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La chiesa di S.Frediano a Lucca
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La Deviazione del Serchio
Lucca (LU)
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Frediano, giunto pellegrino in Italia dall'Irlanda, si stabilì come eremita nei pressi di Lucca. Egli raccolse presto attorno a sé chierici e sacerdoti con l'aiuto dei quali eresse la chiesa dei Santi Martino e Vincenzo, che oggi porta il suo nome. Eletto vescovo intorno al 560, egli compì il suo miracolo più celebre, che cementò il legame con la città: la deviazione del corso del Serchio e la conseguente bonifica della campagna lucchese. Secondo la leggenda, Frediano tracciò con un rastrello il nuovo corso del fiume, sul quale, per via prodigiosa, si incanalarono immediatamente le acque. Sarebbe morto a Lucca il 18 marzo del 588.
La fama di santità di Frediano e, in particolare, il miracolo del Serchio gli valsero sin dal tardo sec. VI una venerazione molto intensa, come apprendiamo da un passo dei "Dialogi" di Gregorio Magno; nel pieno Medioevo il culto fu promosso in particolare dalle congregazioni canonicali facenti capo alla basilica a lui intitolata in Lucca.
La devozione radicata nella vita religiosa lucchese è testimoniata dalle numerose chiese a lui intitolate nell'ambito dell'antica diocesi, e trova espressione nella festa celebrata in città il 18 novembre, a memoria di una traslazione del corpo nella basilica di San Frediano.
San Frediano è rappresentato in abiti vescovili, spesso con l'attributo del rastrello, a ricordo dello strumento usato per deviare il corso del Serchio.
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Le reliquie dei Re Magi
Milano (MI)
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I milanesi per secoli chiamarono i tre Re Magi Eleuterio, Rustico e Dionigio. La loro storia è avvolta nel mistero: si dice che probabilmente non fossero nemmeno re, ma solo degli uomini molto ricchi. Neppure si conosce da quale paese d’Oriente venissero esattamente; di sicuro morirono in Persia, martiri della fede e i loro corpi furono sepolti in un’unica tomba, all’inizio del IV secolo, a Costantinopoli. "Una leggenda racconta che le loro reliquie furono custodite nella basilica di Sant’Eustorgio dal IV al XII secolo.
Fu Eustorgio a riceverle in dono dall’imperatore Costantino nel 325, quando si recò nella capitale dell’impero d’Oriente per ricevere la consacrazione a Vescovo di Milano. Le spoglie furono trasportate fino a Milano in un sarcofago molto pesante, lo stesso che ancora oggi vediamo nella basilica di S. Eustorgio con la scritta "Sepulchrum Trium Magorum" . Quando i viandanti arrivarono in città, la fatica rese impossibile trasportare oltre Porta Ticinese il ponderoso sarcofago; allora Eustorgio, saggiamente, ordinò che in quel luogo venisse costruita la basilica dei Re Magi, dove vennero deposte le sacre reliquie. "Lì rimasero fino al XII secolo, finché non furono rubate. Era il giorno il 10 giugno 1164, dopo la famigerata distruzione della città ordinata da Federico Barbarossa. Le spoglie trafugate furono portate a Colonia e deposte con grande solennità in un’urna d’argento intarsiata, nella chiesa di San Pietro. Ma i Milanesi non si rassegnarono mai alla perdita del sacro tesoro, tanto più che consideravano le ossa dei Magi miracolose contro i mali e i sortilegi. Fu Ludovico il Moro a chiederne per primo la restituzione nel 1494, e coinvolse nell’impresa anche Papa Alessandro VI, senza però ottenere nulla; neppure re Filippo di Spagna, Pio IV, Gregorio XIII e Federico Borromeo riuscirono ad avere soddisfazione. "Solo il Cardinal Ferrari, nel 1903, riuscì ad ottenere in restituzione qualche ossicino, che tuttora è custodito dentro un piccolo scrigno, posto in una cavità della parete, sopra l’altare dei Magi nella basilica di S. Eustorgio.
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I Gigli di Nola
Nola (NA)
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Le origini della Festa dei Gigli si ritrovano in un racconto di Papa Gregorio Magno. Nel 410 d.C. i Goti di Alarico arrivano a Nola dopo aver già saccheggiato Roma. Depredano la città e deportano in Africa i migliori giovani per farne schiavi. Il Vescovo Paolino, nominato proprio l'anno precedente alla Cattedra Episcopale nolana, decide di offrire se stesso e i beni della sua chiesa in cambio dei nolani rapiti. Naturalmente fu subito accettata la proposta, ma oltre che deportare in Africa Paolino, non desistettero a farlo con tutti gli altri. Già distrutta e derubata, la città fu, dunque, anche beffata e privata del suo amato protettore e la popolazione calata nel più profondo sconforto. Ma Paolino era persona di grandi doti: giunto in Africa come schiavo, stupì i suoi rapitori con le sue azioni, allo stesso tempo, umane e miracolose: protettivo nei confronti degli altri deportati, umile nei confronti dei tiranni, ebbe il dono di portare ovunque pace e serenità e di trasformare in terreno fertilissimo l'arido deserto. I suoi rapitori, riconosciuta la grandezza del personaggio, decisero di liberarlo con tutti i suoi compagni e di riaccompagnarli in patria con grandi onoreficenze. L'intera popolazione accorse in massa sulle coste ad accogliere la nave del Vescovo, organizzando un enorme corteo in cui ognuno portava quel poco che gli era rimasto, in segno di gioia e ringraziamento: i frutti del proprio lavoro, gli stessi attrezzi usati per produrlo ma soprattutto fiori e ceri accesi (cilii, in dialetto, da qui l'origine del nome gigli). Da quel momento, ogni anno il ritorno del Vescovo fu rievocato con grandi festeggiamenti durante i quali la barca di Paolino veniva accolta in un grande corteo in cui sfilavano ceri e torce sempre più grandi, fino a trasformarsi, nei secoli, nella Festa dei Gigli che oggi conosciamo.
