: gridando, sghignazzando come il solito, entrò in casa. La cucina era buia, deserta. Con un balzo l'omino fu sulla finestra: un urlo lacerante ruppe, in quell'istante, il silenzio.
Ci siamo - pensò la contadina - e corse in cucina.
Il nano era là che si dibatteva, rosso di rabbia e di dolore, tentando, invano, di liberarsi dalla terribile morsa.
«Uh, uh, il mio povero piede!» berciava il nano beffato, e grosse lacrime gli colavano giù per le gote grinzose e paonazze.
La contadina, impietosita, gli si avvicinò, dicendogli: «La tua cattiveria è stata punita. Ti libererò, a patto che tu mi prometta di non molestarmi più».
Tra singhiozzi e lamenti, il nano promise. La donna non chiedeva di più; fece scattare la molla e l'omino fu libero.
Si tastò il piede indolenzito, si terse col dorso della mano le ultime lacrime e, zoppicando, si allontanò.
La lezione era dura: non tornò più.


I legnetti diventano topolini
I legnetti diventano topolini
Tires (BZ)

Il sole lambisce appena le ardite creste del Catinaccio là sopra Tires e più cupa appare l'ombra che riempie le forre e le anfattuosità dei monti. Nei masi sparsi lungo i declivi riprende la vita, inizia un nuovo giorno.
Berta, con la gerla in spalla, esce dal maso in cui si trova a servizio e a passo lesto, cantarellando, s'avvia verso il bosco della «Fossa del lupo», non molto distante da Nova Levante.
I prati brillano argentati dalla rugiada e lungo il sentiero le rose di macchia aprono timidamente le loro rosee corolle.
Il sentiero si fa via via più ripido, ma il bosco è vicino. Si ripercuotono nell'aria i colpi misurati e sicuri delle asce dei taglialegna al lavoro. Berta s'inoltra nel bosco e, sotto i suoi pesanti zoccoli, scricchiolano le secche foglioline aghiformi degli abeti. In una breve e chiusa radura giacciono gli alberi abbattuti, come giganti possenti caduti dopo un'epica lotta.
Martin, un giovane servo ne stacca i rami con ben assestati colpi di scure, mettendo in luce i tronchi poderosi.
«Buon giorno, Berta, - saluta allegramente il giovane, appoggiandosi con ambedue le mani al manico della scure - oggi c'è lavoro per tutti!».
Berta risponde al saluto e depone la gerla. Qua e là s'ammonticchiano i rami frondosi, ancor vivi quasi, col loro bel verde lucido e tante, tante piccole schegge sono sparse all'intorno, chiare ed umide di resina.
Ella dovrà raccoglierle tutte, perché il padrone, ricco, ma parsimonioso, vuole che nulla dei suoi alberi vada perduto; i tronchi alla segheria, perché si trasformino in solide tavole; i rami e le schegge al camino, per dare calore ed allegria nelle fredde giornate invernali.
Chinata a terra, Berta raccoglie in rapide ed abbondanti manciate quei minuscoli legnetti e li riversa nella capace gerla. Lavoro noioso e monotono, ma Berta sembra non se n'avveda.
Giungono a le voci note e familiari del bosco. Una cingallegra lancia nell'aria il suo canoro richiamo, mentre da un pino uno scoiattolo squittisce nell'ebrezza delle sue aeree acrobazie. Come sono felici queste piccole creature del bosco!
Berta interrompe, per un attimo, il suo lavoro per porgere orecchio alla voce multiforme e sempre varia della foresta. Meno dura le sembra, ora, la sua fatica, meno pesante la stanchezza. Anche Martin abbandona la scure e sosta in silenzio. Con mosse lente estrae di tasca l'inseparabile pipa e l'accende. Un furbo sorriso gli fa socchiudere i piccoli occhi scuri. Quale idea bizzarra gli è nata in quel testone irsuto?
«Berta, che ne diresti, se tutte queste schegge fossero topolini? Correrebbero da sole in cucina e tu faresti meno fatica!» esclama Martin, tra il serio e lo scherzoso.
La ragazza risponde con un'allegra risata, poi, abbassando la voce sussurra: «Non dirlo due volte… Aspetta».Si guarda attorno, poi, a fior di labbra, mormora delle parole misteriose.
