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Il voto incompiuto
Cornedo e Pietralba (BZ)
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Lasciate le ultime case di Cardano, la Val d'Ega, quasi all'improvviso, si restringe fra due ardite pareti di roccia porfirica. In fondo, incassato fra la strada e la pendice scoscesa del monte, scorre, scrosciando, il torrente Ega. Il paesaggio è crudo, aspro, vivo di una sua particolare e suggestiva bellezza. E quasi a guardia della forra, ardito sulla sommità del bastione roccioso, si erge Castel Cornedo. Massiccio, ferrigno, come germogliato e cresciuto sulla roccia stessa, appare il maniero a chi lo guardi dal fondovalle. Nei tempi antichi viveva in quel castello un cavaliere con la sua famiglia e la numerosa servitù. Tutt'intorno si estendevano le sue terre. Al piano, i campi e i vigneti rigogliosi, sulle alture i verdi pascoli e i boschi di conifere. Sparse lungo il fianco e al piede del monte stavano le casupole dei contadini che lavoravano quelle terre. Dal suo nido di falco il castellano dominava le strade e i sentieri che incrociavano al piano, là, dove le due valli - la Val d'Isarco e la Val d'Ega - confluiscono. Lassù nel suo maniero egli si sentiva sicuro; era abbastanza temuto per tenere a bada i nemici, abbastanza generoso per tenersi fedeli gli amici. Il Signore di Castel Cornedo, il cavaliere orgoglioso ed audace, si vantava di non conoscere la paura. Ma un giorno una terrificante notizia giunse al castello. A Bolzano era scoppiata la peste. La gente moriva; intere famiglie perivano vittime dell'orribile morbo. Le case si svuotavano paurosamente e il male dilagava ormai nei sobborghi e nel contado; la «morte nera» mieteva, inesorabile e crudele, larga messe di vite umane. Le campane non suonavano più e anche il cielo incombeva plumbeo sulla terra in gramaglie. La costernazione e il terrore regnavano in città. Anche nel castello entrò la Paura; s'infiltrò subdola fra le spesse e munitissime mura, senza far rumore. Il cavaliere brillante, l'uomo dalle audaci imprese, cominciò a non sentirsi più tanto sicuro; si vide solo, indifeso di fronte ad un nemico che non conosceva, che non portava né elmo, né corazza, ma che sapeva uccidere senza pietà. Che cosa potevano contro di lui le solide mura, le torri, le schiere di armati? Ironia! Nulla. Nell'imminenza del pericolo, il cavaliere divenne umile, e comprese che altrove egli doveva cercare aiuto e difesa. In preda ad un'angoscia disperata si rifugiò, solo, nella piccola cappella del castello e là proruppe in un grido d'invocazione: «Madonna Santa, aiutateci! Se tu risparmierai il castello dalla peste, farò un pellegrinaggio con tutta la mia gente fino a Pietralba!» Si videro giorni d'ansia, ma il subdolo male non riuscì a superare le mura. Sembrava che un difensore invisibile e potente avesse preso a proteggere gli abitanti. Come Dio volle, la pestilenza, un giorno, cominciò a diminuire e a poco a poco cessò del tutto. La vita riprese nella città e nei villaggi. I sopravvissuti, gli scampati, tornarono alle loro attività, alle opere consuete; gli artigiani cominciarono a riaprire le loro botteghe, i mercanti tornarono ad esporre alla luce le loro mercanzie, i contadini posero mano di nuovo alla vanga e alla zappa. Le strade, le piazze della città si fecero animate, vive; riflettevano nel movimento, nell'animazione l'incontenibile gioia di coloro che, dopo aver vissuto ore d'incubo, si ritrovavano a salutare il sole e la vita. Cessato il pericolo, il Signore di Cornedo dimenticò ben presto le ore angosciose che lo avevano fatto trepidare, dimenticò pure la promessa con cui aveva ottenuto dalla Madonna la salvezza per sé e per i suoi. Nel castello ripresero le feste, le partite di caccia, tornò l'allegria e la baldanza. Com'erano ormai sbiaditi nella memoria i giorni della sventura e del pericolo! A che ricordarli, se ora la vita sorrideva invitante, così ricca di promesse e di speranze? Ma la morte gelida ed esosa non dimenticò; furtivamente giunse al castello, silenziosa penetrò entro le mura. Il morbo funesto non risparmiò nessuno; mute le pietre assistevano a tanta tragedia. Il castello rimase disabitato; invaso da erbacce il gran cortile, vuote le scuderie, deserte le sale, un giorno echeggianti voci festose, di dolci melodie di menestrelli. Nelle torri vennero ad abitare i gufi e trovarono ospitalità intere famiglie di pipistrelli. La gente del luogo, passando da quelle parti, lanciava uno sguardo pieno di sgomento al sinistro maniero e girava al largo. Ma una notte… Una notte i morti del castello ritornarono. Quasi obbedendo ad un arcano ed irresistibile richiamo, si dettero convegno fra quelle mura desolate. Non mancava nessuno. Spettrali, avvolti in funerei mantelli, riempirono il grande cortile. Senza una voce, senza un cenno, ad un tratto si misero in fila e in processione uscirono. Davanti, alto, imponente, cavalcando lo scheletro di un cavallo, procedeva il Signore di Cornedo. La lugubre teoria degli scheletri si snodava lungo il sentiero della montagna e sembrava non aver mai fine. Al loro passaggio uscivano dai cespugli, di tra i massi, scheletri di cani, di gatti, perfino di topi e di ratti; anche questi si univano ai primi, seguendoli, nel loro viaggio notturno. Dov'erano diretti? Scesero nella valle, s'inerpicarono sul fianco del monte opposto, traversarono pascoli e boschi; andavano a Pietralba ad adempiere la promessa che non avevano mantenuto in vita. Ora, finalmente, erano in pace con se stessi e con Dio. Perdonati ed assolti, i morti tornarono alle loro tombe vegliate dal silenzio e dalla pietà degli uomini.
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La Storia di un Rubino
Lives (BZ)
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Alto, sullo spessore di roccia che si protende all'imbocco della Vallarsa, stava, una volta, un castello. Là abitarono per molto tempo i nobili «Signori di Liechtenstein» che, nei lontani secoli dell'età di mezzo, ebbero potere e signoria su quelle terre dove oggi si estende, con le campagne circostanti, l'abitato di Laives. Ma l'inaccessibile maniero ora non esiste più: diroccate, abbattute le torri e le mura, non rimane di tanta potenza che un cumulo grigio ed informe di pietre. Ma spesso anche le cose più umili, più dimenticate, hanno una voce e sanno parlare, a loro modo, al cuore, alla fantasia dell'uomo: e furono, forse, le antiche rovine, i ruderi sepolti del tempo, ad ispirare la fresca leggenda che vi voglio narrare. Visse, un tempo, nel castello il nobile Pietro di Liechtenstein. Dagli avi, venuti certamente dal nord, come testimonia il nome del casato, aveva ereditato le numerose e fertili terre che formavano uno dei più bei feudi della valle. Pietro era nato in quel castello appollaiato fra le rocce come un nido di falco, vi era cresciuto e lo amava come amava le sue terre, di cui conosceva ogni palmo, ogni angolo, ogni casupola, ogni sentiero. Qui egli amava vivere e, non appena la sua dura ed aspra vita di uomo d'armi glielo consentiva, tornava tra le vecchie mura, tra le cose care ed i volti noti. Dimessa la pesante armatura, via a cavallo per viottoli e sentieri o lungo le rive del Rio di Vallarsa a respirare, felice, la fresca aria natia. Pietro di Liechtenstein era generoso e buono, trattava bene la sua gente, entrava sovente nelle case dei suoi contadini per conoscere più da vicino la loro vita, per sovvenire e soccorrere i loro bisogni. Tutti sapevano che la via che conduceva al castello era sempre aperta ai poveri, ai diseredati, che, numerosi, ricorrevano a lui per avere aiuti e protezione. E la fama delle chiare e nobili virtù del Signore di Liechtenstein correva di castello in castello, di valle in valle. Com'era tepida l'aria in quel lontano giorno di primavera, quando Pietro, accompagnato dal fedele palafreniere, uscì dal castello per la solita cavalcata! Già gli alberi si rivestivano del verde tenero delle foglioline appena nate e il cielo sembrava dipinto a nuovo tant'era terso ed azzurro. Giunto in fondo al sentiero, Pietro si voltò: anche il vecchio e severo castello sembrava meno arcigno in quel quadro di pura bellezza. Dai cespugli, dalle siepi, venivano sommerssi cinguettii, frulli improvvisi, qualche uccellino azzardava un richiamo, un gorgheggio, subito ripreso da un altro, da un altro ancora, ed era una festa tutt'intorno. Pietro cavalcava felice. Anche il cavallo, un bel morello dall'occhio vivo ed intelligente, sembrava godere di quella giornata di primavera. Di tanto in tanto sollevava la testa, e con le froge dilatate e frementi respirava quella bell'aria che sapeva di erbetta fresca, appena nata, di fiorellini in boccio, di sole. A malapena s'adattava ad andare al passo, il focoso destriero, impaziente di lanciarsi al galoppo per la campagna, ma il cavaliere teneva salde le briglie e ne moderava prudentemente l'andatura. Arrivarono così, senza quasi accorgersene, nel luogo dove c'era un mulino. Il posto era solitario e deserto: non una casupola, non una capanna, ma il bosco fitto e scuro e la voce sonora del torrentello che scorreva vicino. Sostarono. D'un tratto di tra gli alberi videro uscire un nano, un omino alto una spanna, con una lunga barba bianca, vestito di rosso da capo a piedi. I due si guardarono sorpresi e, divertiti, stettero a vedere, o meglio a spiare le intenzioni e le mosse dell'omino. Questi, per nulla intimorito dalla presenza dei due uomini, si fece avanti, poi - rimasto un attimo soprappensiero - si avvicinò decisamente a colui che per la ricchezza delle vesti e la dignità del portamento gli sembrava essere il capo, il signore, e gli chiese l'elemosina. Sorpreso dall'audacia del nano, il palafreniere fece per scacciarlo, ma il signore con un cenno della mano gli ordinò di ritirarsi. Il cavaliere guardò con simpatia e benevolenza lo strano personaggio e levata di tasca una moneta d'oro, la lasciò scivolare nella mano rugosa che gli si protendeva davanti. Rise di gioia il nano accarezzandosi la bella barba candida e, riposta la preziosa moneta nella tasca sinistra del suo giubbottino, levò dalla destra un magnifico rubino che porse al signore con un profondo inchino. Il cavaliere non sapeva staccare gli occhi dalla gemma meravigliosa, che splendeva con mille preziosi scintillii nel palmo della sua mano. Nell'accomitolarsi, il nano raccomandò al signore di custodire gelosamente la gemma. «Essa - sussurrò con aria misteriosa - porterà fortuna a te ed ai tuoi discendenti»: e scomparve rapido nel bosco. Felice dell'augurio, Pietro avrebbe voluto sapere ancora molte cose dal nanetto; smontò da cavallo, s'inoltrò tra le piante, lo cercò a lungo, ma l'omino s'era ormai dileguato. Pietro tornò al castello al galoppo. Non vedeva la strada tanto il suo pensiero correva, volava lontano. Riudiva ancora negli orecchi la voce un po’ roca del nano: .. «conserva gelosamente la gemma, che porterà fortuna a te ed ai tuoi discendenti». Chiamò da Bolzano un celebre orefice e fece incastonare il rubino nello stemma di famiglia. Il rosso vivo della gemma impreziosita, ora, con lo scintillio dei suoi riflessi, l'oro dei ceselli e dava vivezza ai colori degli antichi simboli araldici. Ben a ragione, da allora il castellano potè chiamarsi «Signore di Liechtenstein». Con lo stemma anche il nome passò alla sua stirpe che ebbe, un tempo, splendore e fortuna. La profezia del nano della Vallarsa si era avverata.
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Il cavaliere e il drago
Val Badia e di Marebbe (BZ)
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Massiccio, ferrigno, tutto torrioni e dirupi, si erge, fra San Vigilio di Marebbe e Badia, il «Sasso della Croce». Lassù, rintanato fra le rocce, viveva, una volta, un terribile drago. Occhi di fuoco, aveva l'orribile mostro, zampe di leone, testa e corpo di serpente e sul dorso portava due grandissime ali che, aperte e spiegate, oscuravano il sole. Dal suo inaccessibile covo, il mostro spiava la preda - uomo od animale che fosse - e quando questa, ignara, gli giungeva a tiro, si levava repentino in volo e con gran strepito d'ali, sibili e fischi laceranti, le piombava addosso divorandola. Giorni di terrore si vivevano nella valle, un dì sì ridente e tranquilla. Molte famiglie già portavano il lutto e chi non lo portava guardava con angoscia, con sgomento all'incerto domani. Nessuno più poteva sentirsi sicuro della vita e la paura teneva tutti i prigionieri entro la stretta cerchia del villaggio. I mandriani non salivano più col gregge ai verdi pascoli dell'Armentana, né i boscaioli si azzardavano a recarsi a tagliar legna nei boschi, chè dall'alto il mostro dall'occhio di fuoco tutto vedeva, pronto a calare all'improvviso sulla vittima. No, nessuno osava più allontanarsi dal villaggio, nessuno. Ad ogni ora del giorno centinaia di occhi scrutavano ansiosi le grige rocce del «Sasso della Croce» e, quando la mole scura del drago s'affacciava alla bocca dell'antro e il primo sibilo fendeva l'aria, un grido d'allarme si levava dai casolari: era il segnale. Tutti allora si rinchiudevano in casa, si sprangavano porte e finestre; in un battibaleno il villaggio rimaneva deserto come se vi fosse passata, con una ventata, la morte. Dietro le porte, le finestre, la gente piangeva e pregava, mentre urli orrendi riempivano sinistramente l'aria. Saziata l'orribile fame (la vittima purtroppo non mancava mai) il mostro tornava alla sua dimora tra le rocce e tutto si rifaceva tranquillo. La gente riapriva le case, momentaneamente felice; gli uomini mandavano fuori il bestiame dalle stalle, le donne tornavano a sfaccendare per casa e i bimbi riprendevano i giochi interrotti, sotto il vigile occhio materno. Così ogni giorno, da settimane, da mesi, ormai … Ardimentosi cavalieri, uomini d'arme non avevano esitato ad affrontare il mostro con le armi, ma nulla avevano potuto i darli acuminati, nulla i colpi di lancia contro l'impenetrabile corazza che proteggeva il mostro in ogni parte del corpo. Tutti erano periti nell'impari lotta e le loro ossa erano rimaste laggiù, ai piedi della montagna. Ma così non poteva durare e, un giorno, gli abitanti dei villaggi più esposti alla minaccia del mostro, decisero di abbandonare le loro terre per cercare altrove asilo e salvezza. Nottetempo, in lunghe file nere, tristi e silenziosi, trascinandosi dietro gli animali, i montanari lasciarono i loro casolari e raggiunsero il fondovalle. Lassù non rimase anima viva. Quando il drago si vide mancare la preda, estese su altre contrade, su altri villaggi il suo triste dominio e la schiera delle vittime sembrava non aver più fine. Ma un giorno … Un giorno si sparse nella valle la notizia che Prack il prode dei prodi, avrebbe affrontato il drago in combattimento. La speranza rinacque nel cuore della gente sventurata, perché tutti sapevano chi era Prack e tutti conoscevano il suo coraggio, il suo ardimento. Prack era un giovane cavaliere di Marebbe, forte e generoso; nessuno meglio di lui sapeva maneggiare la spada e tirar d'arco e chi l'aveva visto battersi in Terra Santa per la Croce di Cristo, narrava di lui cose mirabili. Come ogni cavaliere degno di questo nome, egli aveva eletto a suo celeste patrono San Giorgio, il Santo Cavaliere, di cui, si diceva, avesse avuto in retaggio la sella, una sella prodigiosa che conferiva, a chi l'usava, lo straordinario potere di sgominare qualunque avversario per quanto potente ed agguerrito egli fosse. Udì il cavaliere le voci imploranti che disperatamente lo invocavano? Certo, si, e si accinse alla prova suprema. Bisognava vincere, abbattere il mostro, salvare la sua gente, la sua terra, a qualunque costo. Si armò d'arco e di frecce il cavaliere, e sellato il suo fido morello, partì a spron battuto alla volta di Badia. Correva, volava il cavaliere, stretto al suo cavallo per sentieri scoscesi, per boschi e valloni, via, via, come portato dal vento. Giunse, così, ai piedi del «Sasso della Croce» e lì sostò. L'immane parete rocciosa gli si ergeva contro, grigia e fredda con le sue crode, i suoi dirupi, come un'enorme muraglia elevata paurosamente verso il cielo. Prack alzò la visiera dell'elmo, puntò lo sguardo diritto verso la bocca dell'antro. Subito, il mostro, sentì nell'aria la presenza dell'uomo, del nemico ed enorme, spaventoso si spinse fuori con gli occhi balenanti, le fauci spalancate, battendo furiosamente la roccia con le enormi ali nere, che tutta l'aria intorno ne era sconvolta. Prack non tremò, incoccò fulmineo una freccia e tese l'arco; con un sibilo sottile, sferzante la freccia partì, andando a conficcarsi per intero nel cuore del mostro. Un urlo orrendo squarciò l'aria, si ripercosse sinistro per gole ed anfratti, moltiplicato, ingigantito dall'eco e il mostro si abbattè, contorcendosi, sul ghiaione. Lì giacque immobile, mentre un fiotto di sangue nero, infuocato, gli usciva dalla ferita, segnando una scia viscida e fumigante sulle pietre. Il mostro era morto. La gente della valle era libera, dunque. Una gioia grande, mai provata prima d'allora, riempiva, gonfiava il cuore dell'eroico cavaliere. Con l'aiuto di Dio e di San Giorgio ancora una volta aveva vinto. S'inginocchiò il giovane sulle pietre, al cospetto della montagna non più nemica, e mai preghiera più fervida, più riconoscente uscì dalle sue labbra. E Prack tornò al suo castello. Giù nella valle, intanto, la gente attendeva con ansia e trepidazione un messaggio, una notizia. Che era avvenuto al cavaliere? Era ancora vivo? O era rimasto lassù, stritolato fra gli artigli del mostro? Chi diceva una cosa, chi ne diceva un'altra e la disperazione e la speranza lottavano fra loro nel cuore di quei poveretti. Ma nessuna notizia, nessun segno venne dal monte ed i giorni ripresero a scorrere incerti e squallidi nella valle. Un giorno un giovane pastore osò rompere il cerchio desolato della pianura; radunò il suo gregge e salì verso i pascoli alti. La curiosità, l'audacia, lo spinsero a salire più su, sempre più su, finchè si trovò ai piedi del «Sasso della Croce». Là, sul ghiaione, il pastore vide una gran carcassa, un mucchio d'ossa, alto così, bianco, sotto il sole. Era quanto rimaneva del drago. Fugata la paura, la vita rifiorì nella valle. I profughi tornarono ai loro villaggi, ripresero sereni i lavori consueti. Il ricordo dei giorni tristi a poco a poco svanì, ma viva rimase tra gli abitanti della Val Badia la memoria dell'eroico cavaliere di Marebbe. Sul posto stesso, dove fu ucciso il drago, venne eretto più tardi un cippo, un'umile pietra rozzamente scolpita, che, fino a non molti anni fa, si dice, esistesse ancora.