: www.giglidinola.tv
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La leggenda del Ponte Gobbo
Bobbio (PC)
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San Colombano stava procedendo alacremente alla costruzione della sua Abbazia, allorchè fu preso dal desiderio di costruire anche un ponte sul Fiume Trebbia, ma la sua realizzazione, in contemporanea alla costruzione della chiesa, era piuttosto problematica. Un giorno il Santo stava meditando all'ombra di una grossa quercia, allorchè gli si presentò davanti il diavolo in persona che si dichiarò disposto a costruire il ponte la notte stessa, a patto che fosse sua l'anima del primo essere vivente che vi passasse sopra. San Colombano accettò senza esitare. Al crepuscolo il diavolo era già all'opera a trasportare massi dal monte al letto del fiume. Il tempo era poco e bisognava far molto presto. Alle prime luci dell'alba il ponte si poteva dire finito. Però, per la troppa fretta ed il poco tempo, esso era riuscito tutto gobbo e storto, ma comunque il ponte era lì, e molto solido. Ed il diavolo dall'altra parte già stava appostato, pronto a ghernire l'anima del primo passante. San Colombano vi fece passare per primo un cane. Così il diavolo, l'anima di un cristiano non l'ebbe mai. Ancor oggi il ponte, oltre che «gobbo» è detto «Ponte del diavolo».
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Il "Volto Santo" e Il Santuario dove è custodito.
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Il Volto Santo di Manoppello
Manoppello (PE)
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Nel 1638 i cappuccini vengono in possesso di una misteriosa reliquia.
P. Donato da Bomba, nel 1640, scrive una "Relazione Istorica", conservata nell'archivio provinciale di cappuccini de L'Aquila. In essa viene narrato come il Volto Santo sia giunto a Manoppello portato da un misterioso pellegrino a Donat'Antonio Leonelli che lo conserva fino al 1608, preso con forza da Pancrazio Petrucci, venduto a Giacom’Antonio De Fabritiis e da questi donata ai cappuccini. (il testo completo della “Relatione Historica è consultabile nel sito).
Il convento dei cappuccini viene fondato, dal 1618 al 1620, proprio negli anni in cui Giacom'Antonio De Fabritiis faceva porre il sacro velo tra i due vetri. La chiesa viene dedicata a S. Michele Arcangelo. In questa chiesa viene esposto alla venerazione del popolo il Volto Santo il 6 Aprile 1646.
Per circa quarant'anni non fu oggetto di culto pubblico, ma custodito quasi privatamente in una nicchia a lato destro dell'altare maggiore. Solo nel 1686 viene costruita nel lato sinistro della chiesa una piccola cappella con un altare ove si trasloca la sacra reliquia e viene introdotta la festa liturgica del 6 agosto, giorno della Trasfigurazione del Signore.
Un evento negativo porta ad un forte incremento del culto al Volto Santo. Il 1700 inizia con un lustro di forti terremoti che scuotono incessantemente l'Umbria, l'Abruzzo e il Sannio. P. Bonifacio da Ascoli dal 1703 espone più volte il Volto Santo alla pubblica venerazione. Si comincia a pensare ad una processione che porti il sacro velo all'interno delle mura, il che ha inizio nel 1712, la seconda domenica di Maggio.
La processione pone un problema di sicurezza. Per proteggere meglio il sacro velo, P. Bonifacio di Ascoli nel 1703 vuol cambiare i vetri, così pure, nel 1714, P. Antonio da Poschiano, oltre i vetri, vuol impreziosire il tutto con una cornice in argento. In ambedue i casi, separati i vetri, l'immagine di Cristo svanisce, tornando a risplendere solo quando tutto viene riportato allo stato preesistente.
Nel 1750, per evitare la coincidenza con la festa di S. Giustino, patrono di Chieti, la processione viene posticipata alla terza domenica di Maggio, data che resterà fino ad oggi.
* voltosanto@tiscali.it
: www.voltosanto.it
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Il Sandalo di San Giovanni Evangelista
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Il Sandalo di San Giovanni Evangelista
Ravenna (RA)
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Sull portale della Basilica di San Giovanni Evangelista, distrutto durante i bombardamenti dell'ultima guerra, era raffigurata, in marmo, la leggenda del sandalo: Una notte Galla Placidia e San Barbiziano pregavano nella chiesa, appena costruita, quando furono colti dal sonno. Ed ecco che a Barbiziano subito apparve, in sogno, un vecchio tutto vestito di bianco che reggeva un incensiere d'oro e benediceva l'altare. Barbiziano si destò e, con suo stupore, si accorse che la visione rimaneva. Svegliò, allora, Galla Placida e tutt'e due si prostrarono in adorazione davanti al vecchio, convinti che si trattasse dell'apostolo Giovanni. Ma quando, poco dopo, levarono gli occhi, la visione era scomparsa. Di essa, sul pavimento davanti all'altare, era però rimasto qualcosa: un sandalo.
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Galla Placidia e la Tempesta
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Galla Placidia e la Tempesta
Ravenna (RA)
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Il mosaico dell'abside della chiesa di San Giovanni Evangelista, fatta edificare a Ravenna nel secolo V da Galla Placidia, sorella dell'imperatore Onorio, raffigurava una nave che, guidata in mezzo alla tempesta da San Giovanni Evangelista, trasportava la stessa Galla Placidia e i suoi figli Valentiniano III ed Onoria verso Ravenna. Ecco da cosa ebbe origine quella strana raffigurazione: Nel 424, mentre Galla Placidia tornava da Costantinopoli a Ravenna per assumere, in seguito alla morte del fratello Onorio, la reggenza in favore del figlio Valentiniano III, la nave fu sorpresa da una tremenda burrasca. Per qualche tempo ella fece animo ai naviganti, poi, cresciuta la tempesta e visto ormai imminente il pericolo di calare a fondo, Galla Placidia, abbracciati i due figlioli, si gettò in ginocchio sul ponte, levò gli occhi al cielo e supplicò Giovanni Evangelista, poiché era stato pescatore e aveva conosciuto le più furiose tempeste e promise di innalzare a Ravenna in suo onore una Basilica meravigliosa. Inginocchiati intorno a Galla Placidia, tutti pregavano con lei e quasi d'improvviso, il vento cadde, il mare si inquietò e la nave arrivò sana e salva in Italia. Giunta a Ravenna, Placidia sciolse il voto, facendo erigere al Santo la bellissima chiesa. Il mosaico raffigurante la tempesta andò poi distrutto nel secolo XVI.