Subito quei legnetti bianchi si trasformano in tanti, tanti vispi topolini grigi. Fr…fr.. sgusciano via, precipitano giù per il pendio. E con le schegge anche i rami, i ramoscelli si trasformano in topolini; è tutto un correre, uno sfrecciare argenteo sul verde vivido dell'erba.
Entrano rapidi in cucina con un fruscio leggero di zampine e…zac, nella cassa della legna. In breve questa ne è piena; piena di topolini? No! Di tanti tanti legnetti bianchi, profumati di resina e di bosco.
E Berta? Berta tace. Dai suoi occhi birichini filtra un sottile sorriso di trionfo. E Martin? Martin è là, con la bocca semiaperta, il cappello buttato all'indietro sui capelli ispidi, le gambe divaricate, ammutolito. Guarda, guarda quel mareggiare di dorsi grigi, di musetti grigi, di codini grigi che si agitano e scompaiono davanti a lui e di tanto in tanto si passa le grosse mani sugli occhi, credendo di sognare.
Ripetè ancora Berta quel magico gioco? Non si sa. Da quel giorno i servi e le serve che si recano a tagliare legna nei boschi di Tires, ricordano l'allegra leggenda dei topolini e cercano di rapire al vento, che conosce i misteriosi segreti della foresta, le magiche parole che l'accorta Berta seppe sussurrare in quel giorno lontano.


La caverna stregata
La caverna stregata
Val Pusteria (BZ)

La caverna s'apriva in una località imprecisata, fra Brunico e San Giorgio.
Proprio sul posto un tempo occupato dalla sua entrata, sorge ora una piccola cappella dedicata alla Vergine.
Qui il viandante si scopre reverente il capo, qui le mamme insegnano ai loro piccini a balbettare le prime preghiere. Dalla piccola nicchia, fra mazzi di vaghi fiori campestri, sorride la dolce Madonnina e benedice.
Ridente si stende attorno il paesaggio, con il verde smagliante dei suoi prati, entro la scura cornice dei boschi. Lontani i monti vestiti di grigio, d'azzurro, di viola, chiudono l'orizzonte.
Bianche, tra il verde, le rustiche casette con le finestre e i balconi traboccanti di gerani sembrano partecipare con la loro grazia gentile e tanta armoniosa festa di colori. Ed era pur bello quel lontano giorno di maggio, quando marianna, una giovane contadina di San Giorgio, se ne tornava da Brunico con la piccola Gretl. La giornata era calda e già faceva presentire l'estate ormai prossima.
Camminava adagio la donna, chè il primo caldo, il sole, la polvere della strada le davano stanchezza. Ma la strada era lunga ed ella doveva camminare ancora parecchio prima di giungere a casa.
Perché non riposarsi un po’? Avrebbe ripreso dopo, con più lena il cammino.
Così Marianna cercò un po’ d'ombra e si sedette sul ciglio della strada. Anche la piccola Gretl era stanca e con gioioso abbandono si gettò fra le braccia materne.
Ma fu per poco, chè una bellissima farfalla dalle ali iridate attrasse la sua attenzione. Con grida festose la piccina prese a rincorrerla fin dentro alle alte erbe del prato. Gretl era felice: con le treccine al vento, le rosse manine protese, sembrava voler imprigionare l'incanto e la bellezza della primavera. Spiccava tra il verde, fiore tra i fiori, la piccina vestita d'azzurro; passava sfiorando leggera le candide margherite, i ranuncoli d'oro. La mamma la seguiva con l'occhio vigile, attenta. La piccina appariva e scompariva nel folto dell'erba. Ma perché ora non si scorgeva più l'azzurra vestina? La donna attese qualche minuto con la certezza di vedere apparire di nuovo la sua piccina. Guardò ancora in tutte le direzioni, la chiamò con il pianto nella voce, gridò, nulla …
Della bambina nessun segno, nessuna risposta al disperato richiamo della madre. Con l'angoscia nel cuore, la mamma continuò le ricerche nei dintorni, esplorò ogni fosso, ogni siepe, ogni cespuglio, ma senza alcun risultato.
Sola, chiusa nel suo dolore, Marianna tornò a casa e pensieri lugubri, tristi presentimenti l'accompagnavano.