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Il bambino con la camiciola bagnata vers.cristiana
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Il bambino con la camiciola bagnata vers.cristiana
Arco alpino (BZ)
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Una povera donna non smetteva mai di piangere la perdita del suo bambino adorato. Piangeva sempre, di giorno, di notte, a casa, sulla via, al camposanto vicino, dove si recava due o tre volte al giorno e perfino di notte. Le sue lacrime cocenti bagnavano la piccola croce e la terra del tumulo che copriva le spoglie del suo morticino. Nessuno riusciva a farle ritrovare la serenità, a convincerla a trovare in se stessa la forza della rassegnazione secondo gli ammaestramenti della religione cristiana, a sapersi adattare alla legge divina, che così aveva disposto, che così aveva voluto. A nulla giovavano le affettuose esortazioni delle persone care a lei vicine, che nel dolore per il bimbo tanto desiderato e perduto, reprimevano angosciate il pianto. Ma forse non sapeva rassegnarsi la mammina, forse non voleva, forse non era in grado di ritrovare la pace. Era stata felice, quando il suo primo nato era venuto alla luce del mondo, bello, biondo, con due occhietti azzurrissimi come il cielo dei nostri bei monti che lo videro nascere. Estenuata, disperata, non era neppure in grado di pregare la Madonna, Madre di tutti i viventi, che l'assistesse nel suo grande dolore. Ed una notte, che appoggiata alla piccola croce vegliava accanto al suo fantolino nella fredda tomba adornata di roselline bianche e di gigli profumati, alzando gli occhi pieni di pianto ebbe una visione: Le sembrò di vedere avvicinarsi una schiera infinita di bambini tutti vestiti di bianco e di oro. Cantavano le laudi del Signore e passandole vicino, ascendevano in alto verso il Cielo. La mammina guardava quei visini sorridenti, cercava, scrutava uno per uno quegli angioletti, ma non riuscì a scorgere il suo bambino. Passarono tutti; il suo angioletto non c'era nella schiera. La visione stava per cessare e la povera donna, presa ancora dal dolore, raccolse le forze, chiese all'ultimo bambino della schiera: «Piccolo angioletto, non hai visto il mio Sandrino? Mi sai dire dov'è? E' forse già passato avanti?» «No, buona mamma - fu la risposta - E' ancora lontano il vostro bambino, non può seguirci, non può tenerci dietro, perché è tutto inzuppato dalle vostre lacrime». Allora la madre si asciugò gli occhi rossi di pianto ed invocata finalmente la Madonna, a cui si rivolse fiduciosa chiedendo aiuto, non pianse più. Continuò a portar fiori bianchi e a pregare sulla tomba del suo piccolo, appoggiata alla croce del conforto. Ancora una volta vide ritornare la processione dei bambini. Ed il suo Sandrino, passandole accanto, la salutò sorridente con le manine
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La Madonna della Palude
Bolzano (BZ)
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Una notte un carrettiere di Bolzano tornava da Bronzolo, dove aveva scaricato un carico di legname. Da Brozzolo, infatti, partivano un tempo i grandi zatteroni che, scendendo lungo il corso dell'Adige, trasportavano verso la pianura legname ed altro materiale proveniente dalle valli atesine. La notte era calma, serena, e nel cielo v'era tutto un luccichio di stelle. Seduto sul carro, cullato dal monotono cigolio delle ruote, il carrettiere sonnecchiava. Gli sorrideva, tra il sonno e la veglia, l'immagine della sua casa oramai non più molto lontana. Ecco la grande cucina, ecco il focolare dove brillano le ultime brace, e, accanto al focolare, come sempre, la moglie buona e solerte. Sta intenta all'ago, la donna fida, e, di tanto in tanto, tende l'orecchio ai rumori che salgono dalla strada, per distinguer fra essi il cigolio di quattro ruote, lo scalpitio stanco dei due cavalli. Va e va il carro sulla strada bianca vegliata dalla duplice fila di pioppi alti e diritti come sentinelle. Ora la strada costeggia la palude (una palude che ora non esiste più, perché da tempo prosciugata). Dalle acque scure e limacciose si leva monotono il gracidio delle rane. D'un tratto i cavalli rallentano il passo: il carrettiere si scuote: Diamine che succede? Gli sembra d'aver udito una voce, un flebile richiamo. Ferma di colpo i cavalli e tende l'orecchio: forse s'è ingannato. S'ode solo il rauco coro delle rane e il fruscio leggero delle alte erbe del canneto; sorride fra sé il carrettiere e mormora: «scherzi del sonno, avrò sognato». Fa per risalire sul carro, ma ecco di nuovo, e questa volta ben distinta, la voce. Una voce dal tono dolce e supplichevole, un'invocazione: «Carrettiere, carrettiere, prendimi fuori, ti prego!..» Sgomento e perplesso il carrettiere lascia cadere le redini. Non s'è ingannato, dunque, qualcuno ha invocato il suo aiuto: chi? Il carrettiere, uomo generoso, non esita al richiamo, subito si dirige verso la palude da cui, gli è sembrato, venisse la voce. S'inoltra nel folto canneto, cerca fra l'erba, fruga nel fango. Provvido un sottile raggio di luna ora si fa strada fra l'intrico di foglie e di fusti e sembra guidare l'uomo nell'affannosa ricerca. Infatti, a breve distanza dai suoi piedi, qualcosa luccica nel fango. L'uomo si china e vede là, sommersa per metà nella melma, una statuetta. Con le mani tremanti per l'emozione egli la raccoglie, la ripulisce con cura pietosa; è una statuetta di pietra, alta circa sessanta centimetri, raffigurante la Madonna che tiene in braccio Gesù Bambino. Il pio carrettiere mira commosso la dolce Immagine, e non sente più né sonno, né stanchezza. E' felice, tanto felice, ed in silenzio ringrazia la Provvidenza di aver concesso a lui, proprio a lui, povero e rozzo carrettiere, la grazia del miracoloso rinvenimento. Che fare ora? Si domandava l'uomo tutto preoccupato di trovare un luogo sicuro, in cui collocare provvisoriamente la statuetta. Si guarda attorno: la strada, la palude, la capanna, nient'altro. Gli balena nella mente un'idea: costruirà lui, con le sue mani, un riparo per la dolce Madonnina. Ritorna sulla strada: cerca e raccoglie in un batter d'occhio sassi ed altro materiale utile e si mette al lavoro. Le mani alacri si muovono senza posa: qui, una pietra, là un'altra, sorge in breve un umile tabernacolo con la sua piccola e concava nicchia. Là, nella nicchia raccolta e sicura come un nido, il buon carrettiere pone la statuetta. Una preghiera, un simile saluto: il carrettiere risale sul suo carro e si allontana nella notte. Fin qui la leggenda. La cronaca ci narra che, in seguito, al posto del rozzo e primitivo tabernacolo costruito dal carrettiere, fu eretta alla Vergine una cappelletta.
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Il tiratore sacrilego
Bolzano (BZ)
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Di fronte a Rencio, a due passi dalla città tra una lussureggiante distesa di vigneti, si adagia la ridente silenziosa frazione di Campiglio. Vicino, l'Isarco, le cui acque fruscianti spandono intorno un monotono, ininterrotto ronzio, una misteriosa canzone che viene ripetuta instancabile, all'infinito. Racconta la leggenda che molti e molti anni or sono, era stata organizzata a Campiglio, in occasione di una tradizionale festa locale, una gara di tiro a segno; e da tutte le parti della provincia erano accorsi giovani desideriosi di dar prova della loro abilità. Era tra questi un certo Lorenzone, abilissimo tiratore, ma gradasso e presuntuoso. Costui, tronfio per le sue numerose vittorie passate, si era presentato a quella nuova gara con la prosopopea del dominatore. Aveva assistito con un risolino di ostentata indulgenza e superiorità alla prova di altri competitori, mentre in un folto crocchio andava vanitosamente esaltando le sue passate bravure. Poi era venuto il suo turno:«Ora vi mostrerò io - aveva gridato superbo - come si spara!». E tutti gli astanti avevan fatto silenzio per seguire attenti la prova del campione; un colpo, due tre… ma il bersaglio era rimasto inviolato. Sorrisi ironici, mormorii beffardi. Il tiratore sembrava aver perduta, allora, la sua spavalda sicurezza e, trangugiato, d'un fiato, per rianimarsi, un bicchiere di generoso vinello, aveva ritentata la prova: niente ancora! Le pallottole passavano sibillando accanto al bersaglio e andavano a schiacciarsi lassù, contro la roccia, sollevando piccole nuvolette di polvere grigia: sembravano stregate! Al suo sguardo, intatto, non erano sfuggiti i sorrisetti ironici e sprezzanti dei presenti; e la sua vanità, punta sul vivo, era d'un tratto esplosa in un impeto di furore. Si era guardato intorno in cerca di qualcosa su cui sfogare la sua incontenibile ira, aveva visto sulla sponda opposta dell'Isarco il vetusto crocifisso, che si scorge ancora là, accanto al «Maso Bietschenhof», all'inizio della strada che da Rencio porta al Renon e rivoltosi ai suoi schernitori, con un lampo sinistro negli occhi, aveva sdegnosamente gridato: «Bene, io mi scelgo un bersaglio al quale nessuno di voi, o codardi, oserebbe tirare. Se fallissi il segno, colpirei pur sempre il Signore!». Poi d'un tratto aveva puntato il fucile e prima ancora che gli astanti sbigottiti avessero potuto impedirgli l'atto inconsulto e sacrilego, aveva fatto fuoco contro quel crocifisso. Era seguito un sibilo, un grido, e si era visto il giovane abbattersi al suolo, fulminato, mentre il cielo andava oscurandosi con densi nuvoloni cupi e minacciosi. La pallottola aveva colpito il piede sinistro di Gesù, ma era rimbalzata conficcandosi diritta nel cuore del tiratore. Su questo crocifisso tu puoi vedere ancora il segno del colpo, che i secoli non potranno cancellare, e spesso in questo luogo tragico puoi udire, confuso con il sibilo del vento, un colpo secco di fucile: è l'anima vagante del sacrilego tiratore. Questo dice la canzone, che l'Isarco continua a ripetere instancabile all'infinito ad un mondo sordo che non lo comprende. Ascoltala, viandante, e tu pure, forse, potrai un giorno intenderla.
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Il Guardiano dell'Inferno
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Il Guardiano dell'Inferno
Bolzano (BZ)
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C'era mercato a Bolzano, quel giorno. L'osteria «All'Ospedale» era affollata di contadini scesi in città fin dalle prime ore del mattino. Solo, seduto ad un tavolo un po’ appartato, stava un giovane dal viso pensieroso. Ma ciò che colpiva maggiormente in lui era la chioma; una chioma bianca, che contrastava stranamente con la freschezza del viso ancor quasi imberbe. Egli girava lentamente lo sguardo sui presenti, ma i suoi occhi erano tristi come se in essi si fosse spenta la luminosa giocondità della giovinezza. I contadini sedevano ai tavoli, parlavano a voce alta, ridevano rumorosamente, scherzavano. Passavano le bottiglie, si riempivano i bicchieri del rosso e frizzante vino delle colline bolzanesi e, tra un bicchiere e l'altro, si combinavano affari, si intrecciavano amicizie. Il solitario giovane sembrava non interessarsi a quanto avveniva intorno a lui; stava assorto nei suoi pensieri che, certo, non dovevano essere né sereni, né leggeri, se il suo viso manteneva sempre quell'espressione desolatamente triste ed accorata. Non rimase a lungo solo, che un vecchio contadino dal viso bonario venne a sederglisi accanto, offrendogli da bere.«Bevi - disse il vecchio - il vino è buono e dà allegria», e così dicendo, sollevò alto il bicchiere. Il ghiaccio era rotto. In breve il contadino seppe conquistarsi la fiducia del giovane e, senza dar a vedere troppa curiosità, gli chiese il perché di quei capelli precocemente bianchi. Il giovane parve esitare prima di rispondere, poi sommessamente prese a narrare. «Mi chiamo Jörgl - cominciò il ragazzo - nacqui in una casa poverissima; molte le bocche da sfamare, scarso il pane, scarsissimo il companatico. «A nove anni fui messo a servizio in casa di un ricco contadino: piansi molto nello staccarmi dalla mamma, dal babbo, dai miei fratellini. Là, nella casa straniera, mi sentivo tanto solo. La notte, nel mio letto, invocavo la mamma, soffocando i singhiozzi fra le lenzuola e solo a tarda ora riuscivo a prendere sonno, con gli occhi ancor bagnati di lacrime. «Dovevo lavorare dall'alba al tramonto, nella stalla, nei campi, nel fienile. Un giorno - era ottobre - fui mandato nel bosco ad aiutare i servi a raccogliere lo strame. Con la mia gerla in ispalla, fischiettando, m'addentrai fra i pini e gli abeti; il sole giocava fra le verdi chiome disegnando arabeschi d'oro sul muschio verde che tappezzava il terreno. «Quello era il regno delle cince, dei merli, dei fringuelli. Mi fermai, come sempre, ad ascoltare i loro richiami festosi, i loro gorgheggi canori, divertendomi ad imitare le loro voci, i loro trilli. «D'un tratto gli uccelli cessarono il loro canto e il bosco si fece improvvisamente muto. Che stava per accadere? Feci per riprendere il cammino, quando mi si parò davanti un uomo. Alto, nero di capelli e di occhi, aveva nell'aspetto qualcosa di strano e di misterioso. «Impaurito cercai di fuggire, ma egli mi trattenne rassicurandomi che non mi avrebbe fatto alcun male. Benevolmente dimostrò di interessarsi di me, della mia famiglia, ed infine mi chiese d'entrare al suo servizio per sette anni. «Di che cosa potevo sospettare, io, povero fanciullino? Accettai subito e chiesi al signore il permesso di recarmi a salutare i miei cari, ma egli non acconsentì. «Con un oscuro presentimento in cuore, seguii il nuovo padrone. Egli mi condusse con sé per le innumeri vie del mondo; vidi paesi, città meravigliose, udii parlare le più strane lingue, conobbi genti dai più strani costumi. «Dopo lungo peregrinare, giungemmo in una valle remota, chiusa fra rocce impervie, strapiombanti in orrendi e profondi burroni. Non un segno di vita in quello squallore. «"Siamo arrivati" - disse l'uomo misterioso - e nei suoi occhi perpetuamente tetri e corrucciati, passò un sinistro balenìo. "Siamo arrivati". Mi guardai attorno disperato, oppresso da quel desolato silenzio di morte. «"Hai paura?" mi chiese, beffardo, l'uomo. Non risposi; avrei voluto fuggire, fuggire lontano, gettarmi fra le braccia protettrici della mamma. Oh, ella avrebbe saputo difendermi! E invece ero solo. Il misterioso signore continuava a guardarmi con quei suoi occhi tetri e duri. Ora capivo chi era costui, ma troppo tardi. «Qui egli aveva stabilito la sua triste dimora. Con fare imperioso, m'additò un enorme portone nero dentro la roccia. "Vedi - mi disse - quella è la porta dell'inferno. Giorno e notte - egli continuò - tu dovrai vegliare a quella porta; tu dovrai aprirla a coloro che si presenteranno e chiuderla non appena saranno entrati. Ricordati che da quel portone nessuno, mai, dovrà uscire! Nessuno. Per il tuo servizio avrai a sazietà vino e carne, ma non un goccio d'acqua. Dovrai rimanere qui sette anni, poi potrai tornare al mondo dei vivi. Nella dimora dei morti solo il portinaio dev'essere vivo". Così disse e scomparve. «Più morto che vivo, cominciai il duro servizio. A schiere giungevano i dannati: erano uomini, erano donne, giovani e, si, anche qualche ragazzo… Sostavano un attimo sulla soglia dell'orribile portone, poi, quasi trascinati da una forza misteriosa, scomparivano nella tetra prigione.«Urla, pianti, accenti d'ira echeggiavano fra le lugubri pareti della dimora infernale. Orrore! Giorno e notte, senza soste, la schiera delle anime perdute si rinnovava, come si rinnova di continuo l'onda del fiume. «Riconobbi fra queste qualche mio amico, che avevo lasciato lassù fanciullo. Come avrei voluto salvarlo, strapparlo da quel luogo maledetto! Ma nulla potevo, nulla.«Alla vista di tanto orrore, i miei capelli mutarono colore: erano biondi, divennero canuti come quelli d'un vecchio. «Finalmente i sette lunghi anni passarono: l'uomo misterioso riapparve. Fui libero. Tornai nel mondo, rividi il sole, i fiori, il cielo, riudii voci di gioia, canti sereni. Credevo di sognare. Tutto era così bello! Corsi, volai alla mia casa, ritrovai il babbo, la mamma, i fratelli già cresciuti. Tutto era, dunque, come una volta? Avrei dovuto essere felice, vero? Ma non lo ero, non riuscii ad esserlo neppure più tardi. Il mio cuore è malato di tristezza, oppresso dal peso di tante pene viste e sofferte, di tante amarezze, di tante lacrime. «La vita allegra, spensierata, non è più per me - mormorò mestamente il giovane -. Sempre mi opprime il ricordo del mio doloroso passato: quella valle di pianto, quell'orribile porta, quelle schiere di anime disperate…» La sala fumosa risuonava di voci, di risate alte, rumorose. «Tutti sono allegri qui, - disse Jörgl alzandosi - solo io …», e, salutato il buon vecchietto, uscì dall'osteria
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Impronte e manifestazioni meravigliose
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Impronte e manifestazioni meravigliose
Luson e Onies (BZ)
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Poche, semplici casette, in parte sgretolate e annerite dalla patina del tempo, strette attorno ad una grande, vetusta chiesa dominante su tutta la vallata: Luson. Una vallata stretta, scura, solcata da un torrente brontolone e non di rado prepotente: il Lasanca. Tutto intorno, un incastro solenne, maestoso, di cime uniformi, innalzate su masse gigantesche, d'un colore verde cupo. E là, verso l'estremità superiore della valle, due massicce punte, riflettenti gli ultimi raggi del sole morente, si stagliano nel cielo: è il Putia. Più avanti, lungo la valle, Pezzè: quattro, cinque sparse casupole costruite metà in pietra e metà in legno, cupe come il paesaggio che lo circonda. A sinistra, un sentiero inabissantesi entro un'angusta gola, che sale lentamente su, verso la luce. Malga Pratella, Malga Campaccio, due, tre ore di lento, faticoso cammino; poi la gola si allarga, si illumina; e allo sguardo estatico appaiono aspetti indescrivibili di una natura che sembra la sorprendente creazione della più sfrenata fantasia: Passo di San Giacomo, a cavaliere del «Vallo delle Gane». Una corona ispida di catene forma tutto intorno un ampio, poderoso cerchio. A destra, il Putia appare in tutta la sua colossale grandezza, a sinistra, l'Alpe di Luson con le tondeggianti Cime Campiglio e Lasta. Al di sotto, l'abitato di Onies. Su questo passo una rustica cappella, con una statuetta in legno, rappresenta San Giacomo. Molti anni fa, dove ora sorge la cappella, si ergeva un grande abete solitario, mèta di pellegrinaggio dei devoti di tutti i paesi circostanti, che solevano appendere ai suoi rami, in segno di riconoscenza per qualche grazia ricevuta, figurine di cera rappresentanti cavalli, buoi, capre, gamberi, rospi, mani, piedi, come si ammira in certi santuari. Sul secolare tronco, dalla parte che guarda verso Onies, era stata scavata una nicchia, e nella nicchia era stata collocata dalla devozione dei fedeli quella stessa statuetta di San Giacomo, che ora si trova nella piccola cappella. Presso l'abete vi era, e c'è tutt'ora una grande pietra piatta, che mostra le nitide impronte di una testa e di due mani, che nemmeno l'azione demolitrice del tempo è riuscita a scancellare. L'ebreo errante, passando di là, assicurò essere quelle veramente le impronte dell'apostolo San Giacomo, da lui conosciuto.