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Molti pesci e… un mulo
Rimini (RN)
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A Rimini, Sant'Antonio da Padova compì due dei suoi più significativi miracoli. Più di sette secoli or sono a Rimini era capitato un umile fraticello, che si era messo nelle piazze e per le vie a predicare la bontà, il perdono e la pace. Ma era un predicare al vento, perché a Rimini, come del resto in ogni parte d'Italia a quell'epoca, ciò che soprattutto interessava ed agitava gli uomini era la politica, erano il guadagno e i divertimenti. Che cosa fece allora il fraticello, visto che nessuno lo ascoltava? Se ne andò sulle sponde del vicino Fiume Marecchia, e lì mise a predicare ai pesci che accorsero per sentire la predica. Tenendo il muso fuor d'acqua, essi se ne stettero lì per un bel pezzo ad ascoltare il fraticello. Figurati come rimasero i Riminesi, allorchè la notizia del prodigio si diffuse per la città! Fu un accorrere da ogni parte e, finalmente, il fraticello fu ascoltato anche dagli uomini. Si racconta, inoltre, che per convertire del tutto gli abitanti della città, il fraticello persuase ad inginocchiarsi davanti all'Ostia consacrata nientemeno che… un mulo. Di fronte a questo nuovo miracolo, i Riminesi non ebbero più dubbi e, pieni di vergogna, si prostrarono a loro volta davanti all'Ostia sacra. A ricordo di questo secondo miracolo venne eretto nel 1556 il tempietto di Sant'Antonio.
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La Spada nella Roccia di San Galgano
San Galgano - Chiusdino (SI)
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Nel XII secolo, presso Chiusdino, in un austero castello viveva un giovanotto di nome Galgano, della nobile famiglia dei Guidotti, i cui passatempi erano tirar di spada, cavalcare e corteggiare belle donzelle. Si racconta che un giorno gli apparisse l'Arcangelo Michele e da allora rinunziò al mondo, e sul Monte Siepi scagliò contro una roccia la propria spada, che vi si conficcò miracolosamente. Attorno alla spada nella roccia fu eretta la chiesetta rotondaIn seguito nella sottostante valle della Merse fu costruita una grande abbazia circestense detta, in suo onore, di San Galgano, che divenne un rinomato centro di studi e di economia di tutto il territorio circostante. Nel XVI secolo, per varie ragioni, l’abbazia venne abbandonata tanto che oggi ne rimane solo uno scheletro di pietre con il cielo per tetto.
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Il Dito di San Gimignano
San Gimignano (SI)
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Un chierichetto di Colle Val d'Elsa che era presente a Modena alle solenni esequie del Vescovo Gimignano, le cui spoglie furono riposte nella Cattedrale della città, vide che il Vescovo defunto aveva al dito un meraviglioso anello, e così tentò di rubarlo, sfilandolo, ma con l'anello venne via l'intero dito. Spaventato e pentito, il ragazzo fuggì da Modena, tenendosi nascosta addosso la refurtiva, o meglio la reliquia. Tornò verso la sua città, in Toscana, e si fermò nella chiesa di una località non lontana da Colle, chiedendo con la preghiera il perdono divino per il gesto compiuto. Quando volle uscire dalla chiesa, si accorse che le porte erano misteriosamente serrate. Disperato, chiese aiuto, e confessò tutta la storia. Consegnò la reliquia ai religiosi della chiesa, e soltanto allora poté riprendere più leggero la via del ritorno a casa. Il dito del Vescovo di Modena restò così in quella località, che da allora avrebbe preso il nome di San Gimignano.
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Stampa XVII secolo
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L'Orso ammansito di San Romedio
San Romedio in Val di Non (TN)
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Romedio, ormai vecchio e stanco, desidera incontrare l'amico Vigilio, vescovo di Trento. Manda il suo giovane discepolo Davide a preparare il cavallo. Davide va, ma vede un orso affamato che sbrana il cavallo. Saputa la cosa, Romedio dice a Davide: "Non aver paura! Metti le briglie all'orso. Lui mi farà da cavallo!". Il discepolo timoroso si avvicina alla belva feroce, ma con sua grande sorpresa l'orso mansueto si lascia mettere le briglie. A testa bassa, quasi a chiedergli perdono per aver mangiato il cavallo, l'orso va da Romedio e questi lo accarezza, gli monta in groppa e, compiendo prodigi, va a Trento accolto con festa dal vescovo e da tutta la città.
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"Miracolo del SS. Sacramento" (particolare) Bartolomeo Caravoglia Basilica del Corpus Domini a Torino
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Miracolo del SS. Sacramento
Torino (TO)
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Il 16 giugno 1453, verso le cinque del pomeriggio, avvenne a Torino il celebre "miracolo del. SS. Sacramento". Nell'alta Val Susa, presso Exilles, le truppe di Renato d'Angiò si scontrarono con le milizie del duca Lodovico di Savoia. Qui i soldati si abbandonarono al saccheggio del paese ed alcuni penetrarono anche in chiesa.