D'un tratto si ricordò della caverna: ne aveva udito parlare in paese. Si raccontava che dei bimbi, sorpresi lì presso a giocare, fossero scomparsi, inghiottiti entro quelle squallide pareti di roccia.
Nessuno s'era mai avventurato a varcare la soglia della fosca spelonca, nessuno: il terrore dell'ignoto arrestava anche i più animosi. Che ci abitasse qualche perfida maga, qualche mostro crudele?
Ma la mamma di Gretl nulla temeva: l'amore per la sua bambina l'animava d'un ardimento che non conosceva ostacoli. Non fece parola con alcuno e la notte seguente, sola, la donna coraggiosa raggiunse la caverna. Buio e silenzio. La donna accese una candela ed entrò. Il cuore le batteva forte da scoppiare.
Percorse un lungo corridoio e si trovò all'inprovviso presso l'entrata di una bellissima sala sfolgorante di luci.
Marianna spense la candela e cautamente avanzò di qualche passo.
Bimbi e bimbe giocavano nella grande sala: frugoletti biondi e frugoletti bruni facevano il girotondo tenendosi per mano. Cantavano, ma il loro canto era triste, triste come il cinguettio di un uccellino prigioniero.
Marianna ristette: guardava, scrutava ad uno ad uno quei visetti che, nel gioco, le comparivano davanti. Timore, speranza si alternavano nel suo cuore di mamma ogni qualvolta due treccine bionde e una vestina azzurra le volteggiavano presso.
D'un tratto, come avvertita da un richiamo misterioso, Marianna sollevò gli occhi; là, in mezzo alla sala, seduta su di un trono di cristallo, una bellissima signora vestita di azzurro (forse una maga?) teneva sulle ginocchia la piccola Gretl e l'accarezzava.
Marianna si sentì gelare il sangue nelle vene: ora capiva, capiva tutto. Qui, dunque si trovavano i bimbi misteriosamente scomparsi e ormai prigionieri della maga dal cuore di pietra.
La donna si scosse dalla sua immobilità, avanzò ancora. Una forza superiore sosteneva, guidava i suoi passi. I bimbi sospesero per un attimo il gioco e stettero a guardare stupefatti la sconosciuta.
All'improvviso, alto un grido risuonò sotto la volta della sala: «Mamma!». E la piccola Gretl, divincolandosi dalle braccia della signora, corse felice incontro alla sua mamma.
Col suo tesoro stretto al cuore, Marianna rifece di corsa il cammino verso l'uscita, seguita da tutto il cinguettante stuolo dei piccoli prigionieri.
Chi poteva, ormai, contrastarle il cammino verso la salvezza, verso la vita?
Nessuno, chè nessun sortilegio può vincere il cuore di una mamma.
Rotto l'incantesimo, la bella signora, la maga potente gettò un urlo selvaggio, orrendo: si spensero i lumi sfavillanti, tremò la terra e l'antro scomparve inghiottito in una profonda voragine.
L'intrepido amore di una mamma aveva vinto, per sempre, l'oscuro maleficio.


I Topi di Glorenza
I Topi di Glorenza
Val Venosta (BZ)

Dorme Glorenza tutta chiusa entro la cerchia delle sue mura. Sull'alta torre un armigero con l'alabarda in pugno veglia sulla città. E' il custode della notte. Egli guarda le stelle ed annuncia ai pacifici cittadini il lento, ma inesorabile trascorrere del tempo.
«Ore una … Buona notte, cittadini di Glorenza! Nessun pericolo in vista, buona notte!»
E l'uomo riprende a fissare le misteriose ed irraggiungibili stelle, seminate a miriadi nei campi infiniti del firmamento.
«Ore due… - annuncia il custode della notte, - buon riposo a voi, cittadini di Glorenza!».
Ora egli sosta in ascolto e ripete con voce monotona: «Buona notte! Ore due..».
Il vento ulula senza posa attorno alla torre antica. Ma questa non sarà una buona notte, no, di certo.
Odi, un cittadino, che dormì sognando un mattino sereno? Viene dalla campagna uno scalpiccio leggero di mille zampette invisibili, un fruscio, mille fruscii tra l'erbe. Odi?