Esiste però un'altra leggenda, che fornisce una diversa interpretazione del fatto straordinario. Sembra, infatti, che in quei tempi lontani, un certo Giacomo da Rodengo, povero derelitto senza dimora, fosse solito rammingare fra i monti di Rodengo e Monghezzo, vivendo della carità dei contadini. Correvano intorno a lui strane e misteriose voci. Un brutto giorno, due contadini di Luson, che dovevano recarsi a Onies attraverso il Passo di San Giacomo, rinvennero, semisepolto dalla neve, un corpo umano assiderato, che appoggiava la testa e le mani sopra il sasso, accanto all'abete. Era Giacomo da Rodengo. Lo sollevarono premurosamente e con loro somma meraviglia, si avvidero che sul sasso erano rimaste le impronte del capo e delle mani. La notizia dell'avvenimento miracoloso si sparse in un baleno, e da quel giorno il luogo divenne mèta di pellegrinaggio dei fedeli di Luson, Rodengo, San Lorenzo di Sebàto, Elle, Mantana, Onies e delle valli vicine. L'abete ne fu l'umile santuario, finchè, disseccandosi, non fu più in grado di accogliere sui suoi rami gli ex-voto dei fedeli. Quando venne abbattuto, in quello stesso luogo una cappelletta fu fatta erigere, nel 1844, dal contadino Giuseppe Elzenbaumer da Onies. Ed ora, al cospetto di uno stupendo scenario, davanti al quale la lingua ammutolisce nell'impossibilità di esprimere il disordinato tumulto del cuore, circondato da un sacro silenzio, vigila San Giacomo nel suo rustico santuario, a conforto dei fedeli che accorrono a lui con fiducia
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Il ladro Sacrilego
San Paolo - Appiano (BZ)
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Un giorno un viandante giunse a San Paolo di Appiano. L'uomo vestiva poveramente e portava un sacco in ispalla. Sostò sulla piazzetta davanti alla chiesa, che già l'aria imbruniva. D'intorno le voci, i rumori andavano lentamente smorzandosi; la sera riconduceva l'uomo e l'animale all'abituale, fida dimora. Ma il viandante non aveva casa e triste scendeva la sera per lui. Si sedette sui gradini della chiesa; più tardi avrebbe cercato un giaciglio per la notte. Aveva camminato tanto quel giorno, che i piedi gli dolevano, la gola gli bruciava per la polvere e la sete. Che giornataccia! Si alzò; la porta della chiesa non era ancora aperta, entrò. L'ombra della sera si stendeva, impalpabile, sulle cose, si annidava più scura negli angoli, velava lieve i volti dei Santi e gli aerei voli degli angioletti, che sorridevano dalle pitture. Alcuni ceri ardevano sull'altare dell'Addolorata, accendendo di preziosi riflessi gli ori che adornavano la venerata Immagine. Il viandante affissò gli occhi a quel luccichio; il suo sguardo si fece avido, cattivo. Lo spirito del male tendeva attorno all'uomo la sua diabolica rete e una voce sempre più insistente lo tentava: «Quanto oro! E' tuo… se lo vuoi. Prendilo e fuggi, sarai ricco!». Lo sciagurato non seppe resistere. Si appestò all'altare, strappò quelle gioie che, un giorno, mani pie e devote avevano offerto alla Vergine con umile atto di umore e di gratitudine per una grazia implorata ed ottenuta. Protetto dall'ombra incombente della sera, il ladro sacrilego fuggì con il bottino. Ma appena oltrepassate le ultime case del paese, le gambe non gli ubbidirono più, gli si fecero pesanti, rifiutandosi di portarlo oltre. Rimase così, come pietrificato, in mezzo alla strada. Fu preso allora da un'angoscia indicibile; si sentì solo, tremendamente solo con il suo peccato. Il rimorso gli attanagliava l'anima, insistente, esasperante. Pianse. Lente scorrevano le ore della notte. Nel cielo si accendevano e si spegnevano miriadi di stelle. Poi, verso oriente, il cielo si fece più chiaro; s'annunciava l'alba. Un carro apparve in fondo alla strada. Così, tra il lusco e il brusco, il carrettiere vide profilarsi la sagoma scura e immobile dell'uomo. Arrivato a pochi passi, gli diede una voce: «Ehi, che fai costì in mezzo alla strada? Non vedi che ingombri il passaggio? Scostati!» L'uomo non si mosse, ne aprì bocca. «Al diavolo - esclamò il carrettiere, buon uomo, ma di modi spicci - voglio vedere che succede qui». Con un salto scese dal carro, gli si avvicinò, gli girò attorno, lo tastò, lo scosse: Caspiterina! Non era né una statua, né un fantasma, ma un uomo in carne ed ossa! «Compare - lo apostrofò ridendo, il carrettiere - quando ti decidi a metter fine a codesto tuo scherzo?». Allora il ladro si decise a parlare e, con l'affanno alla gola, gli narrò la sua triste avventura. «Ed ora non ci sarà più una via di salvezza per me» mormorò il ladro e c'era nelle sue parole un tale accento di pena e di disperazione da muovere pietà. Il carrettiere ascoltò in silenzio la confessione del colpevole poi, per confortarlo, gli disse: «Non disperare, chiedi ancora perdono a Dio del tuo peccato e prometti con cuore sincero di restituire tutto il maltolto. Addio». Raccolse le redini e si allontanò. L'uomo rimase di nuovo solo con se stesso e l'anima iniziò il muto colloquio con Dio. D'un tratto, come per incanto si sentì sciolto dalle invisibili catene: era libero, libero! Corse, non corse, volò alla chiesa. Entrò. Nessuno. Con passo rapido, l'uomo si appressò all'altare della Vergine: sostò, frugò nel sacco e, con mano tremante, depose ai piedi della sacra Immagine tutto l'oro rubato. Fu come se si fosse levato un peso dal cuore. Inginocchiato, a capo chino, lo colsero i primi rintocchi dell'Ave Maria. L'uomo raccolse il sacco ormai vuoto, il bastone ed uscì sereno incontro al nuovo giorno. Che sia realmente avvenuto il fatto narrato dalla leggenda? Sembra che si, tant'è vero che, a ricordo dell'accaduto, gli abitanti di San Paolo eressero, sul posto stesso, una minusissima cappellina
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Il Diavolo Affila le Falci
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Il Diavolo Affila le Falci
Trens - Valle d'Isarco (BZ)
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Nell'ampia e solatia Valle dell'Isarco, a pochi chilometri da Vipiteno, sul pendio esposto alla benefica carezza del sole, sonnecchia il paesello di Trens, con le sue modeste casucce, sgretolate e incolori. Sullo sfondo, spicca contro il cielo, maestoso, il «Monte delle Streghe», simile a un gigante accovacciato, immerso nel sonno. All'estremità superiore del paesello, in posizione dominante, vigile come un pastore in mezzo al suo gregge, si erge la chiesetta col caratteristico campanile aguzzo; e, accanto al tempio, l'umile casetta di un contadino. Proprio quel povero abituro, tanti e tanti anni or sono, fu tacito spettatore del fatto più strano che si sia mai udito. Il contadino che vi dimorava, spirito audace e intraprendente, seppe ridurre il diavolo a suo obbediente servitore. Alla mezzanotte di ogni natale, Lucifero si posava con frastuono assordante sul tetto di quella casupola e rimaneva per qualche minuto sdraiato, accanto al comignolo, rimuginando forse, nella sua mente infernale, qualche nuovo malanno contro la tranquilla popolazione immersa nel sonno. Se ne avvide l'astuto contadino e studiò un suo piano. La vigilia di Natale dell'anno successivo, egli ammucchiò tutte le sue falci e i suoi falcetti sul tetto della casa, vi aggiunse tutte le falci del vicinato, e poco prima della mezzanotte, dopo essersi camuffato da perfetto diavolo, con due enormi corna piantate sulla fronte, si issò sino al camino; e, presa in mano una falce, attese. Allo scoccare della mezzanotte, mentre i rintocchi delle campane annunciavano che era nato il Salvatore, ecco d'improvviso apparire Lucifero, con lo sguardo torvo e minaccioso, sprizzante fiamme paurose dagli occhi iniettati di sangue. Imperturbabile, l'audace contadino, senza proferire parola, gli porse con gesto imperioso la falce che teneva in mano. Quindi ridiscese tranquillamente dal tetto, svestì gli indumenti diabolici e si recò alla chiesetta, per assistere alla Messa di mezzanotte. Intanto il diavolo, appoggiandosi al comignolo, con rapidità incredibile cominciò ad affilare le falci e i falcetti; ed era tanto l'ardore di compiere l'opera, che tutto intorno era uno sprizzante di scintille, mentre sulla fronte dell'artefice infernale scorrevano rivoli di sudore. Ultimato il lavoro, il diavolo prese le sembianze di un drago spaventoso, ed emettendo urli raccapriccianti, spiccò il volo verso il «Monte delle Streghe», lasciandosi dietro una scia rossastra. Persino gli abeti, come terrorizzati, curvarono le cime verso il suolo, sotto il soffio poderoso prodotto dalle gigantesche ali del drago. Il prodigio si ripetè l'anno seguente, e per molti anni ancora, sino a quando il geniale e audace contadino non fu chiamato, dal Signore, alla vita eterna. La sua morte avrebbe purtroppo privato gli abitanti di Trens di un arrotino impareggiabile! Invano un altro contadino, facendosi animo, volle ritentare l'inganno: ma gli invocarono l'audacia e l'intraprendenza di colui che lo aveva preceduto, e la prova gli fu fatale. Egli ammassò opportunamente falci e falcetti sul tetto, e poco prima di mezzanotte vi salì, con esitazione. E quando Lucifero, puntualmente, riapparve minaccioso come sempre, fu tanto il terrore che invase il malcapitato contadino, che dalla mano tremante gli sfuggì la falce, che avrebbe dovuto porgere imperiosamente al diavolo. Scoperto così l'imbroglio, Lucifero, al colmo dell'ira, scagliò un calcio tremendo al mucchio delle falci, che volarono lontano con fragore: poi, afferrato per il collo il disgraziato contadino, impietrito dallo spavento, scomparve per sempre con l'infelice, nelle tenebre della notte. Da quel giorno, i contadini di Trens affilano con le proprie mani falci e falcetti, e assistono con devozione al rito della notte di Natale
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La campana di Santorsola
Val di Giovo - Racines (BZ)
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Quando la Primavera giunse nella remota Val di Giovo, la neve ricopriva ancora il piano e il monte. Morta sembrava la valle, sotto quella coltre gelida e bianca. Non una voce intorno; solo di quando in quando, il rombo cupo della valanga rompeva il vasto silenzio. Rabbrividì Fata Primavera al soffio tagliente del rovaio che scendeva dai monti e fu per tornare indietro. Ma, d'improvviso, da uno squarcio fra le nubi rise il sole col suo raggiante e tonto faccione. «Rimani - sembrava dire, incoraggiante il sole - rimani, benefica Fata ed io t'aiuterò». Infatti, ai suoi tepidi raggi, la neve a poco a poco si sciolse ed apparve, bruna ed umida, la terra. «Finalmente!» esclamò la Primavera ed impaziente si diede a correre il piano e il monte. Coprì di verde tenero i prati, donò, a manciate, gemme e boccioli agli alberi e alle siepi, rivestì le rocce d'erica purpurea. La valle si faceva di giorno in giorno più verde, più bella. Gli uomini guardavano con occhi fiduciosi e ridenti la loro terra: era tempo di far uscire il gregge al pascolo, di dar mano alla vanga, alla zappa. Si aprirono le stalle e gli ovili, uscirono le pecore con i belanti agnellini e subito si sparsero su per i pendii a brucare i teneri germogli. Nei campi il grano, che durante il lungo inverno aveva dormito sotto la neve, accestiva. Ma un giorno il cielo si fece plumbeo, fosco e cominciò a piovere. Piovve a dirotto per giorni e notti intere; scomparso il sole, tutto divenne grigio sotto la pioggia fredda e greve. Rigagnoli d'acqua torbida, motosa, scorrevano lungo i pendii, si raccoglievano a valle ad ingrossare il torrente. Il Rio di Giovo rumoreggiava sinistramente, rimbombando tra i massi in onde schiumose, in vortici paurosi. Poi l'onda rovinosa ruppe gli argini, si riversò sulle campagne travolgendo tutto ciò che incontrava sul suo cammino. E la pioggia non cessava. Dalle soglie delle case disseminate lungo la costa i contadini scrutavano il cielo, sperando in un raggio di sole. Ma l'acqua come per cattivo sortilegio, cresceva, cresceva ed in breve raggiunse il pendio, scacciando i miseri dalle loro case. Bisognava fuggire, mettersi in salvo finchè c'era ancora tempo; ma dove? Da un'altura a ridosso del monte, una chiesetta tutta bianca, nello spento grigiore del cielo, sembrava invitare gli infelici a cercare lassù un asilo più sicuro. In lunga e lenta fila, i profughi salirono fino all'ospitale rifugio; davanti gli uomini curvi sotto il peso delle masserizie strappate con tanta fatica alla rapacità dell'acqua, dietro le donne con i bimbi più piccoli in collo e i più grandicelli per mano, in silenzio, senza speranza, con il cuore gonfio di pianto e d'angoscia. E la chiesetta accolse quella gente sventurata. Dall'alto dell'aguzzo campanile la piccola campana, la Sant'Orsola continuava a far sentire intorno la sua voce. Piangeva la piccola campana, implorava, invocava pietà e i lenti rintocchi scendevano fin giù nella valle, smorzandosi nella nebbia che stagnava pesante sulla terra sommersa. Come sembravano lontani, ora, i bei giorni di festa! La campana riempiva dei suoi squilli giocondi il monte e la valle. Dalle case, la gente sciamava allegra e saliva alla chiesuola, ed era tutto un garrire di rondini attorno al campanile, mentre sul piccolo sagrato i bimbi giocavano, garruli, al sole. Ma il ricordo del tempo felice rendeva ai miseri più dolorosa, più disperata la loro avventura. E il cielo era sempre nero, nemico, e non smetteva di piovere. Gli uomini guardavano con gli occhi persi l'acqua che continuava a salire e già minacciava anche la chiesetta. Non c'era salvezza, dunque, neppure lassù? Tristemente, i profughi, si rimisero in spalla le loro poche cose e s'incamminarono verso il monte. Soltanto il vecchio campanaro rimase. Come poteva, lui, così vecchio e solo, lasciare l'unica cosa sua, la più cara al suo cuore, la piccola campana? Al mattino, a mezzogiorno, a sera, il vecchietto si rifugiava nel campanile, afferrava con tutte le sue povere forze la fune e tirava, din, don, dan, din, don, dan… La campana rispondeva, riempiva con la sua voce quel lugubre silenzio di morte. Ma lentamente, sotto lo sguardo impietrito del poveretto, l'acqua giunse a lambire il sagrato. Bisognava fuggire finchè s'era in tempo, fuggire subito! Curvo, appoggiato al suo bastone, il vecchio campanaro lasciò la chiesetta, ma prima di allontanarsi, sollevò gli occhi verso il campanile: «Addio, Sant'Orsola - disse con voce di pianto - addio! D'ora in poi non potrò più esserti d'aiuto e dovrai suonare da sola! Addio!». E con passo stanco, più vecchio, più curvo che mai, s'allontanò per il sentiero che portava verso l'alto del monte. Camminava già da un bel po’, quando gli sembrò di udire nell'aria, smorzati e fievoli, i rintocchi di una campana. Credette di sognare e sostò in ascolto. Un rintocco, tanti rintocchi sempre più distinti e sonori:«Mio Dio, ma questa è la Sant'Orsola!» esclamò stupito il buon campanaro e stette ad ascoltare come rapito in un'estasi beata. Din, don, dan, din, don, dan… «E' la sua voce, questa, la sua voce!». E il vecchio rideva e piangeva di gioia come un fanciullo. Continuò a suonare la fedele Sant'Orsola per molti giorni ancora e tanto suonò, che la pioggia a poco, a poco smise di cadere ed apparve il sole. Splendido come un Dio, vinse la tetra nuvolaglia, sfolgorò radioso sulla valle. L'acqua nera, limacciosa cominciò a scendere, la nebbia si sfaldò in veli leggeri che il vento disperse lontano. La terra era avida di sole: sole, sole, sole chiedevano gli uomini, gli animali, le piante. Col sole la terra lentamente risorse a nuova vita. Gli uomini ricostruirono pazientemente le loro dimore, ripresero a lavorare i campi con rinnovato amore. I solchi accolsero le sementi, campi e prati fiorirono. Gli alberi, come ad un invito misterioso, si coprirono di gemme, le gemme si tramutarono in foglie e fiori, i fiori divennero frutti. Una nuova vita risorgeva nella remota Val di Giovo e nella memoria degli uomini svanì a poco a poco anche il ricordo della lontana e terribile sciagura. Ma lassù, nell'alta valle, la montagna rimase spoglia e nuda, né un ciuffo d'erba né un crespo d'erica ravviveranno mai più la morta roccia
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Il Lago di Luco
Val d'Ultimo (BZ)