Uno di loro, sacrilego, forzò la porticina del tabernacolo e rubò l'ostensorio con l'Ostia consacrata. Avvolse tutta la refurtiva dentro un sacco e, a dorso di un mulo, passando per Susa e Rivoli, scese a Torino. Sulla piazza maggiore, presso la chiesa di S.Silvestro ora dello Spirito Santo, sul luogo dove si eresse poi la chiesa del Corpus Domini, il giumento incespicò e cadde. Ecco allora aprirsi il sacco e l'ostensorio con l'Ostia consacrata elevarsi al di sopra delle case circostanti tra lo stupore della gente. Fra i testimoni c'era un certo don Bartolomeo Coccono, il quale corse a dar notizia al Vescovo Lodovico dei Marchesi di Romagnano. Il Vescovo, accompagnato da un corteo di clero e di popolo, si portò in piazza si prostrò in adorazione e pregò con le parole dei discepoli di Emmaus: «Resta con noi, Signore». Nel frattempo si era verificato un nuovo prodigio: l'ostensorio era caduto a terra, lasciando libera e splendente, come un secondo sole, l'ostia consacrata. Il Vescovo che teneva in mano un calice, lo alzò verso l'alto e lentamente l'Ostia consacrata cominciò a ridiscendere, posandosi dentro il calice. In processione ci si recò verso la vicina chiesa Cattedrale dove il Vescovo benedisse il popolo ringraziando Dio di questo prodigio eucaristico che poi meritò a Torino il titolo di "Città del SS. Sacramento". Quasi a metà della navata della Basilica del Corpus Domini, circondato da una cancellata in ferro, si trova il punto esatto in cui cadde il mulo che portava l'Ostia del Miracolo. Nella Settimana Santa, il recinto interno (racchiudente la famosa pietra) viene adibito a "Santo Sepolcro" ed addobbato sontuosamente.
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Il sacro telo di lino
Il Volto dell'Uomo della Sindone e il suo Negativo Fotografico
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La Sacra Sindone
Torino (TO)
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E’ una tela di lino spigato, cioè tessuto a spina di pesce che misura 4,36 metri di lunghezza e 1,10 metri di larghezza. Reca chiare le impronte di un corpo che si dice di Cristo con i segni delle ferite e delle piaghe.
Viene esposta al pubblico in rare circostanze e la devozione e gli studi di cui è oggetto sono documentati nel Museo della Sindone (Via S.Domenico, 28). Vi sono esposte le insegne e i cimeli della confraternita; il cofanetto in cui venne trasportata la Sindone da Chambery a Torino, monete e medaglie commemorative, una sezione scientifica raccoglie i risultati delle ricerche sul lino. Dopo varie, tormentose vicende la reliquia fu ceduta nel 1453 da Margherita di Charny ad Anna di Lusignano, consorte di Ludovico I, secondo duca di Savoia. Da allora fu custodita a Chambery. Nel 1506 Papa Giulio II permette il culto liturgico e pubblico della reliquia. In seguito ad un incendio della cappella di Chambery il sacro lenzuolo rischia di essere distrutto. Viene dunque trasportato a Vercelli, poi a Nizza, poi a Milano e nel 1578 viene trasportata a Torino e da allora è rimasta sempre nella città piemontese, ora custodita nel Duomo di S.Giovanni, nella cappella della S.Sindone, appositamente sistemata dall'architetto Guarini.
* info@sindone.org
: www.sindone.org
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Il Miracolo del Sangue di Bolsena
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Il Miracolo del Sangue di Bolsena
Bolsena (VT) e Orvieto (TR)
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Nel 1264, l'avvenimento che fece decidere papa Urbano IV ad istituire per la Chiesa universale la Festa del Corpus Domini, fu il miracolo eucaristico di Bolsena.
In quell'anno, sotto il papato di Urbano IV, che al momento tiene corte ad Orvieto, un giovane sacerdote tedesco, Pietro da Praga, percorre a tappe la Via Cassia, diretto a Roma.
Ha il cuore pieno di dubbi, di incertezze teologiche sul fatto, asserito dalla Chiesa che, nell'atto dell'Eucaristia l'ostia ed il vino si trasformino veramente nel Corpo e nel Sangue di Cristo. Pietro crede invece che la celebrazione del mistero eucaristico abbia soltanto significato spirituale e allusivo e compie il lungo viaggio a Roma anche per cercare di placare la sua angoscia interiore.
Arrivato a Bolsena, dove vivissima è la memoria di S. Cristina, e vi fa tappa. Prega a lungo davanti all'altare della piccola Santa, poi, la mattina seguente celebra la Messa nella stessa chiesa, prima di rimettersi in cammino.
Giunto alla Consacrazione, dall'ostia spezzata sgorga il sangue che impregna il corporale del sacerdote, gli arredi del culto e anche alcune lastre di marmo del pavimento.
Si grida al miracolo; l'emozione è grandissima; la notizia si diffonde fulmineamente per tutta la cristianità. Papa Urbano IV, in seguito all'evento, mandò immediatamente una commissione d'indagine che prelevò tutte le testimonianze e le condusse ad Orvieto; anzi, il Papa stesso andò incontro alla processione solenne e prese in custodia le reliquie, che vennero così conservate, quasi tutte, ad Orvieto; a Bolsena rimasero custodite le Sacre pietre, macchiate di Sangue, e l'altare legato al ricordo del miracolo.
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Il Cervino visto da Cervinia
Gargantua ( Honoré Daumier - 1832)
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Gargantua e la nascita del Cervino
Monte Cervino (AO)
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Gargantua era un gigante buono che era arrivato a Valtournenche dopo aver viaggiato in tutto il mondo. Convinto di aver trovato il paradiso, per la bellezza del paesaggio e la tranquillità che regnava in quella vallata, decise di rimanervi.
Il gigante era stato accolto con affetto dagli abitanti e li ricambiava aiutandoli a svolgere alcuni lavori che per loro erano faticosissimi, mentre a lui non richiedevano alcuno sforzo. Con una sola mano egli era in grado di deviare il corso di un torrente o di raccogliere in un baleno un intero raccolto di fieno. La gente, sapendo che egli amava la calma, cercava di non disturbarlo troppo, ma talvolta i bambini chiedevano di poter salire sulle sue mani, mentre altri volevano che narrasse le sue innumerevoli avventure.