Sono topi, decine, centinaia di topi campagnoli che, messi al bando della gente di Stelvio, si precipitano ora sulle sue terre.
L'orda famelica incalza, avanza, protetta dal buio della notte: Eccoli, quanti! Grigi, neri, bruni, essi si riversano nei campi, nei prati, negli orti. Dove passano tutto distruggono.
Sorge il mattino: una dolorosa, amara sorpresa attende i poveri contadini di Glorenza. Inebetiti, essi guardano con occhi persi quella rovina, quella devastazione.
Tutti i mezzi più comuni, più noti vengono usati contro lo scaltro ed agguerrito nemico: veleni micidiali, trappole, ordigni infernali: tutto inutile. Ed intanto lo spettro della carestia si profila sinistro sulla città. La popolazione vive ore di angoscia. Le vie, le piccole piazze sono deserte. La gente tira via, tutta presa da cupi pensieri.
A sera, nelle osterie, gli uomini si ritrovano, siedono gravi ai tavoli, parlano dei loro crucci e cercano insieme il modo di vincere il nemico che insidia i loro pochi beni.
Vedi un po’ il caso! Giunse proprio in quei giorni a Glorenza un giovane forestiero, uno studente, forse, a volerlo giudicare dalla foggia delle vesti e dal caratteristico cappello a turba. Biondo, lungo, allampanato, si fece subito notare dalla gente che lo vedeva aggirarsi tutto il giorno per le vie, curioso, senza darlo a vedere, di tutto ciò che accadeva intorno a lui. Una sera entrò in un'osteria, ordinò da bere e si mise ad osservare gli uomini che discorrevano, seduti, attorno ad un tavolo. D'un tratto si alzò e mosse verso di loro. I contadini lo sogguardarono con malcerata diffidenza.
«Amici - disse il giovane con fare cortese - permettete che mi sieda al vostro tavolo? Conosco i vostri guai e sono qui per aiutarvi, se volete».
I volti magri e scuri degli uomini si protesero curiosi verso il forestiero. Rispose il più ansiano, il capoccia: «Grazie della tua premura, cortese straniero. Se potrai fare qualcosa per noi, te ne saremo ben grati. Parla».
Tutti si fecero attenti ed il giovane prese a dire: «Ascoltate bene, uomini di Glorenza: io possiedo il segreto per liberarvi quanto prima dai topi che infestano le vostre campagne. Lasciate fare a me e vedrete…».
I contadini si guardarono fra loro, incerti se credere o no alle parole del misterioso forestiero, poi l'anziano replicò: «Rimettiamo nelle tue mani la salvezza delle nostre terre. Quando chiedi per codesta tua prestazione?».
Il giovane sorrise, quasi divertito.«Che cosa chiedo? Non molto, non molto: un po’ di bella, sonante moneta. Volete?».
Dieci, venti mani nere, callose si tesero a stringere quella lunga e pallida del giovane: il patto era concluso. Il mattino dopo i contadini e lo studente si recarono dal Giudice della città e davanti a lui rinnovarono solennemente i reciproci impegni.
Era, il Giudice di Glorenza, la massima autorità della valle ed esercitava la sua podestà non solo sugli uomini, ma anche sui topi, secondo un'antichissima tradizione.
«Siate uomini d'onore - ammonì il vecchio magistrato - tenete fede alla parola data, ciscuno per la parte che gli spetta». E, guardando dritto negli occhi il giovane, continuò: «Non sappiamo chi tu sia, né donde venga, cortese straniero, ma abbiamo fiducia in te! Va! Affrettati a porre in atto i tuoi piani, prima che il danno sia irreparabile, e non avrai a pentirtene… Và!».
Non se lo fece dire due volte, il giovane, che subito fu in strada. A gran passi, la lunga zazzera al vento, si diresse verso la «Porta Sluderno» e salì sulla torre; di lassù l'occhio spaziava libero e lontano.
Assorto, egli contemplò la campagna che si stendeva ai margini dell'abitato come una nitida scacchiera a riquadri verdi e bruni, bruni e verdi. Prati, campi, orti, frutteti: ogni palmo, ogni zolla di quella terra erano stati riscattati e resi fertili da anni ed anni di paziente e duro lavoro. I tenaci, i laboriosi uomini di Glorenza erano ben meritevoli di aiuto ed egli li avrebbe aiutati.
