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Spina, la città sommersa
Comacchio (FE)

Nella zona a nord-ovest di Comacchio, e precisamente dove ancora in gran parte il terreno è paludoso, si estendeva più di 2000 anni fa Spina, una città floridissima.
Sorgeva sul mare, le sue case poggiavano sulle palafitte e aveva un porto attivissimo e ogni giorno arrivavano dall'Oriente navi cariche di mercanzie. Era così bella e ricca che a quei tempi nessuno avrebbe potuto sospettare che un giorno sarebbe sparita dalla faccia della terra. Ma Spina giorno per giorno scompariva, interrata dal fango che il Po portava dalle montagne, finchè una terribile alluvione la sommerse completamente. Da allora i secoli passarono, e anche il nome di Spina cadde nel buio del tempo, finchè non fu più che un ricordo. I suoi fondatori furono forse i Pelasgi venuti dalla Grecia o forse i Galli o forse ancora gli Etruschi, calati dagli Appennini in cerca di terra da coltivare. Certo è che la città vide la luce circa sette od otto secoli a.C.

Nel 1922, durante un'opera di bonifica, vennero prosciugate le valli minori attorno a Comacchio. I lavori ebbero inizio nella Val Trebba, proprio all'estremo limite orientale della Provincia di Ferrara. Ed ecco affiorare i primi resti della città antica. Gli scavi, fatti poco dopo, portarono alla scoperta di oltre 1200 tombe, nelle quali gli operai trovarono anfore, vasi di ceramica, braccialetti, anelli, oggetti finemente lavorati che gli Etruschi, ed i popoli che li precedettero, usavano porre nei sepolcri dei loro cari. Sorse così il Museo di Spina ed il prezioso materiale venne ordinato nelle ariose sale del Palazzo di Lodovico il Moro, in Ferrara. I lavori vennero ripresi dopo la guerra e precisamente nel 1940 sotto la direzione del giovane archeologo professor Nereo Alfieri, il quale scoprì nella Valle Pega una nuova necropoli, più grande della prima. Nei giorni che seguirono, sorvolando la zona, il professor Alfieri riuscì ad individuare la pianta della città come l'avevano descritta gli storici grechi e romani.


La madonna del Piratello
La madonna del Piratello
Imola (BO)

Alcuni pellegrini erano partiti da Cremona alla volta del Santuario di Loreto. A piedi, di città in città, avevano già oltrepassato Bologna, quando uno di essi, il vecchio Mangelli, si ammalò.
Pochi giorni dopo riprese da solo il cammino: era debole ancora e camminava a fatica.
Attraversò il Torrente Sellustra, ingrossato dalle recenti piogge, e si diresse verso Imola. C'era lì, presso la strada, un piccolo pero (piratello), che sembrava proteggere un rustico pilastro, sul quale era l'immagine della Madonna.
Era il 27 marzo dell'anno 1483.
Il vecchio pellegrino si sentiva talmente stanco che si sdraiò ai piedi dell'albero per riposarsi un poco. Solo, sfinito e lontano da casa, disperava ormai di poter proseguire il suo viaggio. Allora, piangendo, invocò l'aiuto della Vergine.
Oh, meraviglia! Alzò gli occhi e, fra le lacrime, vide davanti a sé la Madonna bella e illuminata da una luce celestiale.
- Vai, - gli disse - presentati al vescovo e al governatore di Imola e dì loro che voglio essere particolarmente venerata in questo luogo.
E sparve. Ma il povero vecchio era miracolosamente guarito e potè riprendere, con infinita gioia, il suo viaggio.


Il Passo dell'Abbadessa
Ozzano dell'Emilia (BO)