Lui con gioia, raccontava di tempeste incredibili e terre lontane. Talvolta, mentre ricordava i suoi viaggi, riaffiorava in lui il desiderio di conoscere cose nuove e vedere altri luoghi. Un giorno, in preda ad una crescente curiosità decise di scoprire cosa c'era al di là delle grandi montagne che circondavano la valle. All'alba partì per arrivare in cima alle vette. Gargantua faceva attenzione a non rovinare con i suoi passi i campi dei suoi amici e ben presto arrivò ai piedi dei ghiacciai. Quando cercò di salire sul ghiacciaio, a causa del suo peso, dopo qualche passo fece cadere la roccia e tutta la montagna crollò. Solo una piramide di ghiaccio riuscì a salvarsi perché si trovava tra le gambe divaricate di Gargantua. Quella montagna che svettava solitaria in cielo regalava uno scenario mozzafiato, più bello di quello precedente. Quel giorno il gigante aveva fatto nascere il Cervino.
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L'origine del lago di Caldaro
Caldaro sulla strada del vino (BZ)
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Il Signore lascia talvolta il suo splendente trono di stelle per scendere sulla terra e, rivestito di poveri panni, s'avvia per le numerose strade del mondo. Il suo viso è dolce ed umile e i suoi occhi riflettono un'infinita bontà. Passa per le nostre rumorose città, per i nostri tranquilli viaggi. A volte sosta per via, per rivolgere la parola a qualche passante che incontra sul suo cammino. Troppo spesso questi non ode, o finge di non udire la voce che lo chiama: ha fretta, troppa fretta e si allontana indifferente. Talvolta il celeste Viandante sosta davanti ad una casa: bussa ed attende pazientemente che qualcuno l'inviti ad entrare, ma troppo spesso quella porta rimane chiusa, ostinatamente chiusa. Col viso triste, accorato egli riprende, allora, il suo cammino alla ricerca di altri uomini a cui rivolgere la sua parola di amicizia, in cerca di altre case in cui portare il dono della sua bontà. Così, un giorno, il Signore giunse alla terra di Caldaro. La terra era bella, fiorente. Stanco, affaticato per il lungo cammino, egli si diresse verso il maso Klughammer. La casa era solida, massiccia, di bella fattura e testimoniava chiaramente del benessere della famiglia che vi abitava. Infatti, il padrone del maso, il «Bauer», era assai ricco; possedeva campi, vigneti, prati e pascoli al piano e al monte; i suoi granai erano ricolmi di grano e le sue stalle di armenti. Malgrado le sue grandi ricchezze, quel contadino era il più povero tra i poveri, perché era avaro. Mai un soldo egli aveva tolto dalle sue casse per donarlo ad un mendico, mai un pane egli aveva levato dalla sua dispensa, per donarlo ad un affamato. Alla porta del maso Klughammer venne, dunque, a bussare il Signore. Gli aprì il padrone stesso. Si trovarono di fronte, l'uomo dal cuore di pietra e il Viandante dagli occhi luminosi, pieni di bontà. «Che vuoi?» chiese con voce aspra il contadino. «Un pezzo di pane ed un sorso d'acqua; ho fame e la gola mi brucia per l'arsura» rispose il forestiero, con voce supplichevole. E già la contadina impietosita, stava per porgergli quanto chiedeva, quando l'uomo, con voce dura e cattiva, proruppe: «Non c'è pane in casa mia, per i vagabondi, e di acqua Dio ne manda tanto poca!… Vattene». Il Viandante chinò il capo in silenzio e si allontanò dirigendosi verso i boschi della Mendola. Qui egli sostò, in cerca di un rifugio. I maestosi abeti inchinarono le cime al passaggio del loro Creatore. Solo, inginocchiato sulla nuda terra, pregò e diede sfogo al suo cuore traboccante di amarezza. Pianse per la cattiveria, per la durezza di quell'uomo e di tutti gli uomini che, chiusi nel loro freddo egoismo, non avevano voluto accogliere il suo invito alla bontà, alla generosità, all'amore. Lacrime cocenti inondavano il volto santo. Caddero, come rugiada, tra i sassi, fra l'erbe, inzupparono il terreno; a poco a poco si raccolsero insieme e formarono una piccola sorgente. Questa andò rapidamente ingrossando e diede origine ad un torrente. Scorrevano, scrosciando, fra massi e dirupi le sue acque; all'improvviso si gonfiarono, ribollendo tutte di schiuma, e, superate le sponde, precipitarono a valle. Con furia paurosa, la fiumara tutto travolse ciò che incontrò sul suo cammino: campi, vigneti, prati, case… E dove prima regnava la ricchezza, il benessere, lasciò desolazione e rovina. Il maso Klughammer fu risparmiato in tanta devastazione (ed esiste tutt'oggi), ma i prati, i vigneti, i campi rigogliosi furono devastati e sommersi dalle acque. Così il contadino superbo ed avaro divenne povero, povero fra tanti altri poveri. Acqua, si, ce n'era molta, ora: una limpida discesa verd'azzurra ricopriva quelle campagne un tempo rigogliose di fiori, di messi, di frutti. Nacque così, secondo la leggenda, il lago di Caldaro.