Girò attorno lentamente lo sguardo, mormorò all'aria poche incomprensibili parole.
Come ad un richiamo ormai noto e familiare, uscirono i topi, squittendo, dai fossi, dalle cavità dei vecchi alberi, dai buchi dei muri, dall'intrico delle siepi… Dappertutto era un brulicare di musetti aguzzi, di dorsi scuri, argentei, provenienti da mille e una direzioni.
D'un tratto sulla strada apparve lo studente: trasse di sotto il mantello un piccolo flauto e cominciò a modulare un'aria dolce e melodiosa.
Come d'incanto, la vivace ed irrequieta schiera si ricompose, avviandosi docile per la strada maestra, dietro il giovane che la guidava col magico suono del suo strumento. Se ne andarono per sempre i terribili roditori e la campagna fu salva.
Per giorni e giorni i contadini di Glorenza attesero il ritorno dello studente. Egli aveva tenuto fede alla parola data e una bella borsa piena di lucenti monete d'oro era pronta per lui.
Dalle finestre, dalle soglie delle case la gente spiava lontano, verso la «Porta Sluderno», aspettandosi di veder spuntare da un momento all'altro la lunga e magra figura del giovane col suo alto cappello a tuba e l'ampio mantello al vento.
Ma ogni attesa fu vana.«Che fare? - si chiedevano perplessi gli anziani del paese - quel denaro non si deve toccare: lo affideremo al Giudice della città, perché lo custodisca. Forse un giorno, chissà, il forestiero si farà vivo ed allora…».
Così fecero. E da quel giorno - così si dice a Glorenza - la bella borsa piena di sonanti monete è ancora là, ben guardata entro un pesante forziere, che attende il ritorno del misterioso studente, che vinse i topi col suono magico del suo flauto.


I Briganti del Maso Mackner
I Briganti del Maso Mackner
Vanga - Renon (BZ)

Sorgeva il maso Mackner un po’ discosto dal villaggio, presso la strada che scende da Auna di Sopra verso Vanga. Il maso stava, com'è uso da queste parti, al centro del podere. La casa non era grande, ma ben tenuta, non molta la terra, ma coltivata con grande cura ed amore.
Nel maso abitava, da anni, un contadino con la sua numerosa famiglia. In paese si diceva un gran bene della gente del maso Mackner; l'uomo era un onesto lavoratore e i figli promettevano di seguire le orme paterne. Col lavoro, una certa prosperità era entrata in quella casa, qualche nuovo appezzamento di terreno s'era aggiunto al podere, s'era ingrandita la stalla, aumentando il bestiame. Tutto sembrava andare per il meglio al maso Macker, senonchè, un brutto giorno il diavolo volle metterci la coda e da allora cominciarono i guai. Sentirete.
Ogni anno, la notte di Natale, dodici feroci masnadieri assalivano e saccheggiavano la casa. Di dove venivano costoro? Chi erano? Mistero. Erano sempre gli stessi: dodici loschi figuri, avvoltoi in neri mantelli, neri e lampeggianti gli occhi nel viso barbuto.
Ogni anno, alla stessa ora, i dodici armati di mazze, daghe e pugnali, si presentavano al maso. Con le pesanti mazze ferrate abbattevano la porta, entravano, e guai al temerario che avesse osato contrastar loro il cammino: daghe e pugnali non fallivano mai il colpo! Alla sventurata gente del maso non restava altro scampo che la fuga. Al ritorno, che desolazione! Devastante le stanze, depredate la dispensa e la cantina, svuotato il granaio...
Da qualche anno, ormai il fatto si ripeteva con inesorabile puntualità.
Notte di natale! Notte di serena, trepida attesa. Si accendono i fuochi sulle alture, in ogni casa, anche la più umile, si prepara l'albero di Natale. Grandi e piccini si raccolgono nella «Stube», si accendono le candeline e tutti gli occhi brillano di gioia commossa, di felicità. «Stille Nacht, heilige Nacht!..» Voci argentine, voci profonde si elevano in un accordo unico, solenne. Poi, uomini, donne, fanciulli, tutti escono per la Messa di mezzanotte. La casa si svuota. A frotte, con le fiaccole accese, vanno nella notte santa i contadini verso la chiesa e nel cielo è tutto un fiorire di stelle.