Intorno all'anno 1110 esisteva, a poca distanza dal Passo dell'Abbadessa, un breve passo alto appena 200 metri, ma suggestivo per visioni alpestri, burroni e paurose gole, il Monastero di Settefonti.
In questo eremo, assieme ad altre religiose, viveva Lucia, bellissima nobildonna bolognese, appartenente alla famiglia Clari. Lucia si era votata a Dio, e trascorreva i suoi giorni pregando. Non chiedeva altro che di vivere nella luce divina.
Ma un giorno passò di lì un giovane cavaliere mandato a presidiare, con un manipolo di soldati, un ponte presso Ozzano. Vista Lucia intenta a pregare, il cavaliere se ne innamorò. Da allora egli ogni giorno tornava fin lassù per rivederla. Né freddo, né pioggia, né bufere di neve arrestavano il giovane. D'inverno il ghiaccio rendeva pericoloso il cammino, lungo il Passo dell'Abbadessa; tuttavia, puntualmente, ogni mattina, il cavaliere raggiungeva la chiesa, solo per vedere Lucia pregare.
Turbata e sconvolta da tanta insistenza, la suora si ammalò. Per due mesi rimase chiusa nella sua cella. Quando in primavera finalmente si alzò e per la prima volta ridiscese in chiesa, il nobile cavaliere era lì ad attenderla, puntuale e costante.
Allora lo fece chiamare e gli parlò:
- Ho fatto voto a Dio della mia vita e mai potrò essere vostra moglie - gli disse. - Perché continuate a venire quassù?
Il mio pensiero troppo spesso è rivolto a voi, mi fate vivere nel peccato e nel rimorso. Se non ve ne andrete per sempre, sarò costretta a rinchiudermi in cella, finchè morrò. Partite; andate più lontano che potete. Prendete la croce e andate a combattere dove è sepolto Colui che per noi tutti soffrì e morì. Io pregherò per voi.
Il cavaliere che le voleva veramente bene, ubbidì. Partì per la Crociata, combattè in Terra Santa contro i Munsulmani, finchè, ferito gravemente, fu preso, incatenato e chiuso in un oscuro carcere.
Due anni durò la prigionia. Una notte, egli ebbe una meravigliosa visione. La cella s'illuminò a giorno e Lucia gli apparve tutta avvolta in una nuvola risplendente.
- Sono due anni che ci siamo lasciati, - disse. - Io sono morta, subito dopo la vostra partenza, ossessionata dal rimorso di avervi spinto sul campo di battaglia. Ma ora, dal Paradiso dei Beati, dove mi è stato concesso di salire, ho tanto pregato il Signore, perché la vostra schiavitù avesse finalmente termine. Domattina vi sveglierete presso il Monastero di Settefonti. Lì è la mia tomba: deponetevi sopra le vostre catene e vivete in pace la vostra vita.
Detto ciò scomparve. Il cavaliere fu subito colto da un profondissimo sonno e si sentì come trasportare in alto, in alto…
Quando si svegliò, si trovò per davvero al Passo dell'Abbadessa, presso il Monastero, libero e lontano dall'orribile carcere. Entrò allora nella chiesetta, si inginocchiò sulla tomba di Lucia e rimase a lungo così, a pregare. Quindi si alzò, uscì e da quel momento nessuno seppe più nulla di lui.
Anni e anni passarono; secoli, addirittura! E fu Gregorio XIII che il 7 novembre 1573 fece trasportare il corpo della Beata Lucia nella chiesetta di Sant'Andrea d'Ozzano, dove ancora si trova, con le catene del cavaliere appese all'altare.
Il Monastero di Settefonti, il castello di Ozzano dove viveva il cavaliere in presidio, e la chiesina dove Lucia pregava sono del tutto scomparsi.
Rimangono solo delle polle d'acqua. Si dice che Lucia vi si recasse a rinfrescarsi gli occhi che le bruciavano per il gran piangere. E i fedeli usano, ora, fare altrettanto, durante le loro passeggiate al Passo, con la convinzione, forse, di preservare gli occhi da ogni malattia.


Il Liquido Miracoloso di Beatrice d'Este
Il Liquido Miracoloso di Beatrice d'Este
Ferrara (FE)

Il Convento di Sant'Antonio in Polesine, abitato dalle Monache Benedettine a partire dal 1297, custodisce le spoglie di Beatrice d’Este. Dalla pietra tombale dove era originariamente custodita la salma (ora spostata), continua a formarsi un liquido, che le suore raccolgono in ampolle, a cui i credenti attribuiscono proprietà miracolose. All’interno sono visibili pregevoli affreschi di scuola trecentesca.

L'Ostia che sprizzò Sangue
L'Ostia che sprizzò Sangue
Ferrara (FE)

Santa Maria in Vado è uno dei luoghi di culto più antichi e venerati di Ferrara, legato al miracolo avvenuto il giorno di Pasqua del 1171.
L’Ostia, durante la celebrazione della Santa Messa, sprizzò sangue producendo macchie (ancora visibili) sulla volta della Cappella. Da allora la Chiesa è sacra al culto del ‘Preziosissimo sangue’. All’interno pregevoli opere del Filippi, Bononi e Scarsellino.