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Le Piramidi del Renon
Renon (BZ)
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A Longomoso viveva, una volta, un ricco contadino, che aveva un unico figlio di nome Franz. Il contadino era uomo dabbene, onesto e laborioso. Il figlio era tutto il contrario; scioperato, dissipatore, aveva in dispregio la religione e le cose sante. Insensibile ed arido di cuore, a nulla servivano gli accorati ammonimenti del padre, né lo commovevano le silenziose lacrime materne. Contadino, figlio di contadini, non sentiva l'amore alla terra, quell'amore, quell'attaccamento, che converte in gioia il pur duro e faticoso lavoro dei campi. Di rado, infatti, lo si vedeva con la zappa, con la vanga, con la falce in mano; a questi strumenti, Franz preferiva i birilli, il mazzo delle carte da giuoco, il bicchiere di vino all'osteria in compagnia di amici scioperati e perditempo pari suoi. Ma venne un giorno che tutti questi spassi gli vennero in uggia; bisognava cercare qualche altro modo di divertirsi, qualcosa di nuovo e, dopo averci pensato, decise di andare in giro per il mondo. Avrebbe viaggiato per terra e per mare, avrebbe visto terre nuove, città splendide dove avrebbe potuto, finalmente, divertirsi a suo agio. E il denaro? Egli non ne aveva, perché non aveva mai pensato a guadagnarselo e lo chiese al vecchio padre, che dovette dar fondo a tutti i suoi risparmi per accontentarlo. Franz partì Partì incurante di tutto e di tutti, con il sacco nuovo in spalla, il cappello spavaldamente calcato sulla nuca; partì senza voltarsi indietro, senza mandare un ultimo cenno di saluto alla madre, che lo seguiva col pianto negli occhi dalla soglia di casa. Franz viaggiò, andò lontano, ma neppure nei viaggi trovò quello che cercava, ed insoddisfatto fece ritorno alla casa paterna, dove i genitori lo accolsero a braccia aperte. Dispiaceri, dolori, angustie erano scomparsi; il figlio, il loro amato figlio, era tornato nella grande casa, che sembrava così vuota senza di lui. Ma Franz era quello di prima e come prima tornò a dividere i suoi giorni fra i birilli, le carte da gioco, gli amici e l'osteria. Fu appunto mentre stava seduto ad un tavolo dell'osteria, che un giorno udì parlare delle streghe del Pirchboden. Qualcuno raccontò che a mezzanotte in punto, nelle notti di plenilunio, le megere si radunavano nella vasta radura, dove ballavano e facevano ogni sorta di stregonerie. Nessuno s'era mai spinto fin lassù? Qualcuno si, qualche pazzo temerario che, però, non aveva più fatto ritorno. Eh, con le streghe non c'era da scherzare! Esse non ammettevano testimoni ai loro convegni. Il discorso era caduto lì, ma l'idea di un'audace avventura piacque a Franz. Egli se ne rideva delle streghe e dei loro sortilegi, che diamine! Così una notte di plenilunio s'avviò verso il Pirchboden. Bianca, sotto la luna, si stendeva la radura; qua e là qualche solitaria betulla dalla chioma d'argento stormiva lievemente nel silenzio incantato della notte. Franz si acquattò prudentemente dietro un masso che stava al margine della spianata ed attese. Doveva essere quasi mezzanotte. D'un tratto l'aria fu percorsa da sibili, da fischi; volando nell'aria, a cavallo di scope e bastoni, giungevano le streghe da ogni parte dell'orizzonte. Franz cominciò a tremare come una foglia di betulla. Che sarebbe successo ora? Le streghe iniziarono una furiosa sarabanda accompagnata da strida e suoni laceranti. Sembrava che l'orribile spettacolo non dovesse avere più fine. All'improvviso le streghe avvertirono la presenza dell'estraneo; tutte insieme urlando e schiamazzando mossero verso il nascondiglio dove Franz stava raggomitolato più morto che vivo. Lo trassero fuori, trionfanti, le megere e lo invitarono a ballare con loro. Fu giocoforza seguirle e il povero Franz fu trascinato senza posa in quella ridda frenetica. Quanto durò l'orribile tregenda? Improvvisamente la luna scomparve e il buio più nero sommerse la prateria. Più alte, più stridule si levarono allora le grida delle streghe, poi cessarono d'incanto e un silenzio cupo e sinistro gravò su tutte le cose. Nell'aria corse un funesto presagio; lo avvertirono per primi gli animali della foresta che già dormivano al sicuro entro i loro nidi, le loro tane. Che stava per accadere nella solitaria radura? Il vecchio picchio verde si ritirò prudentemente nel cavo dell'albero dove alloggiava indisturbato da molte stagioni, lo scoiattolo si rannicchiò tutto nel suo pensile nido, fra i rami più alti dell'abete e mamma volpe ricacciò in fondo alla tana i volpacchiotti tremanti e spauriti. Preannunciato da saettanti bagliori che sembravano incendiare il cielo, si scatenò l'uragano. Piovve, tuonò, lampeggiò tutta la notte. La furia infernale della bufera squassò e sconvolse la radura. Finalmente spuntò l'alba e tornò il sereno. Che avvenne a Franz e delle streghe nella terribile notte? Sorpresi dalla bufera, né Franz né le streghe riuscirono a mettersi in salvo; rimasero là dove si trovavano, ritti ed immobili, trasformati in grige piramidi di terra e di pietra. Così vuole la leggenda. Sorgono a decine le strane piramidi lungo i fianchi scoscesi del monte, là verso la valle, dove un giorno si stendeva il verde Pirchboden. Portano tutte sulla sommità un masso tondeggiante, che di lontano le fa sembrare gigantesche figure umane. E così, infatti, appaiono tutt'oggi al viandante che, in cerca di silenzio e di poesia, percorre il sentiero che da Longomoso porta al ridente villaggio di Montedimezzo
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Chi sono i nanetti del vino
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Chi sono i nanetti del vino
Val d'Adige (BZ)