Ma quanto è diversa la vigilia di Natale per la gente del maso Mackner! Nella casa solitaria si vivono ore di terrore, d'angoscia. Domande appena sussurrate a fior di labbro, s'incrociano nell'aria, destinate a cadere senza risposta. Verranno? Non verranno?
Per tutto il giorno il contadino, aiutato dai figli più grandicelli, dai servi, s'affanna a portar lontano, a nascondere in luogo sicuro quanta più roba possibile.
Col calare delle prime ore della sera invernale, tutti si raccolgono nella «Stube»; si mangia in silenzio, l'orecchio teso ad ogni più piccolo rumore che provenga dalla strada.
Quando è l'ora, gli abitanti del maso escono per recarsi al villaggio per la Messa di mezzanotte. La casa rimane deserta e sola a sostenere l'assalto dei neri cavalieri della notte.
Ma una vigilia di Natale… Era già notte. La tramontana spazzava furiosa il monte, sollevando attorno un gelido spolverio di neve. Un forestiero si presentò al maso Mackner.
Era costui un omino vestito alla foggia dei mercanti d'una volta, con un viso risecchito in cui brillavano, come capocchie di spillo, due orecchietti neri e stranamente lucenti. L'omino bussò: «Chi è?» chiese dall'interno una voce.«Amici!» rispose il forestiero. Il contadino, con una lanterna in mano venne ad aprire e il forestiero entrò.
«Il Veneziano, il Veneziano!», gridò festosamente uno dei figli e gli corse incontro per stringergli la mano.
Tutti gli si fecero intorno per salutarlo, chè l'omino, chiamato da quelle parti «il Veneziano» era persona assai stimata per il suo coraggio, per la sua accortezza e, non ultimo, per la sua generosità.«Con questo tempaccio da lupi - esclamò il contadino - che vuol mai dire?»
«Vengo da un lungo viaggio, sono stanco e vi pregherei di darmi alloggio per questa notte».
«Volentieri - rispose il buon contadino -, venite, venite intanto a mangiare un boccone!». La contadina portò in tavola un piatto di fumanti frittelle al miele e l'omino cominciò a mangiare con grande appetito, lodando, tra un boccone e l'altro, l'abilità della cuoca.
Di tanto in tanto il contadino s'avvicinava alla finestra, tendeva l'orecchio, inquieto. Anche la contadina andava e veniva preoccupata.
«Che c'è - chiese «il Veneziano» fingendo di non sapere! -.Non tira aria allegra, qui dentro, stasera! Che succede? Quale pena vi affligge?», chiese premuroso l'omino.«Se posso esservi d'aiuto, contate pure su di me… Dite, dunque».
«Questa notte tutti sono felici - disse sospirando il contadino -, solo noi del maso Mackner non possiamo gioire nella Notte Santa…» e con il pianto nella voce, confidò al forestiero le sue pene.
«Anche questa notte "essi" verranno. E voi che farete?».
«Se permettete, rimarrò, - rispose l'omino -. Mi difenderò, non temete».«Come volete» assentì il contadino, ed uscì con i suoi per scendere al villaggio.
L'omino rimase solo. Si assicurò che la porta di casa fosse chiusa, salì sulla stufa, spense il lume e, al calduccio, s'addormentò.
Fuori il vento continuava la sua sarabanda. Dal campanile della chiesa di Vagna vennero dodici rintocchi; poco dopo il campanile di Avigna gli fece eco, dall'altra parte della valle. Ma l'omino dormiva, dormiva e sognava.«Se siete qui - dice - ah, ah, ah!», e ride. Ma non è un sogno. Sono arrivati davvero, i masnadieri; battono furiosi alla porta con le daghe, con le mazze. L'omino si sveglia di soprassalto, tende l'orecchio: «Sono loro» mormora e, senza fretta, va ad aprire.
Uno, due, tre… sono dodici, ci sono tutti. L'omino li fissa ad uno ad uno negli occhi, li minaccia col dito senza proferire parola. I predoni ammutoliscono, lasciano cadere mazze e pugnali, tremano come fronte di betulla.