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Estate. L'alpe di luco è tutta di smeraldo. Fra il verde della prateria occhieggia limpido, chiaro, il piccolo lago che dall'Alpe prende il nome: il lago di Luco. Il mattino è sereno; il giorno promette bene. Già le mandrie sono uscite al pascolo: s'ode di lontano il suono festoso dei campanacci. Ecco leo, il mandriano. E' un ragazzotto robusto, ben piantato, dall'atteggiamento fiero, un po’ spavaldo. Viene avanti schioccando la lunga frusta, è allegro. L'eco coglie a volo gli schiocchi alti e sonori e glieli rimanda ad uno ad uno, senza sbagliare; il gioco è divertente. Leo guida la mandria nelle vicinanze del lago, dove il pascolo è grasso ed abbondante. Calme, le mucche si spargono qua e là e affrontano avide il muso nell'erba sapida e rorida di rugiada. I vitellini vivaci si sbizzarriscono in buffe piroette attorno alle madri poi, ghiotti, si mettono a brucare. Seduto sull'erba, Leo sorveglia il bestiame, richiama qualche animale che sta per allontanarsi troppo dal branco e comincia a fantasticare. Come d'incanto la sua solitudine si popola di personaggi cari alla sua fantasia: sono maghi potenti, fate benefiche, vispi nanetti, folletti capricciosi. E' tutto un mondo, il mondo delle fiabe, delle leggende, che egli, fin da piccolo, ha udito narrare dalla nonna e dal nonno, nelle lunghe veglie invernali. Si avvicina al lago. Com'è calmo e limpido! Nelle sue acque si specchiano alcune lievi e bianche nuvolette. Una libellula verdazzurra si libra a volo sulla tersa superficie, la sfiora, intreccia agili voli, plana, scatta verso l'alto, scompare. Una rana affiora fra l'erbe della riva. Si tuffa, zaff… plaff… un gorgo, è sparita. Leo guarda quelle acque placide e mute. Chi gli ha mai detto che in fondo al lago vivono delle orribili streghe, dannate ad un'eterna prigionia? Guai a turbare quelle acque! Tremenda, inesorabile si scatena la vendetta delle prigioniere. Leo scruta affascinato il lago.«Fole, fole», dice come parlando tra sé e scoppia in una risata alta e squillante. La voce rimbalza lontana sulle rocce, si spegne. Di nuovo è silenzio nella prateria. Il mandriano, come preso da un sottile incantesimo, torna a fissare le acque; ombre scure passano sul suo viso. Ma perché non tentare di sciogliere finalmente il mistero? Se incantesimo c'è, si vedrà. E' una sfida? Forse. Deciso, il giovane leva di tasca la coroncina del rosario e la getta nel lago. Crede, l'incauto, di scoprire, così, se nel lago ci siano veramente le streghe! Imprudente! Ora lo saprai. Enormi nuvoloni neri avanzano dai quattro punti dell'orizzonte, si ammassano rapidamente, si accavallano, oscurano il sole, coprono l'azzurro. D'improvviso si fa notte. Bagliori di fuoco rompono di tratto in tratto le tenebre seguite da tuoni che riempiono l'aria di schianti e di fragore. Ulula il vento e spazza la prateria. Senza più freni si scatenano le forze immani della natura, sconvolgendo nella loro furia il sereno mondo dell'alpe. Impazzisce di terrore l'armento; l'aria rintrona di muggiti, mentre il saettante bagliore dei lampi illumina per un attimo una massa biancheggiante di groppe in fuga. Solo, indifeso, il mandriano è in balia della bufera. Vorrebbe urlare ma il terrore gli strozza l'urlo in gola, vorrebbe fuggire, ma il terrore lo inchioda al suolo. E' solo, il disgraziato, solo, disperatamente solo. Gli sembra di affogare, di sprofondare sempre più in quell'abisso di tenebre che sommergono cielo e terra. Si copre gli occhi con le mani. Quanto durerà? Un lampo, uno schianto. Come morto si abbatte sull'erba, il poveretto. Per ore ed ore imperversò la bufera e finalmente tornò il sereno. Quando il ragazzo rinvenne, vide attorno a sé uno spettacolo miserando: morto il bestiame, devastato il pascolo. Livide le montagne sembravano guardare lontano tanta desolazione e tanta rovina. Inebettito, Leo girovagò a lungo per l'alpe, senza darsi pace. Ora conosceva il mistero del lago. L'avrebbe rivelato al suo padrone?
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Le Genti Misteriose
Val Pusteria (BZ)
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Un tempo assai lontano, sui monti di Onies, che cupi e selvosi s'innalsano verso il «Vallo delle Gane», viveva una stirpe di uomini misteriosi. Chi fossero, donde venissero, non è scritto neppure nei libri più antichi e, invano, cercherebbe il curioso che volesse saperlo. Abitavano, costoro, in tetre caverne rocciose, in luoghi solitari, sdegnosi d'incontrarsi con altri uomini. Gente selvatica era quella. Alti e robusti come querce erano gli uomini, e adusi a tutte le intemperie. Con ogni tempo, in ogni stagione, uscivano a caccia per boschi e foreste: del bosco, della foresta, essi conoscevano tutti gli agguati e non temevano né il lupo, né l'orso, ch'essi affrontavano armati d'ascia, d'arco e di frecce. Le donne erano timide e silenziose; custodivano il fuoco, arrostivano la cacciagione, crescevano con grande amore i figli come fanno tutte le mamme del mondo. Ma non sempre quegli uomini solitari, duri, scontrosi, erano sordi alla voce degli altri uomini, dei fratelli che abitavano nei casolari sparsi sui declivi e nella valle. Nel bisogno, nella necessità accorrevano, si prodigavano con generosità e premura. Ma guai se qualche malintenzionato avesse osato recar loro offesa: la loro vendetta era certa e crudele. Non di rado le fanciulle di quella strana stirpe lasciavano le loro fredde caverne per mettersi a servizio in qualche famiglia di contadini. Che cosa le attirava al piano? Forse il calore di una casa - una vera casa - ospitale ed accogliente, o i modi umani, cordiali della gente? Forse l'uno e l'altro, e le famiglie di Onies accoglievano volentieri le timide fanciulle che venivano dal «Vallo delle Gane». Esse, infatti, solerti e laboriose, accudivano con ogni diligenza ai lavori in casa, nei campi, nella stalla. Ma pur vivendo tra gente amica, esse si mantenevano schive, né gradivano d'essere interrogate su cose o fatti riguardanti la loro vita, la loro famiglia. Strane creature! Come un triste retaggio, esse portavano con sé, nei modi e nell'anima, quella scontrosità, quella selvatichezza, che neppure la vita serena e la familiarità, con gente buona e di cuore, riusciva a vincere. Così infatti erano gli abitanti delle caverne, perpetuamente corrucciati, dannati ad una vita squallida, arida, senza gioia. E, poiché non conoscevano la gioia, odiavano tutto ciò che di bello, di buono possedevano gli altri uomini. E odiavano, i disgraziati, perfino la voce delle campane, l'armonia dell'onda sonora che unisce la terra al Cielo, l'uomo a Dio. E tale era il loro astio che, in ischerno, chiamavano bubboli da capre le piccole campane dalla voce argentina. Ma ciò non bastava, chè i sacrileghi davano spesso l'assalto ai campanili, rubavano le campane per poi sotterrarle in luoghi nascosti ed inaccessibili. Tempi oscuri erano quelli. Lentamente, faticosamente la parola di Cristo penetrava nelle nostre valli. Ma già i primi cristiani di Onies avevano costruito la loro chiesetta e dall'alto del bianco ed esile campanile una piccola bronzea campana spandeva intorno i suoi squilli chiamando i fedeli alla preghiera. L'udirono gli uomini misteriosi e ne provarono rabbia e dispetto. Di notte, quei tristi scesero dal monte e rapirono l'innocente campana andando a seppellirla su, su, ai piedi di uno scosceso dirupo, sotto un pesante cumulo di pietre. Troppo tardi se ne accorsero i Cristiani! La cercarono disperatamente al piano, al monte, invano; della campana nessuna traccia, nessun segno. Per molti, molti secoli, la piccola campana rimase lassù, muta e prigioniera del buio. Ma sta scritto che una campana benedetta non rimarrà per sempre prigioniera; presto o tardi verrà qualcuno a liberarla, o riportarla alla sua chiesa, al suo campanile. Un giorno, dunque, un pastorello (i misteriosi abitanti del «Vallo delle Gane» erano ormai scomparsi) salì con il gregge ai pascoli alti. Come il solito, lasciò che le pecore si mettessero a brucare, e si spinse su per un costone in cerca di pigne di mugo. Lassù i mughi erano folti e le pigne, coi dolci pinori, vi si dovevano trovare in abbondanza. E su, e su, d'un tratto il ragazzo sollevando gli occhi, vide qualcosa brillare ai piedi delle crode rocciose, dove un tempo avevano abitato le genti misteriose. Che poteva essere? «Forse un tesoro» si dice l'ignaro pastorello ed incuriosito, in men che non si dica, raggiunse il luogo da cui aveva visto venire il luccichio. Ma non c'erano che pietre, lassù, pietre bianche, grige, taglienti, levigate dalla pioggia e dalla neve. Per nulla scoraggiato, si dette a rovistare, a scavare fra il pietrame, con le mani, con le unghie, affannosamente, senza darsi respiro. Il tesoro - poiché, secondo il ragazzo, non poteva trattarsi che di tesoro - doveva essere nascosto là sotto. E scava e scava (erano tutte un taglio quelle povere mani!) finalmente apparve il tesoro. E che tesoro! Era la campana di Onies, la campana rapita. Com'era bella, così lucida e tersa! Il sole vi si specchiava in un'aureola di barbagli d'oro. E ancora intatta, era, senza una scalfitura, senza un'incrinatura, con il suo piccolo, tondo battaglio di bronzo, pronto a rimbalzare entro la concava cupola sonora. Che prodigio, dopo tanti e tanti anni! Troppo felice, il pastorello dimenticò in quel momento le sue pecorelle e corse, non corse, volò per balze e sentieri, fino in paese a portare la notizia del fortunato rinvenimento. Chi sa dire il giubilo dei Cristiani di Onies? In processione riportarono in paese la campana ed essa riprese il suo posto, là sull'esile campanile, che da troppo tempo, ormai, attendeva orfano e solo. Ancora oggi, la fida campana, librata lassù nell'azzurro, chiama i fedeli, canta nella gioia, implora nel dolore. Sull'onda viva dei suoi rintocchi, le preghiere degli uomini raggiungono sicure le vie del Cielo
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La Madonna di Senales
Val Senales (BZ)
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Chiusa fra monti, questa nostra terra atesina, sempre c'incanta con la bellezza dei suoi paesaggi e ci parla al cuore con la voce della sua anima austera, profondamente religiosa. Ecco: là presso un crocicchio ci attende un ligneo crocifisso, qua una bianca cappellina sorride tra il verde, più in alto, nel regno della solitudine e del silenzio, forse, un vetusto santuario c'invita alla meditazione e alla preghiera. E, spesso, una pia leggenda è fiorita attorno a quel crocifisso, a quella cappellina, a quel santuario e ci narra di fatti miracolosi, di apparizioni, di ritrovamenti di sante reliquie. E nel dolce rievocare, fatti e cose ci appaiono soffusi di pura e commossa poesia. Anche il Santuario della Madonna di Senales ha la sua leggenda. Ascoltate. Ci fu un tempo in cui, uomini di fede ardente lasciavano la loro casa, la loro famiglia, affrontavano disagi di ogni genere per recarsi a visitare i Luoghi Santi. Vestivano il rozzo sanrocchino ed avevano per unico compagno di viaggio il fido borbone. Lungo e faticoso era il loro cammino, malfide le strade, ma grande e ferma la virtù che li guidava. Si dissetavano alle fonti come gli uccelli del buon Dio ed in Suo nome elemosinavano il poco pane di cui sostentarsi lungo la via. Ogni breve ed angusto riparo serviva per la notte. Molti di essi venivano dai lontani paesi del nord ed andavano a Roma per toccare e baciare quella terra che il copioso sangue dei Martiri aveva santificato. Erano i «romei». Un giorno, due di codesti pellegrini giunsero in Val Senales. La valle è remota, chiusa fra cupe selve e montagne impervie scintillanti di ghiacci, di nevi; (come e perché fossero giunti fin lassù non è detto nella leggenda). Dopo aver camminato a lungo fra bosci, rocce e dirupi, giunsero su di un'altura, dove si apriva una grotta. Qui essi sostarono in preghiera, ringraziando il Signore di aver loro provveduto un rifugio per la notte che stava per sopravvenire. Inginocchiati sulla nuda terra, i due pellegrini pregavano e al loro mistico fervore la natura tutta univa la sua preghiera fatta di mille voci, di infiniti sussurri, di imponderabili palpiti. D'un tratto, uno dei due, forse il più giovane, alzò il capo: era ormai buio. Improvvisamente una luce vivida, intensa si accese e brillò nel bosco vicino. Che poteva significare quel chiarore nella notte? Subito dopo anche l'altro pellegrino alzò il capo e guardò muto la luce misteriosa che sembrava ammiccare di lontano. Si alzarono i due uomini e, attirati da una forza irresistibile, mossero verso il luogo dove brillava il misterioso chiarore. Che videro? A terra, sull'erba, stava, come dimenticata da qualcuno, una graziosa tavoletta di legno, finemente intagliata, raffigurante la Madonna e Gesù Bambino seduti sul tronco d'un albero. «Com'è bella!» esclamarono ad una voce i due pellegrini, «e come splende!» E le loro mani tremavano di commozione nel toccarla ed i loro occhi brillavano di gioia nel contemplare le divine sembianze del Bambinello Gesù e della sua Mamma Celeste. Felici, i due pellegrini corsero al maso più vicino a dare la notizia dello straordinario rinvenimento. La lieta novella riempì di gioia quella gente di fede, semplice e buona. Subito vecchi e giovani accorsero sul luogo e videro il piccolo quadro che, nella notte, aveva lanciato il luminoso appello. Commossi s'inginocchiarono pregando, poi, al lume delle torce, la sacra Immagine fu portata in casa e collocata nella «Stube», al posto d'onore, là sotto il grande crocifisso. Ma il mattino seguente la contadina, che per prima entrò nella «Stube», ebbe la dolorosa sorpresa di non ritrovare più, fra i fiori e le candele, la piccola tavoletta Sparita. Fu rinvenuta più tardi nel bosco, nel luogo stesso dove era stata trovata la prima volta. Il fatto, davvero straordinario, si ripetè ancora, ogni qualvolta quella buona gente tentò di portare in casa la sacra Immagine. Capirono, allora, gli ingenui e semplici montanari, che altro e diverso doveva essere il volere del Cielo e di unanime accordo, decisero di costruire in valle, in luogo accessibile a tutti, una chiesetta ove collocare degnamente la tavoletta prodigiosa. Detto fatto. Si misero all'opera; chi trasportava pietre, chi abbatteva alberi, chi lavorava d'ascia e d'accetta a preparare travi e tavole. Ma, dopo qualche tempo, il lavoro iniziato con tanto alacre entusiasmo, sembrò doversi arenare causa i continui infortuni ed incidenti che colpivano i lavoratori. Muratori cadevano dalle impalcature, carpentieri si ferivano ed una sfiducia greve ed opaca demoliva, a poco a poco, la volontà e l'entusiasmo degli uomini. Sconsolati, i buoni montanari guardavano quei muri lasciati a mezzo, quelle cataste di tronchi odorosi di resina che, forse invano, attendevano la mano dell'uomo. Tutto sarebbe rimasto, dunque cosi? Non vollero credere gli uomini, forti, avezzi alle prove e agli ostacoli più duri. Forse … E guardarono in alto. Storni di uccelli si abbassarono, raccoglievano col becco qualche trucciolo e sfrecciavano via, verso l'altura di fronte, Andavano e venivano, lievi, instancabili, tracciando nell'aria un ponte di voli e di trilli, sopra il colle e la valle. Credette la gente di buona volontà, di vedere in quei voli un segno del Cielo e, docile, iniziò là, su quel colle, la costruzione di una nuova chiesetta. Sorse così, dove oggi si trova, il Santuario della Madonna di Senales, a 1508 metri sul livello del mare. I fedeli montanari non dimenticarono e, per rievocare più fedelmente il miracoloso rinvenimento, ogni anno la venerata Immagine viene portata in processione da giovani del luogo vestiti da pellegrini
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Le campanelle di pasqua
valli altoatesine (BZ)