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Un giorno, così narrano gli antichi libri, giunsero nella nostra terra, con gran seguito di servi, i figli di Noè. Si accamparono ai margini della Val d'Adige che era, allora, deserta e selvaggia, sciolsero i cavalli e scaricarono dai pesanti carri numerosi otri di pelle caprina pieni di vino, che avevano recato con sé dalla loro patria lontana. Quella terra incolta, ma tutta aperta ai caldi venti del sud, piacque ai figli di Noè. Quello era il luogo ch'essi cercavano, qui certamente avrebbe prosperato la prodigiosa pianta dal frutto dolcissimo: la vite. Un giorno, dopo aver vagato lungo al piano, i forestieri raggiunsero le prime alture dove abitavano i nani, certi omini piccini e barbuti, che vivevano coltivando poche spanne di terra strappate alla sterpaglia ed allevando qualche po’ di bestiame: bovini grandi come pecore e pecore non più grandi degli agnellini appena nati. Sorpresi, meravigliati ed anche un po’ intimoriti, i nanetti mossero incontro agli stranieri con mille inchini e profondi salamelecchi. «Chi potevano essere mai, quegli uomini alti e forti?» si chiedevano fra loro i nani «che cosa volevano da loro? E che portavano in quegli strani e rigonfi recipienti di pelle?». Queste ed altre mille domande si facevano i nani, sempre più incuriositi, guardando incantati quei bruni giganti venuti da chissà dove, mandati chissà da chi. Risero divertiti gli uomini venuti di lontano all'ingenua e fanciullesca curiosità dei nani e, dopo averli tranquillizzati, aprirono un otre. Dalla stretta bocca sgorgò spumeggiando e gorgogliando un liquore rosso come il rubino dal profumo delicatamente frizzante. Allegri, gli uomini riempirono alla fragrante onda i rozzi bicchieri di legno e bevvero. Bevvero anche i nanetti e, più bevevano, più si sentivano diventare gai, spensierati, felici. Si fecero arditi, allora, gli uomini e chiesero agli stranieri donde venisse quella preziosa bevanda. I forestieri si scambiarono un'occhiata d'intesa, sorsero misteriosamente poi, colui che sembrava essere il maggiore della brigata, prese a dire: «Cortesi amici, il liquore che ora avete gustato è il vino. Esso si ricava dal frutto d'una pianta - la vite - che cresce nei nostri lontani paesi. Fu Noè, nostro padre, a svelare le segrete e mirabili virtù del succo della vite. Se voi voleste…» continuò l'uomo traendo da un fascio un mazzo di barbatelle, «ecco i robusti virgulti della vite. Li affideremo alla terra; ella li custodirà, li nutrirà, le piantine cresceranno, si vestiranno di pampini e, alla loro stagione, matureranno copiosi grappoli d'uva più dolce del dolcissimo miele». «La vostra terra», soggiunse l'uomo abbracciando con lo sguardo il piano e il colle, «diventerà fiorente e ricca: un giardino». Ascoltavano attenti i nani, annuendo lievemente col capo, poi il più anziano di loro disse:«Illustre straniero, non dubitiamo delle tue parole e siamo pronti a stringere con voi un patto. Ascolta: sarà vostra buona parte di questa terra, noi ci ritireremo più in alto, verso il monte. In cambio, che vi chiediamo? Oh, non molto, pochi otri di questo buon vino!». Una stretta di mano suggellò il patto. I nani con le loro greggi presero la via del monte, mentre i nuovi venuti si stabilivano lungo il pendio chiamato, oggi, Leitach (Costa). Subito gli uomini si misero al lavoro, lottarono a sangue con la macchia selvaggia e prepotente, sradicarono pruni, divelsero sterpi, liberarono il suolo dal pietrame. La vergine terra accolse i robusti virgulti della vite, le piante crebbero, fruttificarono meravigliosamente. Gli stranieri non avevano mentito: quella terra divenne, veramente un giardino. E il vino? Il vino era buono, tanto buono, che i solerti coltivatori pensarono di farne avere un otre anche al vecchio Noè. Era vero Leitacher, limpido, generoso! Lo gustò, beato, il gran Vegliardo, e subito decise di mettersi in viaggio per vedere la terra felice da cui proveniva quel vino. E così, un bel giorno, Noè raggiunse i figli. Voleva vedere con i suoi occhi quello che avevano saputo fare! E vide i fiorenti vigneti digradanti lungo il pendio ed, orgoglioso, lodò l'operosità e la tenacia dei figli. «Per voi» egli disse scorrendo lentamente con lo sguardo le pendici del colle «per voi l'umile e preziosa pianta ha trovato in questo paese ottima dimora. Ma altra terra attende di essere riscattata dal vostro lavoro: la vite, l'umile, la generosa vite vi compenserà d'ogni fatica». Ben presto far tesoro delle parole del padre quei figli laboriosi, ed instancabili si dettero a dissodare altra terra lungo la vallata. E volta e rivolta la zolla, e zappa e scava… Coll'andar degli anni i colli, che incoronano la conca ove ora sorge Bolzano, si ricoprono di vigneti ubertosi e la terra, redenta dal lavoro umano, celebrò la sua festa più bella. Ma via via che la vite conquistava le alture, il regno dei nani arretrava e si faceva sempre più piccolo ed angusto. Ma essi non se ne adontavano: gli stranieri erano sempre stati buoni e leali con loro e mai avevano fatto loro mancare il dolce liquore, che accende il fuoco nelle vene e dona al cuore gaiezza ed allegria. E i nani non chiedevano di più. Passarono molti e molti anni (nei libri antichi non è scritto quanti), genti armate invasero la valle, con le armi cacciarono dalla loro terra i pacifici viticoltori, abbatterono, bruciarono le viti. Fiamme alte, paurose divamparono di colle in colle per giorni e giorni. Quando il fuoco cessò, dei rigogliosi vigneti non rimaneva che cenere, una cenere bianca e fine che il vento sollevava e disperdeva lontano. E i conquistatori regnarono su quella devastazione. Che avvenne dei nani? Oh, i nani erano al sicuro e si guardavano bene dallo scendere al piano, chè l'aria che vi spirava non era poi tanto buona neppure per loro. Ai primi invasori