«Ed ora venite con me» comanda imperioso l'omino e i dodici, dodici come agnellini, lo seguono nella «Stube». Eccoli qua. L'omino dà un ordine secco e tutti e dodici i messeri si allineano rigidi e muti lungo le pareti della stanza.
«Fatto» dice fra sé l'omino e, soddisfatto, torna a dormire sulla stufa.
Intanto il contadino con i suoi ritorna dalla chiesa. Cauto si avvicina alla porta; la porta è chiusa, intatta. E' possibile? Mette la chiave nella toppa, entra. Entrano anche gli altri; tutto è in ordine, com'era stato lasciato prima d'uscire. Quasi non crede ai propri occhi quella buona gente.
Rassicuratosi, il contadino si dirige verso la «Stube», mette dentro la testa e guarda; ciò che vede lo fa rimanere di stucco. Apre la bocca per parlare, ma un solo lunghissimo «oh!» gli esce rotolando dalle labbra. Gli fa eco la moglie, gli fanno eco i figli, i servi, e tutti guardano incantati i dodici, che ritti ed immobili come pali, non danno segno di voler farsi vivi.
D'un tratto l'omino si sveglia e sorride furbescamente ai suoi ospiti, che gli si fanno attorno tempestandolo di domande:«Com'è avvenuto? Cos'è successo?».L'omino gira i piccoli, vivissimi occhi sui visti attoniti dei contadini che lo circondano, godendo della loro ingenua meraviglia, della loro curiosità.
«Eccoli là, i malandrini, li vedete? - dice ridendo puntando l'indice sui dodici. Ora potete fare di loro ciò che vorrete: sono nelle vostre mani. Potete lasciarli liberi o farli arrestare».
Il contadino guarda la sua gente, poi chiede consiglio al «Veneziano».
«Se crede - dice l'omino - potete metterli in libertà. Non verranno più al maso, state certi, perché se tornassero, ehm …, ehm … avrebbero la peggio!». «E quei messeri là lo sanno - dice, alzando la voce in tono minaccioso - ah!, se lo sanno!»
Al contadino, ormai tranquillo e sicuro, non parve vero di poter liberarsi così presto da questi ospiti… tanto incomodi! Si avvicinò ai «dodici» e: «Uscite di qua, disse, e cercate di dimenticare per sempre la via che conduce a questa casa».
Uno dietro l'altro, avvolti fino agli occhi nei loro neri mantelli, i masnadieri, silenziosi come spettri, scivolarono via, scomparendo nelle tenebre. Per sempre.
E il «Veneziano?». Chi lo vide più?
Per molto tempo al maso Mackner si parlò ancora di lui e, ogni anno, la vigilia di Natale, si lasciava la porta socchiusa perché, non si sa mai, l'omino avrebbe potuto ancora tornare…


La Leggenda del Panettone
Milano (MI)

Si narra che alla vigilia di Natale, nella corte del Duca Ludovico il Moro, Signore di Milano, si tenne un gran pranzo. Per quell’occasione il capo della cucina aveva predisposto un dolce particolare, degno di chiudere con successo il fastoso banchetto. Accortosi che il dolce era bruciato durante la cottura, il panico colse l'intera cucina. Per rimediare alla mancanza, uno sguattero della cucina, detto Toni, propose un dolce che aveva preparato per sé, usando degli ingredienti che aveva trovato a disposizione tra gli avanzi della precedente preparazione. Il capo cuoco, non avendo altro da scegliere, decise di rischiare il tutto per tutto, servendo l'unico dolce che aveva a disposizione. Un "pane dolce" inconsueto fu presentato agli invitati del Duca, profumato di frutta candita e burro, con una cupola ben brunita, fu accolto da fragorosi applausi e, in un istante, andò a ruba. Un coro di lodi si levò unanime e gli ospiti chiesero al padrone di conoscere il nome e l’autore di questo straordinario pane dolce. Toni si fece avanti dicendo di non avergli ancora dato nessun nome. Il Duca allora lo battezzò con il nome del suo creatore e da quel momento tutti mangiano e festeggiano con il "pan del Toni", ossia il panettone, famoso ormai in tutto il mondo.

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