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Finalmente l'uggioso Inverno se ne andò. Un bel mattino, come d'incanto la Primavera s'affacciò alle porte del mondo. Era attesa, chè le gemme degli alberi e delle siepi non aspettavano che il suo magico tocco per aprirsi e la terra, gonfia di succhi e di umori, non desiderava che un suo cenno per ornarsi di erbe e di fiori. «Era tempo» - disse tra sé l'accorto contadino che per lunghi, lunghissimi giorni era stato a spiare il cielo, e, impaziente trasse fuori gli attrezzi del suo lavoro. «Era tempo» - esclamò la massaia, sollevando fiduciosa gli occhi verso l'azzurro e, tutta allegra, prese a sciorinare all'aria il primo grande bucato di stagione.«Era tempo, era tempo» - trillarono i bimbi in coro, uscendo dalle case tetre e buie, e corsero, vispi come uccellini, a cercare la prima carezza del sole primaverile. Dalle aie ripose il festoso coccodè delle galline, alternato all'altisonante chicchirichì dei galli. «C'è qualcosa di nuovo sulla terra - disse un giorno San Pietro, guardando giù sul mondo dal suo alto trono sospeso fra le nubi - vedo, vedo…». La terra rinverdisce, le rondini sfrecciano nell'azzurro e l'aria è piena di gridi, di voci festose di bimbi. Primavera è tornata; dopo il lungo sonno invernale la terra si sveglia, rinasce alla vita. Sorrise il santo Vecchio e «Pasqua è ormai vicina - annunciò con voce esulante - alleluja, alleluja!». «Angeli del Cielo, udite, venite!..». La voce possente volò, si sparse sotto le volte della celeste dimora. Gli angeli erano tutti al lavoro, chè molto c'è da fare nel regno del Signore. Chi stava lucidando le stelle del firmamento, perché più chiare, più lucenti splendessero nella notte, dando gloria a Dio e gioia agli uomini; chi sprimacciava le bianche nuvolette perché più soffici, più leggere corressero per il cielo ad abbellire le albe e i tramonti, a far sognare mondi meravigliosi ai malati immobili nei bianchi lettini degli ospedali, ai bimbi poveri che giocano nei vicoli stretti e scuri… Altri, molti altri, fedeli messaggeri tra la terra e il Cielo, partivano, arrivavano, silenziosi, belli, luminosi, a volte lieti, a volte tristi, s'inginocchiavano ai piedi del Signore, pregavano, talvolta piangevano. Udirono, gli angeli, la gran voce.«E' Pietro che chiama» - dissero - guardandosi l'un l'altro. E chi lucidava le stelle smise di lucidare e chi sprimacciava le nuvolette smise di sprimacciare e tutti accorsero solleciti all'appello di Pietro. Il Gran Vegliardo era là, ritto con il viso radioso entro la lunga barba argentea. «Miei cari, piccoli angeli, fedeli servitori - egli disse - ho una meravigliosa nuova da darvi. Ascoltate». Gli angeli gli si fecero accosto riverenti, mentre nelle loro ali passava un fremito leggero. E' vicina la Pasqua del Signore. Sia gloria a Colui che risorge e gioia e letizia siano in cielo e in terra!». «In quel giorno solenne si sciolgano tutte le campane del Paradiso e il loro "Gloria" si spanda per le infinite vie del Cielo e scenda sulla terra, messaggio di amore e di speranza agli uomini. Preparate le campane per il gran giorno, che esse brillino pulite e terse, come oro, al sole! E saldi siano i battagli e resistenti le funi, perché abbiano a reggere validamente al festoso scampanio. E siate prudenti - soggiunse il Santo - prudenti affinchè non vi accada che una fune, per il gran tirare si spezzi, o che una campana si stacchi dal suo aereo castello e vada a cadere, chissà dove, sulla terra». Gli angeli accolsero in silenzio i saggi ammonimenti del Vecchio, che subito riprese: «Andate, creature fedeli, e fate come ora avete appreso. Gloria al Signore!». Gli angeli si misero al lavoro di lena e dopo breve tempo le campane erano là, issate sui loro alti castelli, lucide e scintillanti come non lo erano mai state prima di allora. E venne il giorno tanto atteso. L'annunciò il sole, alto, raggiante sopra i monti e un brivido di gioia sfiorò la terra. L'erbe nei prati si rizzarono sugli steli sottili e i biancospini si ornarono di mille e mille candide stelline. Giù nella valle i mandorli in fiore coprirono il bruno della terra con la nuvola bianco-rosata delle loro corolle. Un fremente inno di giubilo, di osanna si levò dalla terra, raggiunse, toccò la volta celeste. Gli angeli corsero alle campane, toccarono con mano leggera le funi, poi, tutti all'unisono, via: din, dan, don, din, dan, don… Era un crescendo continuo, possente; l'onda sonora saliva, si dilatava, sorvolando la terra fino ai più lontani orizzonti. Din, dan, don, din, don, dan… Ma d'un tratto che avvenne? Le campane, come impazzite, presero ad oscillare paurosamente nell'aria, più forte, sempre più forte. Non s'avvidero, gli angeli, tutti presi com'erano da quel magico, splendido gioco, che le funi non reggevano, non potevano reggere oltre? Trac, trac, trac… Mio Dio! Una campana si stacca improvvisamente dalla volta, un'altra la segue e un'altra ancora, precipitano, scompaiono entro la massa candida delle nubi. Chi le vede più? «Maria, aiutaci» invocano gli angeli con il pianto e l'angoscia nella voce «aiutaci!» e cadono in ginocchio coprendosi il volto con le mani. E Maria, la Mamma buona, stende pietosa la mano sulla terra: nessuno dovrà piangere per le campane cadute dal Cielo, nessuno dovrà piangere nel santo giorno di Pasqua. Sostenute dalle ali possenti del vento, le campagne si posarono dolcemente sulla terra senza recar danno a nessuno. Miracolo! E dove esse si posarono, spuntarono dal suolo tante e tante leggiadre campanule dalla delicata corolla di un bel viola argentato. Le farfalle, per prime, scoprirono i fiori del miracolo e diedero loro il benvenuto in una festa di voli, di danze gioiose mentre le api, accorse da lontano, riempivano l'aria mattinale del loro festoso ronzio. Spiccavano fra l'erbetta tenera e lucida del prato, le argentee campanule, sparse qua e là, solitarie o a piccoli cespi. Ne erano sbocciate un po’ dappertutto: sui declivi solatii, lungo i sentieri, e, perfino, fra le povere, aride zolle prigioniere della roccia nuda e grigia. Come al solito, quel giorno, alcuni pastorelli uscirono per condurre al pascolo il gregge. Le pecore belavano di contentezza e gli agnellini, nati da poco, zampettavano ancora malsicuri accanto alle madri. Il mattino era sereno e il cielo così azzurro, così terso! Le pecore si sparsero per il prato e i pastorelli si sedettero al margine del sentiero. Solo il più piccolo di essi, che portava in braccio un agnellino tenero e bianco, seguì il gregge. D'un tratto vide che tra l'erba qualcosa di nuovo: no, un fiore come quello non l'aveva mai visto prima d'allora, no, davvero! E com'era bello! Sembrava proprio una campanellina d'argento. Il fanciullo chiamò, felice, i compagni: «Venite a vedere le belle campanelline!» ed ai compagni indicò le piccole campanule occhieggianti tra il verde. Sono le «campanelle di Pasqua» sono i fiori del Signore, e subito ne colse un mazzolino da offrire alla mamma. E ancor oggi, quando la primavera si apre, tornano a far capolino tra il verde, lungo i pendii dei nostri monti, le «campanelle di Pasqua». Dondolano tremule al sole le argentee corolle, fra voli di farfalle e ronzii d'api: sono gli anemoni.
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San Lucano
Valli d'Isarco e di Fiemme (BZ)
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Lucano, il santo Vescovo di Sabiona, era oramai vecchio. Di giorno in giorno le sue spalle si facevano più curve, più lenti e stanchi i suoi passi. Presto, forse molto presto, la silenziosa - la Morte - avrebbe bussato alla sua porta per dirgli: «Vescovo Lucano, il Signore ti chiama! Vieni». Oh, Lucano era pronto alla chiamata, ma una grazia, una grazia sola chiedeva al Signore prima di lasciare per sempre questa terra, e in ginocchio, a mani giunte, così pregava: «Signore Iddio, che leggi nel cuore degli uomini le gioie e le pene, le speranze e gli affanni, accogli, pietoso, l'estremo mio desiderio. Fa che questi miei poveri occhi possano vedere ancora una volta il Santo Padre, il dolce Vicario di Cristo in terra. Quale gioia per me riunire le sue sante parole, quale conforto poter chiudere questa mia lunga vita con la sua benedizione!». Quando venne la buona stagione, Lucano fece sellare la sua mula e, accompagnato da un fido servitore, lasciò Sabiona. Cammina, cammina… un giorno i due viandanti giunsero al margine d'un bosco. Gli alberi alti e folti intrecciavano in alto le loro chiome frondose. L'ombra, il silenzio, la quiete, invitavano ad una sosta. «Fermiamoci qui», disse Lucano scendendo dalla sua cavalcatura, e sciolse la mula perché potesse pascolare più liberamente. D'un tratto, uno schianto di rami e di frasche s'udì venire dal bosco: un orso enorme, spaventoso, usciva in quel momento di tra gli alberi e, grugnendo paurosamente, s'avventava sulla povera mula azzannandola. Pazzo di terrore, il servitore cercò disperatamente rifugio sull'albero più vicino e il vecchio Lucano rimase solo ed indifeso nel pericolo. Non tremò il Santo; alzò gli occhi al Cielo in una muta preghiera, poi, calmo, mosse verso la belva, ancora intenta al pasto sanguinoso e così le parlò: «Gran danno mi arrecasti, belva crudele, privandomi della mia cavalcatura. Ora, in mone di Dio onnipotente, io ti comando di prendermi in groppa e di portarmi per tutta la durata del mio lungo viaggio». Dondolando il grosso testone irsuto, l'orso subito ammansito, s'avvicinò al Santo e si lasciò docilmente sellare e mettere il morso. «Ed ora andiamo», disse Lucano salendogli in groppa e il buon bestione s'avviò trotterellando come il più pacifico, il più mite dei cavalli da sella. E via, via: la strada correva per ampie vallate, per gole e valli ed alture e, per villaggi e città. Il sole dardeggiava sempre più caldo e la polvere e la sete bruciavano la gola, ma Roma era ancora lontana e la strada sembrava senza fine. Dopo molte settimane di cammino, i due pellegrini giunsero a Spoleto. Erano stanchi da non poterne più, avevano fame e sete e subito si diressero verso una locanda. L'oste si fece loro incontro tutto premuroso e pieno di rispetto, preparò la tavola, portò del pane e del vino, poi, tutto confuso e quasi vergognoso, s'accostò a Lucano dicendo: «Perdonate, Monsignore, se la mia casa, oggi, non può offrirvi quell'ospitalità che vi conviene; mia moglie è gravemente ammalata ed io…» e non potè più proseguire, che già il pianto gli faceva nodo alla gola. Il santo Vescovo ebbe pietà del poveretto e si fece condurre al letto dell'inferma. La donna era moribonda; giaceva assopita, il volto più bianco della cera, il respiro lento, affannoso. Nella stanza i figli, i parenti piangevano soffocando i singhiozzi, pregavano. Lucano s'avvicinò in silenzio alla malata, la segnò lievemente con la croce: subito ella aprì gli occhi, si sollevò sui guanciali prorompendo in un grido: «Sono guarita, sono guarita!» Nella stanza, ora, si rideva, si piangeva di gioia, si gridava al miracolo. L'oste guardava estatico la sua donna, timoroso quasi di abbandonarsi a quella gioia troppo grande, troppo bella; i figlioli si stringevano attorno alla mamma, l'accarezzavano e non volevano più staccarsi da lei. Parole, voci, esclamazioni affettuose s'incrociavano attorno alla donna risanata e mai festa più bella, mai gente più felice s'era dato di vedere in quella casa. E tanta era la felicità, che nessuno s'avvide della scomparsa di Lucano. Quando l'oste e i parenti se ne accorsero, lo cercarono dappertutto: dov'era il santo Vescovo? Perché se n'era andato? Si chiedevano affannosamente. Ma Lucano era ormai lontano e calcava di buon trotto verso Roma. Ma via via che s'avvicinava alla mèta, una pena, un cruccio sottile, tormentoso, gli stringeva il cuore, perché non aveva nulla, proprio nulla da offrire al Santo Padre. Lucano era povero e vuota era la sua bisaccia di pellegrino, chè, sempre ogni suo bene aveva diviso tra i poveri, affinchè l'affamato avesse un pane e l'ignudo una veste. Ma un dono, un piccolo dono l'avrebbe pur voluto offrire al Padre amato. Così andando, il Santo e il suo compagno videro ai lati della strada una bella macchia di robinie. Veniva dal verde il giocondo chioccolio d'una fonte e un sommesso bisbigliare d'uccelli. All'improvviso un frullo d'ali agitò le fronde e fr, fr, fr… una, due, tre… uno stormo di pernici si aprì il varco tra il fogliame, spiccando il volo verso l'alto. Ristette gioiosamente stupito Lucano, poi, sollevati gli occhi ridenti disse: «Volate, volate, uccelli del buon Dio, volate dove più azzurro è il cielo e portate al Padre Santo tutta l'allegrezza che vi fa così lieti e felici!». Con un rapido e festoso battere d'ali gli uccelli si lanciarono in alto, sempre più in alto, scomparendo verso il bel cielo di Roma. E a Roma finalmente, giunsero anche i due viandanti. «Signore, ti ringrazio d'avermi concesso questo giorno benedetto», esclamò il Vecchio Vescovo raggiante d'incontenibile gioia e, così come si trovava, con indosso le povere vesti che portavano il segno del molto cammino, corse ad inginocchiarsi ai piedi del Papa. Ma, che è o che non è, d'un tratto senti che il mantello, il suo povero e logoro mantello, gli si faceva pesante, pesante da schiacciargli quasi le spalle; se lo tolse, poiché era tutto zuppo, fradicio di pioggia, cercando, attorno, con gli occhi, un gancio o un chiodo su cui appenderlo. E mentre cercava, un raggio di sole entrò di sbieco dalla finestra, fendette l'aria diritto e lucente come una spada. Non stette a pensarci due volte. Lucano prese il mantello e, senza dir parola, lo gettò sul raggio luminoso. E lì rimase sospeso in uno scintillante pulviscolo d'oro. Guardò attonito il Papa lo straordinario prodigio, ma non se ne stupì, poiché già sapeva che l'umile Vescovo, che gli stava innanzi, era un prediletto del Signore, un Santo. Gli si avvicinò e abbracciandolo, disse: «Gioisci, Lucano, pastore fido e buono, chè ancora una volta il Signore ha voluto mostrarti la sua grazia. Torna, ora, al tuo gregge lassù fra i monti alti e selvosi e che il Signore ti accompagni. Và!» Tornò Lucano alla sua Sabiona ed ivi rimase beneficando il suo popolo, finchè il Signore lo chiamò a sé nella sua gloria. Secoli e secoli sono passati, d'allora, ma il nome del santo Vescovo è sempre vivo e venerato nella Valle d'Isarco, come lo è pure in altri luoghi della nostra Regione
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Le tre fanciulle di Maranza
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Le tre fanciulle di Maranza
Valli d'Isarco e Pusteria (BZ)
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Molti, molti anni or sono giunsero nella Valle d'Isarco tre giovinette. Si chiamavano Aubert, Kubet e Guerre. Il loro nome le diceva straniere, ma nessuno seppe mai donde esse venissero, così povere e sole. Povere e sole camminavano per le vie del mondo, fra genti sconosciute, fra insidie e pericoli. Perché? Forse la guerra, forse la persecuzione di feroci genti pagane avevano costretto le poverine a fuggire, ad andare raminghe di paese in paese in cerca di un rifugio sicuro. Ma un Angelo del Signore era con loro: egli, invisibile, le guidava, sorreggeva i loro passi nel duro e lungo cammino. Fu così che un giorno, cammina e cammina, Aubet, Kubet e Guerre si trovarono alle porte della Valle d'Isarco. Aspra, selvaggia era, allora, la valle, tutta chiusa fra alti monti selvosi. In fondo, fra massi e botri scorreva il fiume schiumante d'acqua e solo la sua cupa voce rompeva il desolato silenzio del luogo. «Mio Dio, dove siamo?» si chiedono, smarrite, le fanciulle e cercano intorno con gli occhi un qualche segno di vita umana. E Guerre, la minore, trema di paura e stringe più forte la mano di Aubet. Ma Aubet è coraggiosa e dice: «Non temere, sorellina, il Signore è con noi. Egli non ci abbandonerà. Su, su, piccina, stringiti a me; insieme, mano nella mano, cammineremo finchè al Signore piacerà indicarci un tetto, un asilo». «Ed io pure sarò sempre con te, sorellina cara, ti difenderò, ti proteggerò» dice Kubet e gli occhi le splendono di santa fierezza. E le tre sorelle, tenendosi per mano, s'incamminano con passo leggero su per il ripido pendio che sale verso il monte. Vanno e vanno, attraversano boschi e pascoli deserti, spesso interrotti da profondi valloni, da scoscesi dirupi e finalmente arrivano a Lazfons. Ma non è questa la loro mèta. Si rimettono di nuovo per via e, dopo lungo cammino, scendono in Val Pusteria. E l'angelo buono è sempre con loro. Hanno sete? Una forte montanarina offre alle loro aride labbra la sua acqua limpida e fresca. Hanno fame? Il bosco generoso tiene in serbo per loro le bacche più dolci e mature. E quando l'aria imbruna e la prima stella occhieggia ancor sola nel cielo, una capanna, una grotta ben difesa offrono alle fanciulle un buon riparo per la notte. Cammina, cammina… Aubet, Kubet e Guerre, da Rio di Pusteria, per il Katzensteig, salgono verso Maranza. Ma il sentiero è tanto ripido e le povere fanciulle sono stanche, stanche da morire. Ed è luglio. Alto, nel cielo tersissimo, splende il sole e la campagna è in festa. Tutte le siepi sono fiorite e l'erba dei prati, già alta, ondeggia ad ogni soffio di vento, screziata di mille e mille colori. Anche la segale è già bionda nei campi poveri e magri e fra gli esili steli spiccano le macchie rosse e turchine dei rosolacci e dei fiordalisi. Ma il sole brucia e le pietre del sentiero scottano sotto i piedini nudi e scorticati. Ecco, non reggono più alla fatica e sfinite si abbandonano all'orlo di un prato. Ed hanno fame e sete, tanta fame, tanta sete! Dice Aubet, la maggiore, dal dolce composto viso di madonnina: «Non dobbiamo temere, sorelline care! Preghiamo il Padre ch'è nei cieli ed egli ci aiuterà». E subito s'inginocchia e prega:«Signore, soccorrici, mandaci un po’ d'ombra, un po’ di frescura! Noi moriamo!…» E, come d'incanto, ecco, ergersi al margine del prato un albero alto e frontoso che allarga intorno, pietoso, la sua chioma ed avvolge nella sua ombra ristoratrice le tapinelle. Allora Kubet, esile e bionda, con voce fatta trepida dalla gioia, dalla speranza, si getta in ginocchio e dice:«Grazie, Signore, dell'ombra che ci hai dato. Ascolta ancora la nostra preghiera! Abbiamo fame, non lasciarci perire». E i rami dell'albero subito si abbassano, si curvano sulle fanciulle offrendo alle loro avide mani le più belle, le più dolci ciliegie che si possano immaginare. E Guerre non vuol essere da meno delle sorelle e, congiungendo le mani, timida ed umile mormora: «Siano rese grazie a Te, Signore! Tu ci hai donato l'ombra e il cibo, ma abbiamo sete, ancora tanta sete!