La leggenda del Ponte Gobbo
Bobbio (PC)

San Colombano stava procedendo alacremente alla costruzione della sua Abbazia, allorchè fu preso dal desiderio di costruire anche un ponte sul Fiume Trebbia, ma la sua realizzazione, in contemporanea alla costruzione della chiesa, era piuttosto problematica.
Un giorno il Santo stava meditando all'ombra di una grossa quercia, allorchè gli si presentò davanti il diavolo in persona che si dichiarò disposto a costruire il ponte la notte stessa, a patto che fosse sua l'anima del primo essere vivente che vi passasse sopra.
San Colombano accettò senza esitare.
Al crepuscolo il diavolo era già all'opera a trasportare massi dal monte al letto del fiume. Il tempo era poco e bisognava far molto presto. Alle prime luci dell'alba il ponte si poteva dire finito. Però, per la troppa fretta ed il poco tempo, esso era riuscito tutto gobbo e storto, ma comunque il ponte era lì, e molto solido. Ed il diavolo dall'altra parte già stava appostato, pronto a ghernire l'anima del primo passante.
San Colombano vi fece passare per primo un cane. Così il diavolo, l'anima di un cristiano non l'ebbe mai.
Ancor oggi il ponte, oltre che «gobbo» è detto «Ponte del diavolo».


Il Sandalo di San Giovanni Evangelista
Il Sandalo di San Giovanni Evangelista
Ravenna (RA)

Sull portale della Basilica di San Giovanni Evangelista, distrutto durante i bombardamenti dell'ultima guerra, era raffigurata, in marmo, la leggenda del sandalo:
Una notte Galla Placidia e San Barbiziano pregavano nella chiesa, appena costruita, quando furono colti dal sonno. Ed ecco che a Barbiziano subito apparve, in sogno, un vecchio tutto vestito di bianco che reggeva un incensiere d'oro e benediceva l'altare. Barbiziano si destò e, con suo stupore, si accorse che la visione rimaneva. Svegliò, allora, Galla Placida e tutt'e due si prostrarono in adorazione davanti al vecchio, convinti che si trattasse dell'apostolo Giovanni.
Ma quando, poco dopo, levarono gli occhi, la visione era scomparsa. Di essa, sul pavimento davanti all'altare, era però rimasto qualcosa: un sandalo.


Galla Placidia e la Tempesta
Galla Placidia e la Tempesta
Ravenna (RA)

Il mosaico dell'abside della chiesa di San Giovanni Evangelista, fatta edificare a Ravenna nel secolo V da Galla Placidia, sorella dell'imperatore Onorio, raffigurava una nave che, guidata in mezzo alla tempesta da San Giovanni Evangelista, trasportava la stessa Galla Placidia e i suoi figli Valentiniano III ed Onoria verso Ravenna. Ecco da cosa ebbe origine quella strana raffigurazione:
Nel 424, mentre Galla Placidia tornava da Costantinopoli a Ravenna per assumere, in seguito alla morte del fratello Onorio, la reggenza in favore del figlio Valentiniano III, la nave fu sorpresa da una tremenda burrasca. Per qualche tempo ella fece animo ai naviganti, poi, cresciuta la tempesta e visto ormai imminente il pericolo di calare a fondo, Galla Placidia, abbracciati i due figlioli, si gettò in ginocchio sul ponte, levò gli occhi al cielo e supplicò Giovanni Evangelista, poiché era stato pescatore e aveva conosciuto le più furiose tempeste e promise di innalzare a Ravenna in suo onore una Basilica meravigliosa. Inginocchiati intorno a Galla Placidia, tutti pregavano con lei e quasi d'improvviso, il vento cadde, il mare si inquietò e la nave arrivò sana e salva in Italia. Giunta a Ravenna, Placidia sciolse il voto, facendo erigere al Santo la bellissima chiesa.
Il mosaico raffigurante la tempesta andò poi distrutto nel secolo XVI.