… Donaci un po’ di acqua, Signore!». Glo, glo, glo … una polla d'acqua limpida sgorga gorgogliando fra i sassi e l'erbe. Oh, la felicità di immergere la bocca, il viso, le mani in quell'acqua freschissima! Ritemprate, le fanciulle elevano al Cielo un canto di fede e di gratitudine, poi liete e serene riprendono il cammino che le porta a Maranza. Il villaggio è ridente: poche e scure casupole sparse tra il verde e mandrie e greggi al pascolo… Il luogo è bello - dice Aubet - ed abbiamo già camminato tanto!» Fermiamoci qui, aggiungono le sorelline, e chiediamo ospitalità a questa buona gente. E bussano timidamente a qualche porta: chiedono asilo ed offrono, in cambio, lavoro. I rudi, ma pietosi montanari accolgono volentieri le tre giovanette povere e sole e generosamente dividono con loro il poco pane nero e lo scarso companatico. Aubet, Kubet e Guerre hanno trovato, finalmente, un focolare, un tetto, povero si, ma quanto, oh! Quanto ricco di calore, di bontà! Ben presto le fanciulle diventano le beniamine del villaggio. Dal mattino alla sera, alacri e gaie, lavorano nelle case e nei campi, impastano e cuociono il pane, filano la lana, lavano e, se c'è bisogno, zappano la terra, falciano l'erba, concludono al pascolo il gregge. E se i predoni assaltano il villaggio, le intrepide giovinette si mettono alla testa dei difensori: pregano, impugnano un'arma e combattono. E quando la pace torna nel villaggio, esse riprendono in letizia le loro pacifiche occupazioni, chè il lavoro non manca e c'è sempre chi ha bisogno di aiuto. Lavorano: lavorano e pregano, le buone fanciulle, ed insegnano agli umili montanari a conoscere, ad amare il Signore. E molti di essi si fanno cristiani. Una nuova vita fiorisce nel piccolo, solitario lembo di terra benedetto dal Signore. Pace e serenità regnano nelle famiglie. La terra dà frutti abbondanti, le campagne sono fiorenti, il bestiame riempie le stalle... Anni, molti anni passarono… Che avvenne delle tre giovanette giunte un giorno, povere e sole da un paese lontano? La voce della leggenda tace né a noi è dato di sapere di più. Ma la memoria di Aubert, Kubet e Guerre rimase sempre viva nel cuore della gente di Maranza. Il ricordo della loro angelica bontà vinse il tempo, superò in breve gli angusti confini dell'alpestre villaggio. Nel 1500 esse furono proclamate Sante; sono, ora, le celesti protettrici di Maranza. Nella chiesa del paese un altare è dedicato alle sante fanciulle e un quadro le rappresenta nelle loro dolci sembianze: Aubet col rastrello, Kubet con la lancia, Guerre con il tridente del fieno. Ed ancor oggi la gente del villaggio si rivolge loro nei momenti del bisogno, del pericolo, del dolore. Ed è tanta la venerazione che il popolo ha per le sue Sante patrone, che il luogo dove esse, stanche, si riposarono in quel lontano giorno d'estate, viene chiamato «Jungfraurast», sosta (riposo) delle Vergini
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L'origine del lago di Caldaro
Caldaro sulla strada del vino (BZ)
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Il Signore lascia talvolta il suo splendente trono di stelle per scendere sulla terra e, rivestito di poveri panni, s'avvia per le numerose strade del mondo. Il suo viso è dolce ed umile e i suoi occhi riflettono un'infinita bontà. Passa per le nostre rumorose città, per i nostri tranquilli viaggi. A volte sosta per via, per rivolgere la parola a qualche passante che incontra sul suo cammino. Troppo spesso questi non ode, o finge di non udire la voce che lo chiama: ha fretta, troppa fretta e si allontana indifferente. Talvolta il celeste Viandante sosta davanti ad una casa: bussa ed attende pazientemente che qualcuno l'inviti ad entrare, ma troppo spesso quella porta rimane chiusa, ostinatamente chiusa. Col viso triste, accorato egli riprende, allora, il suo cammino alla ricerca di altri uomini a cui rivolgere la sua parola di amicizia, in cerca di altre case in cui portare il dono della sua bontà. Così, un giorno, il Signore giunse alla terra di Caldaro. La terra era bella, fiorente. Stanco, affaticato per il lungo cammino, egli si diresse verso il maso Klughammer. La casa era solida, massiccia, di bella fattura e testimoniava chiaramente del benessere della famiglia che vi abitava. Infatti, il padrone del maso, il «Bauer», era assai ricco; possedeva campi, vigneti, prati e pascoli al piano e al monte; i suoi granai erano ricolmi di grano e le sue stalle di armenti. Malgrado le sue grandi ricchezze, quel contadino era il più povero tra i poveri, perché era avaro. Mai un soldo egli aveva tolto dalle sue casse per donarlo ad un mendico, mai un pane egli aveva levato dalla sua dispensa, per donarlo ad un affamato. Alla porta del maso Klughammer venne, dunque, a bussare il Signore. Gli aprì il padrone stesso. Si trovarono di fronte, l'uomo dal cuore di pietra e il Viandante dagli occhi luminosi, pieni di bontà. «Che vuoi?» chiese con voce aspra il contadino. «Un pezzo di pane ed un sorso d'acqua; ho fame e la gola mi brucia per l'arsura» rispose il forestiero, con voce supplichevole. E già la contadina impietosita, stava per porgergli quanto chiedeva, quando l'uomo, con voce dura e cattiva, proruppe: «Non c'è pane in casa mia, per i vagabondi, e di acqua Dio ne manda tanto poca!… Vattene». Il Viandante chinò il capo in silenzio e si allontanò dirigendosi verso i boschi della Mendola. Qui egli sostò, in cerca di un rifugio. I maestosi abeti inchinarono le cime al passaggio del loro Creatore. Solo, inginocchiato sulla nuda terra, pregò e diede sfogo al suo cuore traboccante di amarezza. Pianse per la cattiveria, per la durezza di quell'uomo e di tutti gli uomini che, chiusi nel loro freddo egoismo, non avevano voluto accogliere il suo invito alla bontà, alla generosità, all'amore. Lacrime cocenti inondavano il volto santo. Caddero, come rugiada, tra i sassi, fra l'erbe, inzupparono il terreno; a poco a poco si raccolsero insieme e formarono una piccola sorgente. Questa andò rapidamente ingrossando e diede origine ad un torrente. Scorrevano, scrosciando, fra massi e dirupi le sue acque; all'improvviso si gonfiarono, ribollendo tutte di schiuma, e, superate le sponde, precipitarono a valle. Con furia paurosa, la fiumara tutto travolse ciò che incontrò sul suo cammino: campi, vigneti, prati, case… E dove prima regnava la ricchezza, il benessere, lasciò desolazione e rovina. Il maso Klughammer fu risparmiato in tanta devastazione (ed esiste tutt'oggi), ma i prati, i vigneti, i campi rigogliosi furono devastati e sommersi dalle acque. Così il contadino superbo ed avaro divenne povero, povero fra tanti altri poveri. Acqua, si, ce n'era molta, ora: una limpida discesa verd'azzurra ricopriva quelle campagne un tempo rigogliose di fiori, di messi, di frutti. Nacque così, secondo la leggenda, il lago di Caldaro.
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Le Piramidi del Renon
Renon (BZ)
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A Longomoso viveva, una volta, un ricco contadino, che aveva un unico figlio di nome Franz. Il contadino era uomo dabbene, onesto e laborioso. Il figlio era tutto il contrario; scioperato, dissipatore, aveva in dispregio la religione e le cose sante. Insensibile ed arido di cuore, a nulla servivano gli accorati ammonimenti del padre, né lo commovevano le silenziose lacrime materne. Contadino, figlio di contadini, non sentiva l'amore alla terra, quell'amore, quell'attaccamento, che converte in gioia il pur duro e faticoso lavoro dei campi. Di rado, infatti, lo si vedeva con la zappa, con la vanga, con la falce in mano; a questi strumenti, Franz preferiva i birilli, il mazzo delle carte da giuoco, il bicchiere di vino all'osteria in compagnia di amici scioperati e perditempo pari suoi. Ma venne un giorno che tutti questi spassi gli vennero in uggia; bisognava cercare qualche altro modo di divertirsi, qualcosa di nuovo e, dopo averci pensato, decise di andare in giro per il mondo. Avrebbe viaggiato per terra e per mare, avrebbe visto terre nuove, città splendide dove avrebbe potuto, finalmente, divertirsi a suo agio. E il denaro? Egli non ne aveva, perché non aveva mai pensato a guadagnarselo e lo chiese al vecchio padre, che dovette dar fondo a tutti i suoi risparmi per accontentarlo. Franz partì Partì incurante di tutto e di tutti, con il sacco nuovo in spalla, il cappello spavaldamente calcato sulla nuca; partì senza voltarsi indietro, senza mandare un ultimo cenno di saluto alla madre, che lo seguiva col pianto negli occhi dalla soglia di casa. Franz viaggiò, andò lontano, ma neppure nei viaggi trovò quello che cercava, ed insoddisfatto fece ritorno alla casa paterna, dove i genitori lo accolsero a braccia aperte. Dispiaceri, dolori, angustie erano scomparsi; il figlio, il loro amato figlio, era tornato nella grande casa, che sembrava così vuota senza di lui. Ma Franz era quello di prima e come prima tornò a dividere i suoi giorni fra i birilli, le carte da gioco, gli amici e l'osteria. Fu appunto mentre stava seduto ad un tavolo dell'osteria, che un giorno udì parlare delle streghe del Pirchboden. Qualcuno raccontò che a mezzanotte in punto, nelle notti di plenilunio, le megere si radunavano nella vasta radura, dove ballavano e facevano ogni sorta di stregonerie. Nessuno s'era mai spinto fin lassù? Qualcuno si, qualche pazzo temerario che, però, non aveva più fatto ritorno. Eh, con le streghe non c'era da scherzare! Esse non ammettevano testimoni ai loro convegni. Il discorso era caduto lì, ma l'idea di un'audace avventura piacque a Franz. Egli se ne rideva delle streghe e dei loro sortilegi, che diamine! Così una notte di plenilunio s'avviò verso il Pirchboden. Bianca, sotto la luna, si stendeva la radura; qua e là qualche solitaria betulla dalla chioma d'argento stormiva lievemente nel silenzio incantato della notte. Franz si acquattò prudentemente dietro un masso che stava al margine della spianata ed attese. Doveva essere quasi mezzanotte. D'un tratto l'aria fu percorsa da sibili, da fischi; volando nell'aria, a cavallo di scope e bastoni, giungevano le streghe da ogni parte dell'orizzonte. Franz cominciò a tremare come una foglia di betulla. Che sarebbe successo ora? Le streghe iniziarono una furiosa sarabanda accompagnata da strida e suoni laceranti. Sembrava che l'orribile spettacolo non dovesse avere più fine. All'improvviso le streghe avvertirono la presenza dell'estraneo; tutte insieme urlando e schiamazzando mossero verso il nascondiglio dove Franz stava raggomitolato più morto che vivo. Lo trassero fuori, trionfanti, le megere e lo invitarono a ballare con loro. Fu giocoforza seguirle e il povero Franz fu trascinato senza posa in quella ridda frenetica. Quanto durò l'orribile tregenda? Improvvisamente la luna scomparve e il buio più nero sommerse la prateria. Più alte, più stridule si levarono allora le grida delle streghe, poi cessarono d'incanto e un silenzio cupo e sinistro gravò su tutte le cose. Nell'aria corse un funesto presagio; lo avvertirono per primi gli animali della foresta che già dormivano al sicuro entro i loro nidi, le loro tane. Che stava per accadere nella solitaria radura? Il vecchio picchio verde si ritirò prudentemente nel cavo dell'albero dove alloggiava indisturbato da molte stagioni, lo scoiattolo si rannicchiò tutto nel suo pensile nido, fra i rami più alti dell'abete e mamma volpe ricacciò in fondo alla tana i volpacchiotti tremanti e spauriti. Preannunciato da saettanti bagliori che sembravano incendiare il cielo, si scatenò l'uragano. Piovve, tuonò, lampeggiò tutta la notte. La furia infernale della bufera squassò e sconvolse la radura. Finalmente spuntò l'alba e tornò il sereno. Che avvenne a Franz e delle streghe nella terribile notte? Sorpresi dalla bufera, né Franz né le streghe riuscirono a mettersi in salvo; rimasero là dove si trovavano, ritti ed immobili, trasformati in grige piramidi di terra e di pietra. Così vuole la leggenda. Sorgono a decine le strane piramidi lungo i fianchi scoscesi del monte, là verso la valle, dove un giorno si stendeva il verde Pirchboden. Portano tutte sulla sommità un masso tondeggiante, che di lontano le fa sembrare gigantesche figure umane. E così, infatti, appaiono tutt'oggi al viandante che, in cerca di silenzio e di poesia, percorre il sentiero che da Longomoso porta al ridente villaggio di Montedimezzo
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Chi sono i nanetti del vino
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Chi sono i nanetti del vino
Val d'Adige (BZ)
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Un giorno, così narrano gli antichi libri, giunsero nella nostra terra, con gran seguito di servi, i figli di Noè. Si accamparono ai margini della Val d'Adige che era, allora, deserta e selvaggia, sciolsero i cavalli e scaricarono dai pesanti carri numerosi otri di pelle caprina pieni di vino, che avevano recato con sé dalla loro patria lontana. Quella terra incolta, ma tutta aperta ai caldi venti del sud, piacque ai figli di Noè. Quello era il luogo ch'essi cercavano, qui certamente avrebbe prosperato la prodigiosa pianta dal frutto dolcissimo: la vite. Un giorno, dopo aver vagato lungo al piano, i forestieri raggiunsero le prime alture dove abitavano i nani, certi omini piccini e barbuti, che vivevano coltivando poche spanne di terra strappate alla sterpaglia ed allevando qualche po’ di bestiame: bovini grandi come pecore e pecore non più grandi degli agnellini appena nati. Sorpresi, meravigliati ed anche un po’ intimoriti, i nanetti mossero incontro agli stranieri con mille inchini e profondi salamelecchi. «Chi potevano essere mai, quegli uomini alti e forti?» si chiedevano fra loro i nani «che cosa volevano da loro? E che portavano in quegli strani e rigonfi recipienti di pelle?». Queste ed altre mille domande si facevano i nani, sempre più incuriositi, guardando incantati quei bruni giganti venuti da chissà dove, mandati chissà da chi. Risero divertiti gli uomini venuti di lontano all'ingenua e fanciullesca curiosità dei nani e, dopo averli tranquillizzati, aprirono un otre. Dalla stretta bocca sgorgò spumeggiando e gorgogliando un liquore rosso come il rubino dal profumo delicatamente frizzante. Allegri, gli uomini riempirono alla fragrante onda i rozzi bicchieri di legno e bevvero. Bevvero anche i nanetti e, più bevevano, più si sentivano diventare gai, spensierati, felici. Si fecero arditi, allora, gli uomini e chiesero agli stranieri donde venisse quella preziosa bevanda. I forestieri si scambiarono un'occhiata d'intesa, sorsero misteriosamente poi, colui che sembrava essere il maggiore della brigata, prese a dire: «Cortesi amici, il liquore che ora avete gustato è il vino. Esso si ricava dal frutto d'una pianta - la vite - che cresce nei nostri lontani paesi. Fu Noè, nostro padre, a svelare le segrete e mirabili virtù del succo della vite. Se voi voleste…» continuò l'uomo traendo da un fascio un mazzo di barbatelle, «ecco i robusti virgulti della vite. Li affideremo alla terra; ella li custodirà, li nutrirà, le piantine cresceranno, si vestiranno di pampini e, alla loro stagione, matureranno copiosi grappoli d'uva più dolce del dolcissimo miele». «La vostra terra», soggiunse l'uomo abbracciando con lo sguardo il piano e il colle, «diventerà fiorente e ricca: un giardino». Ascoltavano attenti i nani, annuendo lievemente col capo, poi il più anziano di loro disse:«Illustre straniero, non dubitiamo delle tue parole e siamo pronti a stringere con voi un patto. Ascolta: sarà vostra buona parte di questa terra, noi ci ritireremo più in alto, verso il monte. In cambio, che vi chiediamo? Oh, non molto, pochi otri di questo buon vino!». Una stretta di mano suggellò il patto. I nani con le loro greggi presero la via del monte, mentre i nuovi venuti si stabilivano lungo il pendio chiamato, oggi, Leitach (Costa). Subito gli uomini si misero al lavoro, lottarono a sangue con la macchia selvaggia e prepotente, sradicarono pruni, divelsero sterpi, liberarono il suolo dal pietrame. La vergine terra accolse i robusti virgulti della vite, le piante crebbero, fruttificarono meravigliosamente. Gli stranieri non avevano mentito: quella terra divenne, veramente un giardino. E il vino? Il vino era buono, tanto buono, che i solerti coltivatori pensarono di farne avere un otre anche al vecchio Noè. Era vero Leitacher, limpido, generoso! Lo gustò, beato, il gran Vegliardo, e subito decise di mettersi in viaggio per vedere la terra felice da cui proveniva quel vino. E così, un bel giorno, Noè raggiunse i figli. Voleva vedere con i suoi occhi quello che avevano saputo fare! E vide i fiorenti vigneti digradanti lungo il pendio ed, orgoglioso, lodò l'operosità e la tenacia dei figli. «Per voi» egli disse