Molti pesci e… un mulo
Molti pesci e… un mulo
Rimini (RN)

A Rimini, Sant'Antonio da Padova compì due dei suoi più significativi miracoli.
Più di sette secoli or sono a Rimini era capitato un umile fraticello, che si era messo nelle piazze e per le vie a predicare la bontà, il perdono e la pace. Ma era un predicare al vento, perché a Rimini, come del resto in ogni parte d'Italia a quell'epoca, ciò che soprattutto interessava ed agitava gli uomini era la politica, erano il guadagno e i divertimenti.
Che cosa fece allora il fraticello, visto che nessuno lo ascoltava?
Se ne andò sulle sponde del vicino Fiume Marecchia, e lì mise a predicare ai pesci che accorsero per sentire la predica. Tenendo il muso fuor d'acqua, essi se ne stettero lì per un bel pezzo ad ascoltare il fraticello.
Figurati come rimasero i Riminesi, allorchè la notizia del prodigio si diffuse per la città! Fu un accorrere da ogni parte e, finalmente, il fraticello fu ascoltato anche dagli uomini.
Si racconta, inoltre, che per convertire del tutto gli abitanti della città, il fraticello persuase ad inginocchiarsi davanti all'Ostia consacrata nientemeno che… un mulo. Di fronte a questo nuovo miracolo, i Riminesi non ebbero più dubbi e, pieni di vergogna, si prostrarono a loro volta davanti all'Ostia sacra.
A ricordo di questo secondo miracolo venne eretto nel 1556 il tempietto di Sant'Antonio.


Il Lago Santo modenese
Pievepelago (MO)

Secoli e secoli or sono, un re malvagio valicò lunghe catene di monti per venire a conquistare una città. Già altre città, già altri paesi e villaggi egli aveva conquistato o distrutto, senza che la sua cattiveria fosse stata punita.
Questa volta, però, si trattava di una città che non meritava d'essere asservita, perché i suoi abitanti l'avevano edificata con amore, l'avevano resa ricca, bella, fiorente.
Allorché essi si accorsero del pericolo che stavano correndo, per notti e per giorni si misero a scavare un enorme vallone di dove, ben nascosti e protetti, al momento opportuno avrebbero potuto scacciare il nemico con una pioggia di frecce.

Venuto a conoscenza della cosa, il re chiamò il ministro e gli impose di trovare un rimedio alla situazione. Fu così che il ministro corse alla grotta del gigante e di laggiù, microscopico e tremante, gridò:
- Ehi, tu! Che cosa chiedi in cambio, per darci una mano?
- Quindici paia di buoi! -, rispose il gigante che dal suo antro seguiva e vedeva ogni cosa. - Trenta mucche …
E intanto si stropicciava beato le mani, pensando che, con poca fatica, avrebbe avuto da mangiare e da bere per tutto l'inverno. Ed eccolo al lavoro. Distese le braccia, lunghe dodici miglia ciascuna, roteò le mani grandi come paesi, e, afferrata a caso una montagna per il cocuzzolo, se la pose sulla testa e s'incamminò per raggiungere il punto giusto di dove, scagliandola, avrebbe in un batter d'occhi seppellito città e cittadini. Ma che cosa avvenne, a un tratto? Avvenne questo: miliardi di formicuzze piccine e tenaci accorsero da ogni dove e cominciarono a scavare con tutte le loro energie la montagna che il gigante si portava sulla testa. Scava e scava, ben presto esse l'attraversarono da un capo all'altro. Così il gigante, prima di raggiungere la propria meta, si ritrovò con la testa infilata nella galleria scavata dalle formiche e con la montagna tutta intorno al collo come… un collarino.
Ma che terribile collarino! Strozzato a quel modo, che poteva fare il povero gigante? Urlava, e le sue urla si perdevano in un gorgoglio. Cercava di scrollarsi di dosso la montagna, ma più scrollava e più essa gli si assestava intorno al collo…
Sbuffava e smaniava, ma tutti i suoi movimenti non producevano che un lieve rotolio di sassi e di terriccio… Era la fine. A poco a poco, infatti, le forze gli mancarono ed egli morì.
Intanto si era messo a piovere. Una pioggia abbondante, continua che scrosciava dilagando per la campagna e per il vallone, dividendo inesorabilmente la città dai suoi nemici.
Piovve giorno e notte, per più giorni e più notti. Ormai la città era salva e i cittadini potevano guardare con gioioso sollievo quella pioggia benedetta che li aveva liberati dal pericolo.
Così, quando tornò il sole, raggiunto il luogo in cui il gigante era crollato, tutti videro che la pioggia aveva riempito fino all'orlo anche il buco scavato dalle brave formicuzze nella montagna, formando un grazioso laghetto.
A ricordo di quel gesto di bontà, lo chiamarono Lago Santo


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