scorrendo lentamente con lo sguardo le pendici del colle «per voi l'umile e preziosa pianta ha trovato in questo paese ottima dimora. Ma altra terra attende di essere riscattata dal vostro lavoro: la vite, l'umile, la generosa vite vi compenserà d'ogni fatica». Ben presto far tesoro delle parole del padre quei figli laboriosi, ed instancabili si dettero a dissodare altra terra lungo la vallata. E volta e rivolta la zolla, e zappa e scava… Coll'andar degli anni i colli, che incoronano la conca ove ora sorge Bolzano, si ricoprono di vigneti ubertosi e la terra, redenta dal lavoro umano, celebrò la sua festa più bella. Ma via via che la vite conquistava le alture, il regno dei nani arretrava e si faceva sempre più piccolo ed angusto. Ma essi non se ne adontavano: gli stranieri erano sempre stati buoni e leali con loro e mai avevano fatto loro mancare il dolce liquore, che accende il fuoco nelle vene e dona al cuore gaiezza ed allegria. E i nani non chiedevano di più. Passarono molti e molti anni (nei libri antichi non è scritto quanti), genti armate invasero la valle, con le armi cacciarono dalla loro terra i pacifici viticoltori, abbatterono, bruciarono le viti. Fiamme alte, paurose divamparono di colle in colle per giorni e giorni. Quando il fuoco cessò, dei rigogliosi vigneti non rimaneva che cenere, una cenere bianca e fine che il vento sollevava e disperdeva lontano. E i conquistatori regnarono su quella devastazione. Che avvenne dei nani? Oh, i nani erano al sicuro e si guardavano bene dallo scendere al piano, chè l'aria che vi spirava non era poi tanto buona neppure per loro. Ai primi invasori altri ne seguirono; questi cacciarono quelli e ne occuparono le loro terre. Col tempo, i nuovi conquistatori abbandonarono i loro feroci costumi, le armi e la guerra ed appresero a dedicarsi al duro, ma pacifico lavoro nei campi. La fatica, il sudore fecondarono le zolle e la terra miracolosamente rifiorì. Fu una seconda primavera. Anche la vite, l'antica vite riapparve sui colli solatii col verde dei suoi pampini e la pompa dei suoi turgidi grappoli. «Gli uomini sono ridiventati saggi e buoni», andavano dicendo fra loro i nani, guardando giù verso la valle «si è ripreso a lavorare la terra e la terra fruttifica. Buon segno!». E, rassicurati, i nani scesero al piano per chiedere ospitalità ai nuovi abitanti. I nani furono bene accolti, fu ritrovato il patto dell'antica amicizia e gli uomini non ebbero a pentirsene: infatti, i generosi nanetti, in mille modi cercavano di rendersi utili ai loro amici, aiutandoli, sovvenendoli in ogni loro bisogno e necessità. E a sera, dopo il lavoro, uomini e nani amavano raccogliersi attorno ad un capace boccale di buon vino. Era frizzante «Leitacher?» Era biondo «Terlaner» dai chiari riflessi dell'oro fino? Il boccale passava di bocca in bocca: frizzi, gaie risate scoppiettavano qua e là fra un sorso e l'altro. Ma i più allegri erano i nani, che divertivano tutti con i loro scherzi e le loro buffe pantomime. Ma gli uomini crebbero di numero. Al piano e sul pendio, dove più ferace era la terra e mite il clima, sorsero borghi e villaggi. Gli abitanti si fecero duri, avidi di terra e di beni e, nella brama insaziabile di possedere, dimenticarono gli antichi patti. Offesi e delusi, i nani ripresero tristemente la via del ritorno verso il monte, ma non dimenticarono la bella terra. Presi dalla nostalgia, talvolta scendevano al piano, ma di rado e solo di notte. E c'è chi dice che ancor oggi, al tempo della vendemmia, i nani riappaiano nei vigneti. Nelle notti di luna scendono silenziosi dai monti e, cauti, s'aggirano tra i filari, sotto le viti, spigolando, piluccando, golosi, un acino qua, uno là. Di tanto in tanto sostano, fiutando l'aria che tutt'intorno odora di mosto e di vino nuovo. Si danno la voce l'un l'altro, allora, i nanetti e, audaci, s'avvicinano alle case, scivolano lesti nelle cantine. Eccoli là, a piccoli balzi si accostano alle botti, aprono impazienti lo zipolo e bevono. Bevono allegri i piccoli nani, il capo riverso, la barba scomposta e nel momento felice, dimenticano l'egoismo e l'ingratitudine degli uomini. S'accontentano di poco gli omini della montagna: un po’ di calore, un po’ d'allegria… poi in silenzio lasciano le cantine per riprendere, nella notte, la solitaria via dei monti
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Il «Lago di Santa Colomba»
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Il «Lago di Santa Colomba»
Val d'Adige e di Trento (BZ)
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L'origine dei laghi alpini ha sempre qualcosa di misterioso. Gli azzurri specchi d'acqua, formatisi nel corso dei millenni, attraverso una seria indefinibile di mutamenti geofisici, rappresentavano per le popolazioni primitive, ingenue e prive di cognizioni scientifiche, autentici prodigi, e davano luogo a narrazioni fantastiche dapprima di contenuto interamente pagano, quindi modificate e nobilitate da elementi della pristina tradizione cristiana. Spesso le leggende si identificano, o presentano fra loro sensibili analogie, con le sole variazioni determinate dalla diversità dei nomi e dalle singolari caratteristiche dei luoghi. Un notevole parallelismo si nota fra le leggende «lacustri» del Trentino e quelle dell'Alto Adige. Le prime sono contrassegnate da un carattere più religioso, che ha riscontro negli stessi nomi dei laghi: «Lago santo» di Cembra, «Lago santo» di Monte Terlago, «Lago santo» del Monte Zeledria e Lago di San Giuliano, ambedue nella Valle Rendena, Lago di Santa Massenza di Vezzano, Lago di Santa Maria di Tret, nella Val di Non, Lago di San Mauro sull'Altipiano di Pinè, Lago di San Pellegrino al passo omonimo, Lago di San Martino di Roncegno (ora scomparso), Lago di Sanspirito di Tuenno (scomparso), Lago di Santa Giustina in Val di Non (artificiale), e, infine, il «lago di Santa Colomba», sul Monte Calisio (Argentario), presso Trento. L'origine di questo lago - la cui leggenda presenta notevoli analogie con quella del Lago di Caldaro - viene qui richiamata, anche se appartiene al ciclo delle leggende trentine, per un motivo, per così dire, sentimentale. Il capostipite dei Merci trentini, lasciata circa sette secoli fa la natia Grezzana, in Val Pantena (Verona), si trasferì appunto a Trento, per andare a lavorare nelle miniere del Monte Argentario (che i minatori tedeschi chiamavano Kalisberg e gli italiani Calisio). La famiglia Merci ha infatti, ancor oggi, i suoi rami principali nel territorio di Vigo Meano e di Montevaccino, frazioni di Trento, sparse sulle pendici del Monte Calisio. Col trascorrere degli anni il cognome Merci subì due corruzioni, forse dovute ad imperfetta trascrizione nei registri anagrafici da parte di personale di altra lingua: Mersi e Merzi.
Sul versante nord-orientale del Monte Argentario, con un orizzonte fatto solo di verde e di cielo, giace, a 922 m.s.m, il tranquillo, romantico «Lago di Santa Colomba», chiamato anche «Lago Santo», da quando venne esorcizzato contro gli spettri e gli spiriti maligni che lo popolavano. Si narra che un giorno lontano, mentre un pastorello conduceva al pascolo il gregge, vide un globo luminoso che saliva sempre più in alto. La bolla di fuoco, che mandava un bagliore accecante, si fermò per un attimo nel cielo, poi precipitò d'improvviso, scomparendo nello stesso luogo donde prima si era levata. Avvicinatosi, pieno di stupore e di sgomento, il pastorello scorse un foro profondo, tondeggiante. Tornato a casa, il ragazzo si affrettò a raccontare quanto aveva visto ai suoi familiari che non gli badarono, pensando che si fosse trattato di una allucinazione. Ma il prodigio tornò a ripetersi. Allora il pastorello decise di scrutare più a fondo il mistero. Un giorno si fermò accanto al foro in cui si celava il globo luminoso, e attese. Ad un tratto, ecco apparire un omiciattolo, con un cappuccio scarlatto e una tonaca che gli giungeva sino ai piedi. Aveva una barba lunga e fluente … Allo spaventato pastorello spiegò che egli era uno dei «nani metalliferi», fedeli guardiani dei tesori nascosti nel cuore delle montagne. Il globo luminoso indica ai preferiti dai nani il punto in cui debbono scavare, per trovare il migliore e più abbondante metallo. Ma i fortunati minatori non debbono dimenticare l'amore per il prossimo e la carità: guai se dovessero obliarli; la loro ricchezza se ne andrebbe in fumo! Detto ciò, il nano sparì. Il pastorello avvertì la sua famiglia del fatto prodigioso, e subito tutti si misero a scavare come forsennati nel punto in cui era apparso il globo di fuoco. In breve, raggiunsero i filoni più abbondanti della miniera, da cui trassero grandi quantità di argento. Col passare del tempo, i poveri pastori divennero ricchissimi proprietari; giunsero minatori dai paesi vicini, i «canopi» e i «silbrari» (dal tedesco Bergknappen, minatori e Silber, argento) crebbero di numero, sorsero interi villaggi; al benessere succedette il dispendio; i costumi si rilassarono, la prepotenza, la cattiveria e l'egoismo prevalsero. Agli uomini semplici di un tempo - il pastorello e i suoi familiari erano ormai scomparsi -, subentrò la dissolutezza e l'avidità del denaro. Una sera giunse un vecchietto, povero in canna e malato. Chiese ospitalità, ma nessuno gliela concesse. Tremante dal freddo, il pellegrino si rifugiò, infine, nella misera capanna di un'umile vecchietta, che lo accolse di buon grado e gli dette un tozzo di pane e un giaciglio. Durante la notte scoppiò un pauroso temporale: pareva il giudizio universale. Poi si susseguirono violente scosse di terremoto sotto un cielo da apocalisse. Le case cominciarono a crollare, si udivano dappertutto grida strazianti di morte. Quasi tutti i minatori perirono, solo pochi scamparono alla morte con la fuga. Si aprirono le cateratte del cielo e venne giù il diluvio. Al mattino non c'era più traccia di vita umana: un vasto lago, il «Lago Santo» del Monte Argentario, aveva sommerso ogni cosa. Il nano del globo di fuoco aveva attuato la sua terribile minaccia. Nei mattini più sereni, sul fondo del lago una gran croce scintilla ai raggi riflessi del sole. E' la croce della chiesa del paese sommerso: tra le rovine la fantasia popolare scorge i canopi, che tengono in mano gli strumenti del lavoro e cercano disperatamente, ma invano, di fuggire
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I «Giganti» delle alpi altoatesine nella Leggenda
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I «Giganti» delle alpi altoatesine nella Leggenda
Provincia di Bolzano
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Le leggende dei giganti nacquero insieme con quelle delle gentili Salighe. E mentre queste contrassegnano il periodo aureo dell'ingenuità e dell'innocenza, le leggende dei giganti ricordano tempi duri, difficili, in cui dominavano la violenza, l'odio, la persecuzione dell'uomo, delle Salighe e degli Elfi. I giganti erano creature mostruose, di statura enorme, simbolo della forza bruta. Presi dalla furia, scagliavano rocce grandi come case da una montagna all'altra, al di là della valle. Si trovano infatti un po’ ovunque dei massi chiamati per tradizione «Pietra (o Sasso) del Gigante» e talvolta essi recano ancora impresse le orme dei piedi e delle mani del gigante che li scaraventò. La fantasia popolare ritiene i giganti ottusi di mente, di animo rude, maligni, brutali e vendicativi, propensi all'inganno e all'ira. Il corpo del gigante era coperto di fitto pellame grigioverde, tanto da sembrare rivestito di «barba di bosco». Dalla schiena, ruvida come una roccia, pendeva un mantello di pelle d'orso, tenuto chiuso da bottoni di ammoniti o da conchiglie, che, urtandosi tra loro producevano un suono gradito al gigante, quand'egli camminava, ma che era però anche un segnale d'allarme per i pastori e per i contadini, che si mettevano al sicuro. Era l'epoca in cui i giganti mangiavano gli uomini, preferibilmente i bambini, compresi i propri figli. Il collo del gigante era corto e robustissimo come quello del toro; la sua testa era grossa, la barba setolosa. Gli occhi sporgenti rotavano come dischi incandescenti, quand'era arrabbiato. E arrabbiato il gigante lo era sempre. La sua voce era cavernosa, profonda: sembrava, quando parlava, il brontolio del temporale o il fragore d'una cascata d'acqua. Il suo urlo faceva crollare le valanghe di neve e le pareti rocciose. Si cibava di carne cruda di animali da lui uccisi, di radici, di erbe e di foglie. Al contadinello che gli chiese che cosa mangiava, il gigante della Valle Aurina rispose con voce cavernosa: pece di mucca e cavallette, intendendo dire burro e camosci. Quando dormiva, russava talmente forte, che sembrava ci fosse il temporale; se inspirava, gli alberi si piegavano fino a toccar terra con la vetta; se espirava, li lanciava in aria come fruscelli. Desiderando accendere il fuoco, il gigante sradicava due piante resinose, le fregava due volte tra loro e le piante si accendevano. Teneva in mano, a mò di bastone, un robusto abete con le radici, che sostituiva di frequente; e in tale posa il gigante viene ancor oggi rappresentato. I giganti avevano raramente una famiglia. Vivevano in spelonche naturali o in antri fatti da loro stessi, spostando le rocce. Uscivano alla caccia di Salighe, le uccidevano e le facevano a pezzi. Taluni giganti invece, come il Canari e il Rotkropfl, le pigliavano e le tenevano prigioniere per goderne il bel canto. Le donne dei giganti si chiamavano «Fangga»; nelle loro rare leggende, appaiono sempre da sole. Se il marito era un divoratore di bambini, le gigantesse nascondevano il figlio neonato presso contadini, che lo allevavano e lo avviavano al lavoro dei campi. Sul Monte Muta, presso Castel Tirolo di Merano, viveva una famiglia di giganti. Un giorno la figlioletta discese quasi sino a valle e vide in un campo dei nani che lavoravano. Ne prese sei, quelli che più le piacevano, li mise nel grembiulino e tutta contenta li portò al padre… Bimba, bimba mia, che fai?, disse il gigante, scuotendo il capo. Sono contadini di Lagundo, sono ometti utili, molto utili! Rimettili nel grembiulino e riportali giù, dove li hai presi, senza far loro male! I giganti risalgono alla più remota civiltà pagana. Gli antichi tedeschi li chiamavano «risi». Oggi li chiamano «Riese». Estinto il ceppo antico dei giganti robustissimi e ignoranti, sorse la nuova erculea generazione, sempre più influenzata dalla civiltà. I bambini sottratti al padre antropofago ed affidati dalla madre ai contadini e da questi allevati ed educati secondo i tempi, vennero avviati ai grandi lavori di disboscamento e di bonifica dei monti, da trasformare in fertili colture. Fatti adulti, attesero alla costruzione dei castelli; cingevano corazza e spada, portavano sul capo una corona d'oro, esercitavano la magia. La leggenda dei giganti divenne un po’ alla volta quella dei cavalieri. Alcuni nomi leggendari: Jmir, capostipite di una progenie di giganti dei ghiacciai, Canari, Haimo, Haunold, Jochgrim, Jordan, Rax, Rotkröpfl, Schwarzegger, Serles, Starkwölfl, Tirsus, Titsch, Urhanns… e, nelle regioni retoromane, Orco (Ladinia e Trentino), Lorgg (Alta Val Venosta) e Norgg, da cui derivò Nörgelen, i nanetti del vino.
La diffusione del Cristianesimo ebbe una grande influenza sulla trasformazione della leggenda dei giganti primitivi in esseri più evoluti e nel mutamento dei cosiddetti «Wilde», essi pure giganti, in modesti abitatori di capanne, servizievoli verso i contadini, i quali durante la stagione rigida, davan loro di che sfamarsi: buoni con i buoni, vendicativi con i cattivi. Nel Tirolo il popolo non dice «Riese» (gigante), ma conserva ancor oggi il nome antico di «Wilde Mann» cioè «uomo selvaggio». Le leggende altoatesine ricordano ed attribuiscono ai giganti la costruzione delle chiesette di Santa Caterina alla Forcella e di San Virgilio sul Giogo. Poiché i giganti possedevano un martello solo, se lo scambiavano ogni sera, lanciandoselo da una montagna all'altra, al di là della Val d'Adige, in quel di Merano. Il gigante che costruì la chiesetta di Santa Caterina alla Forcella, edificò anche quella di San Giacomo di Lavena (San Genesio). La leggenda attribuisce al gigante della Val Senales la costruzione della chiesetta di San Procolo, a Naturno. Si racconta pure che il gigante portò da Sesto le otto colonne di pietra che sostengono il Duomo di San Candido, in Val Pusteria. Si dice che avesse un appetito formidabile, se è vero che mangiava ogni giorno un vitello e uno staio di fagioli. Tra Funes e Pontives, in località Flitz, i giganti avevano costruito un castello, che abbandonavano durante l'inverno, quando discendevano in valle, presso contadini generosi. Nelle grotte dei monti di Tires furono scoperti resti di mobili, piedi di tavoli, di sedie e di letti, che la fantasia popolare attribuì ai giganti.
I giganti delle Valli Badia e Marebbe sono comunemente chiamati «Salvani» e le loro mogli «Ganne» o «Gane», cari e ancor vivi nella fantasia dei ladini e nella toponomasia locale. Abitavano in comunità nelle grotte del loro «Sasso della Croce», non parlavano mai e si esprimevano emettendo suoni gutturali. I Salvani ricordano il culto pagano di Silvanus, importato dalle legioni e dai colonizzatori romani; le Ganne risalgono alla celtica vergine Ganna, ricordata dall'antico storico romano Dione Cassio (II-III secolo d.C.) come fanciulla divinizzata. Con altri caratteri si avvicinano ai Salvani ed alle Ganne della Ladinia i «Pantegani e le Pantegane» di La Valle, in Badia, i «Vivani e le Vivene» della Val di Fassa, nonché i «Bregostani e le Bregostene», terribili nemici dei valligiani. Figure affini sono pure le «Anguane» del Cadore, dal volto di donna e dai piedi caprini, e le «Agane» del Friuli, che con il loro canto melodioso, attirano gli uomini nelle grotte.
I ladini di tutte le Valli serbano il ricordo dei miti antichi. Le figure create dalla loro ingenua fantasia, popolano ancora rocce, boschi e corsi d'acqua; sono inserite nei racconti e nelle canzoni, e vengono tuttora ricordate, assieme al leggendario «Gran Bracum», nei dipinti esistenti nell'Albergo Cappella di Colfosco e in alcune case avite signorili della Val Badia e di Marebbe
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Le salighe
Altipiano di Verano (BZ)
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Sull'Alpe di Verano, là dove il magro pascolo già dirada il suo verde e le scarse zolle erbose si ornano di qualche solitaria stella alpina, vivevano, una volta, le Salighe. Erano, le Salighe, fanciulle misteriose che abitavano tra rocce e dirupi, entro grotte tappezzate di muschio e di borraccina. La montagna era il loro regno. Salighe, quale strano nome! I vecchi montanari del luogo le chiamavano anche Salighe Fräulein, Salighe Dirnen, ma chi fossero, donde venissero, nessuno lo seppe mai. Amavano, le Salighe, la serena solitudine, i vasti silenzi dell'Alpe e solo di rado esse lasciavano le loro pietrose dimore per scendere fino all'abitato. Erano gentili, affabili, le solitarie fate della montagna, e i montanari le trattavano con grande rispetto e le accoglievano volentieri nelle loro case. E dove esse entravano, entrava la benedizione, il benessere, giacchè le Salighe sapevano ricambiare assai generosamente il dono dell'ospitalità. Così, una di esse, una volta, donò ad una povera donna un pane che non si consumava mai, ed un'altra regalò ad una sua protetta un gomitolo prodigioso, del quale non si vedeva mai la fine. Erano davvero generose, le Salighe, ma guai ad indispettirle; si vendicavano, e come! State a sentire. Viveva a Verano un contadino molto ricco, che aveva il più bel maso del paese, una stalla piena di mucche e campagna in quantità. Le sue terre erano le più belle dell'altipiano, rispettate dal gelo, dalla grandine, dalla siccità, bagnate dalla pioggia a tempo giusto ed in buona misura: una terra benedetta. Bisognava vedere al tempo del raccolto! Staia e staia di grano, d'orzo, di segale si accumulavano nel capace granaio, mentre il fienile a stento poteva contenere le carrate di fieno che giungevano, odorose di timo e di menta, dai prati vicini e lontani. Ma questo non è tutto: sacchi e sacchi di bei talleri d'argento egli possedeva. Un vero tesoro! E il tesoro aumentava, cresceva, perché gli affari del fortunato contadino del maso Egger andavano, come si suol dire, a gonfie vele. Spesso venivano al maso due Salighe. Erano giovani, bionde, leggiadre; con la loro grazia, con il loro bel fare, si erano conquistate ben presto la simpatia della numerosa famiglia del contadino. La padrona, poi, le considerava la benedizione della casa, tanto era il bene ch'esse vi avevano portato. Alla sera, finiti i lavori, le due giovani Salighe si ritiravano in un canto in un canto della «Stube» ed aspettavano che la serva tornasse dalla stalla col latte appena munto. Di latte fresco erano ghiotte le fanciulle e, avide, appressavano le labbra al secchio, bevendo gelosamente il latte ancora tiepido e schiumoso. Una sera, come il solito, finiti i lavori, le due Salighe entrarono nella «Stube». La serva stava scremando il latte e versava la panna nella zangola. Svelte, le due giovinette, portarono alla bocca il recipiente e … glu, glu, glu, presero a sorbire a lunghe sorsate la panna dolce e densa. Com'era buona! Sapeva di tutti gli aromi, di tutti i profumi della montagna. Ancora un sorso, un sorso solo; sembrava che non sapessero più staccarsi dalla zangola, le due ghiottoncelle. D'un tratto sollevarono il capo: sulla soglia, scuro in viso, era apparso il contadino. Di colpo le due fanciulle lasciarono la zangora e strettero mute, con gli occhi fissi a terra, non osando sostenere lo sguardo irato del contadino. «Tutta quella panna, tutta quella panna - dicevano quegli occhi minacciosi - è troppo! Me la pagherete». D'improvviso l'uomo divenne torvo, trasse di tasca un coltello e fece l'atto di scagliarsi sulle inermi creature. Un grido di terrore risuonò nella stanza; per buona sorte il colpo fallì e le due poverine, guadagnata la porta, fuggirono lontane, nella notte. Passò del tempo; al maso Egger qualcosa non andava. Si lavorava come prima, forse più di prima, ma la terra non rendeva più come una volta. Un anno la siccità bruciava il foraggio, un anno la grandine distruggeva il raccolto o la moria decimava il bestiame; non passava stagione che non si dovesse lamentare qualche danno. Gli affari andavano di male in peggio e il mucchio dei bei talleri d'argento scemava, scemava… Tutto andava male al maso Egger. Un po’ alla volta il contadino perdette tutti i suoi beni e si ridusse povero, povero, a vivere d'elemosina. Della primitiva ricchezza non gli rimase che il ricordo, uno struggente ed amaro ricordo che divenne, col tempo, unico compagno della sua triste e stentata esistenza.
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La cintura stregata
Caldaro (BZ)
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Poco sopra Caldaro, quasi a prolungamento di quell'abitato, verso la montagna, sorge Sant'Antonio, un gruppo di case adagiate sul dolce pendio ed esposte alla benefica carezza del sole. Il 13 giugno si celebra, in quel paesello, la festa del Patrono: si impartisce la benedizione ai bambini, e moltissimi devoti, provenienti da tutti i paesi delle valli vicine, vi si recano in pellegrinaggio. Appunto in quel giorno si verificò il fatto straordinario che sto per narrare. In un maso poco fuori di Sant'Antonio, abitava, molti anni fa, una giovane donna, tanto bella quanto misteriosa, che per la sua ineguagliabile liberalità, era da tutti conosciuta ed amata. Eppure, sotto tanta vistosa generosità, si celava l'animo più perfido che si possa immaginare. Molte sventure martoriavano e affliggevano gli abitanti della vallata: ma chi avrebbe potuto immaginare che quei mali erano il funesto prodotto delle arti malefiche di quella donna, in apparenza tanto magnanima e caritatevole? Nel giorno della festa del Patrono, dunque, in un anno imprecisato di quell'epoca lontana, due contadinelle di San Michele Appiano si recarono, come tanti altri fedeli, in pellegrinaggio a Sant'Antonio. Al ritorno, passarono davanti al maso della donna, che si mostrava in sembianze amichevoli, e furono invitate ad entrare e a far merenda con lei. Sulla tavola vennero portati i cibi più squisiti della zona, e le due semplici creature, dopo aver fatto onore alla ricca imbandigione, si alzarono con la mente avvolta da una piacevole ebbrezza e con l'animo disposto a tutte le cortesie. Di questa favorevole disposizione trasse subito profitto la falsa amica, per chiedere alle malcapitate ospiti qualcosa, che in una situazione normale sarebbe apparsa troppo strana. Consegnò loro una cintura di colore sanguigno assai lunga e veramente meravigliosa, affermando che voleva farne dono agli abitanti di San Michele: era un oggetto dotato di straordinarie virtù contro tutti i malanni, sempre che fosse usato come la generosa donatrice avrebbe indicato. Appena giunse al paese, le due ragazze avrebbero dovuto salire sul campanile, senza farsi notare da nessuno, per avvolgere la stupenda cintura intorno alla campagna, che suonava ogni volta che si avvicinava un temporale. La donna insistette molto sul particolare della segretezza: e le due fanciulle, forse per effetto del generoso vino trangugiato, non trovarono straordinaria la cosa: anzi, ringraziarono l'amica, assicurandola che avrebbero fatto puntualmente quanto lei desiderava. Strada facendo, oppresse dal caldo e dal languore prodotto dai fumi del vino, le ragazze sedettero sotto un grande melo, per riposarsi: ma inavvertitamente si addormentarono. Fu un sonno breve, ma sufficiente per fare svanire dalle loro menti la confusione e l'incertezza. Raschiatesi le idee, le misteriose parole della donna tornarono loro in testa con chiarezza: «Appena giunte a San Michele, salite sul campanile, senza farvi notare da nessuno, e con le vostre mani cingete la cintura intorno alla campana. Vi raccomando, però, non fate parola ad anima viva». Perché, dunque, tanto mistero? Si guardarono mute, timorose: poi una di loro trasse la cintura dal sacco in cui era stata riposta e la distese per terra: dalla fascia rossastra si sprigionava un tale sfolgorio, che gli occhi ne erano abbagliati, come quando si tenta di fissare il disco solare. «La nostra campana sarà stupenda, con questo straordinario ornamento!». L'altra taceva pensierosa. «Se provassimo ad avvolgerla intorno a questo melo, per vederne l'effetto?», soggiunse la prima, con voce fioca e piena di trepidazione. Detto fatto. Fu un effetto spaventoso, che riempì di sgomento le due ragazze, spingendole l'una verso l'altra, in un abbraccio disperato. Subito dopo avere avvolto la cintura intorno al tronco, questo, con uno schianto pauroso, si squarciò per tutta la sua lunghezza, come se la lama infuocata di un fulmine lo avesse colpito in pieno. Della cintura non c'era più traccia. Il diabolico oggetto era scomparso con un lampo accecante. Pallide per lo spavento, le due contadinelle si guardarono inorridite, pensando al tragico evento di cui avrebbero potuto essere la causa, sia pure involontaria. Allora corsero disperatamente verso casa, decise a non dir nulla dell'accaduto, per paura della vendetta della strega. Ma il loro pallore, il tremito che ancora le faceva apparire in preda ad un gran turbamento, le parole mozze e incerte che pronunciava finirono col tradirle. E, sotto le domande incalzanti dei familiari, rivelarono infine ogni cosa. La notizia del terribile prodigio passò rapida di bocca in bocca, e in breve ne fu piena tutta la vallata. E allora i valligiani compresero chi era stata l'origine dei loro mali. Subito alcuni di essi, più coraggiosi e decisi degli altri, armatisi di falci e di tridenti, corsero verso il maso della donna infernale, per fare vendetta. Ma una terribile sorpresa li attendeva: entrati, con la furia dell'uragano, nella casa della strega, decisi ad ucciderla, la trovarono ritta in mezzo alla stanza, con gli occhi fiammeggianti e in atto di sfida. Dopo un momento di esitazione, fecero per lanciarsi su di lei: ma la strega, con un urlo agghiaggiante, si tramutò in un gigantesco pipistrello nero, orribile a vedersi, che emetteva dalla bocca fiotti di fuoco e di fumo. Prima che potessero riaversi dallo sgomento, i contadini videro l'immondo animale prendere il volo, e passando attraverso la finestra, allontanarsi nell'aria e scomparire al di là della Mendola, lasciandosi dietro una scia fumosa. Nello stesso tempo dall'interno della casa si sprigionarono grandi vampate di fuoco, che costrinsero i contadini a precipitarsi all'aperto, da dove poterono assistere alla completa distruzione del maso maledetto, di cui non rimase che un mucchio di cenere rossastra. In quello stesso luogo nacque, a quanto si dice, un grande rovo spinoso, dalle aride foglie striate di nero e di rosso, che continuò persistentemente a rinascere e a rigogliare, sebbene fosse stato più volte estirpato fin dalle radici più profonde
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Il Folletto che culla il bambino
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Il Folletto che culla il bambino
Caldaro (BZ)
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A San Rocco, un angolino di terra poco lontano da Caldaro, c'era, una volta, un mulino. Il mulino era vecchio, vecchio, i muri mostravano le nude pietre e il tetto di paglia, annerito dal sole e dalle intemperie, era tutto tappezzato di verdi chiazze di muschio. Ma pur così misera, la casa non era triste. La rallegrava tutta il gaio moto dell'enorme ruota e il gioco sempre nuovo dell'acqua che, cadendo fra le pale, si disperdeva in mille spruzzi vaporosi, in miriadi di goccioline d'argento. Nel mulino abitava un giovane mugnaio. Egli amava la povera casa in cui era nato e vissuto e l'amava ancor più, da quando vi aveva condotto la giovane sposa e vi era nato il suo primo figlio, il biondo e roseo Simml. Dal padre, mugnaio, aveva ereditato la casa, il mestiere e la buona volontà di lavorare. La giornata era sempre troppo breve per lui, tutto preso dal lavoro, tra il familiare rumore delle macine e il candido spolverio della farina. Spesso veniva al mulino uno strano visitatore. Era costui un omino, né vecchio né giovane, piuttosto brutto, con due occhi piccoli, neri, lucenti come capocchie di spillo. Aveva modi simpatici e garbati, era allegro e servizievole. Nessuno sapeva nulla di lui: né come si chiamasse, né donde venisse. Volentieri egli s'intratteneva al mulino, dove trovava sempre il modo di rendersi utile con qualche modesto servizio. Al mugnaio non sembrò vero d'aver trovato tanta perla d'uomo, e, felice, lo accolse come amico in casa sua. Pronto, cortese, l'omino sembrava voler dimostrare con la sua condotta la più viva riconoscenza verso colui che lo ospitava. Si prodigava in mille modi e, dove c'era da dare una mano, non mancava mai. Grande era la sua gioia, quando poteva avvicinarsi alla culla del piccolo Simml: lo vezzeggiava, lo cullava, cantandogli in sordina dolci ninnenanne. Ma un brutto giorno, chissà perché, l'omino mutò umore e comportamento: divenne lunatico, bizzoso, intrattabile e cominciò a far dispetti e cattiverie d'ogni genere. Anche col bimbo non era più quello di prima: lo lasciava piangere e strillare e, quando lo cullava, lo faceva con tanta malgrazia, da rovesciare quasi la culla. Non c'era più pace al mulino. Una volta il mugnaio al colmo dell'esasperazione, rimproverò aspramente l'omino, tentando di metterlo alla porta. Non l'avesse mai fatto! Scattò, il perfido, come un serpentello: con gli occhi foschi di odio, furente d'ira gli si avventò contro lanciandogli in viso un'insultante risata. La sghignazzata orrenda riempì, per un attimo, la casa. Era una sfida? Una minaccia? Il mugnaio comprese che così non poteva durare: la sua famiglia, la sua casa erano in pericolo. Che fare? Senza frapporre indugio, egli si recò dal parroco di Caldaro e al venerando sacerdote espose i suoi crucci e chiese aiuto. Il vecchio parroco capì subito di che si trattava. «Figlio mio - gli disse - a quanto pare, tu hai a che fare con uno di quegli spiriti malvagi, che cercano con ogni mezzo d'introdursi nelle case per molestare e recar danno alla gente. Ma non perderti d'animo - soggiunse l'accorto sacerdote - ora t'insegnerò il modo di ridurre all'impotenza lo spiritello.» «Ascolta: appena tornato a casa, tu affronterai l'omino con queste parole: "Tutti gli spiriti buoni adorano Dio, il Signore. Qual è il tuo desiderio? Parla affinchè ti comprenda!".» «Si calmo e deciso - concluse il parroco, congelando il giovane - e tutto andrà per il meglio!». Rinfrancato, di buon umore, il mugnaio s'avvio verso San Rocco. Lungo il cammino, cento volte fece e rifece i suoi piani di battaglia: come, quando, avrebbe affrontato l'astuto folletto? L'ansia di arrivare presto gli faceva divorare la strada. Il sentiero s'internava fra campi e vigneti; qua e là al piano e sul pendio qualche maso. Più lontano, accovacciato tra il verde, gli apparve presto il caro, vecchio mulino. Raggiunse la casa di corsa. «Eccomi arrivato» - disse tra sé l'uomo ansante e trafelato. Aprì la porta della «Stube» e si arrestò sulla soglia. Là, nel solito angolo, col viso aggrondato, lo sguardo cattivo, l'omino stava cullando il bambino. Le piccole mani adunche spingevano forte, sempre più forte la fragile culla. La zana oscillava, pencolava or di qua or di là; ancora una spinta, una spinta sola e si sarebbe rovesciata. Tremò il mugnaio per la vita del suo piccino e, sconvolto dall'ira, si slanciò addosso al folletto, urlandogli sul viso le poche parole che, nell'agitazione del momento, ancora ricordava… «parla forte ch'io ti comprenda!». L'omino, stretto nella morsa di quelle due mani che lo stritolavano, si dibatteva, urlava furiosamente. D'un tratto riuscì a liberarsi dalla stretta e ratto come il fulmine infilò la porta di casa. E il mugnaio dietro … Ma buon per lui che s'arrestò sotto la gronda: guai se avesse oltrepassato quel termine! Il folletto l'avrebbe trascinato lontano, lontano e crudelmente dilaniato. Ma là, sotto la protettrice ala del tetto, il mugnaio era al sicuro da ogni maleficio. Fuggì lontano il folletto, né più tornò a turbare la serena pace del mulino.
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