altri ne seguirono; questi cacciarono quelli e ne occuparono le loro terre. Col tempo, i nuovi conquistatori abbandonarono i loro feroci costumi, le armi e la guerra ed appresero a dedicarsi al duro, ma pacifico lavoro nei campi. La fatica, il sudore fecondarono le zolle e la terra miracolosamente rifiorì. Fu una seconda primavera. Anche la vite, l'antica vite riapparve sui colli solatii col verde dei suoi pampini e la pompa dei suoi turgidi grappoli. «Gli uomini sono ridiventati saggi e buoni», andavano dicendo fra loro i nani, guardando giù verso la valle «si è ripreso a lavorare la terra e la terra fruttifica. Buon segno!». E, rassicurati, i nani scesero al piano per chiedere ospitalità ai nuovi abitanti. I nani furono bene accolti, fu ritrovato il patto dell'antica amicizia e gli uomini non ebbero a pentirsene: infatti, i generosi nanetti, in mille modi cercavano di rendersi utili ai loro amici, aiutandoli, sovvenendoli in ogni loro bisogno e necessità. E a sera, dopo il lavoro, uomini e nani amavano raccogliersi attorno ad un capace boccale di buon vino. Era frizzante «Leitacher?» Era biondo «Terlaner» dai chiari riflessi dell'oro fino? Il boccale passava di bocca in bocca: frizzi, gaie risate scoppiettavano qua e là fra un sorso e l'altro. Ma i più allegri erano i nani, che divertivano tutti con i loro scherzi e le loro buffe pantomime. Ma gli uomini crebbero di numero. Al piano e sul pendio, dove più ferace era la terra e mite il clima, sorsero borghi e villaggi. Gli abitanti si fecero duri, avidi di terra e di beni e, nella brama insaziabile di possedere, dimenticarono gli antichi patti. Offesi e delusi, i nani ripresero tristemente la via del ritorno verso il monte, ma non dimenticarono la bella terra. Presi dalla nostalgia, talvolta scendevano al piano, ma di rado e solo di notte. E c'è chi dice che ancor oggi, al tempo della vendemmia, i nani riappaiano nei vigneti. Nelle notti di luna scendono silenziosi dai monti e, cauti, s'aggirano tra i filari, sotto le viti, spigolando, piluccando, golosi, un acino qua, uno là. Di tanto in tanto sostano, fiutando l'aria che tutt'intorno odora di mosto e di vino nuovo. Si danno la voce l'un l'altro, allora, i nanetti e, audaci, s'avvicinano alle case, scivolano lesti nelle cantine. Eccoli là, a piccoli balzi si accostano alle botti, aprono impazienti lo zipolo e bevono. Bevono allegri i piccoli nani, il capo riverso, la barba scomposta e nel momento felice, dimenticano l'egoismo e l'ingratitudine degli uomini. S'accontentano di poco gli omini della montagna: un po’ di calore, un po’ d'allegria… poi in silenzio lasciano le cantine per riprendere, nella notte, la solitaria via dei monti
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Il «Lago di Santa Colomba»
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Il «Lago di Santa Colomba»
Val d'Adige e di Trento (BZ)
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L'origine dei laghi alpini ha sempre qualcosa di misterioso. Gli azzurri specchi d'acqua, formatisi nel corso dei millenni, attraverso una seria indefinibile di mutamenti geofisici, rappresentavano per le popolazioni primitive, ingenue e prive di cognizioni scientifiche, autentici prodigi, e davano luogo a narrazioni fantastiche dapprima di contenuto interamente pagano, quindi modificate e nobilitate da elementi della pristina tradizione cristiana. Spesso le leggende si identificano, o presentano fra loro sensibili analogie, con le sole variazioni determinate dalla diversità dei nomi e dalle singolari caratteristiche dei luoghi. Un notevole parallelismo si nota fra le leggende «lacustri» del Trentino e quelle dell'Alto Adige. Le prime sono contrassegnate da un carattere più religioso, che ha riscontro negli stessi nomi dei laghi: «Lago santo» di Cembra, «Lago santo» di Monte Terlago, «Lago santo» del Monte Zeledria e Lago di San Giuliano, ambedue nella Valle Rendena, Lago di Santa Massenza di Vezzano, Lago di Santa Maria di Tret, nella Val di Non, Lago di San Mauro sull'Altipiano di Pinè, Lago di San Pellegrino al passo omonimo, Lago di San Martino di Roncegno (ora scomparso), Lago di Sanspirito di Tuenno (scomparso), Lago di Santa Giustina in Val di Non (artificiale), e, infine, il «lago di Santa Colomba», sul Monte Calisio (Argentario), presso Trento. L'origine di questo lago - la cui leggenda presenta notevoli analogie con quella del Lago di Caldaro - viene qui richiamata, anche se appartiene al ciclo delle leggende trentine, per un motivo, per così dire, sentimentale. Il capostipite dei Merci trentini, lasciata circa sette secoli fa la natia Grezzana, in Val Pantena (Verona), si trasferì appunto a Trento, per andare a lavorare nelle miniere del Monte Argentario (che i minatori tedeschi chiamavano Kalisberg e gli italiani Calisio). La famiglia Merci ha infatti, ancor oggi, i suoi rami principali nel territorio di Vigo Meano e di Montevaccino, frazioni di Trento, sparse sulle pendici del Monte Calisio. Col trascorrere degli anni il cognome Merci subì due corruzioni, forse dovute ad imperfetta trascrizione nei registri anagrafici da parte di personale di altra lingua: Mersi e Merzi.
Sul versante nord-orientale del Monte Argentario, con un orizzonte fatto solo di verde e di cielo, giace, a 922 m.s.m, il tranquillo, romantico «Lago di Santa Colomba», chiamato anche «Lago Santo», da quando venne esorcizzato contro gli spettri e gli spiriti maligni che lo popolavano. Si narra che un giorno lontano, mentre un pastorello conduceva al pascolo il gregge, vide un globo luminoso che saliva sempre più in alto. La bolla di fuoco, che mandava un bagliore accecante, si fermò per un attimo nel cielo, poi precipitò d'improvviso, scomparendo nello stesso luogo donde prima si era levata. Avvicinatosi, pieno di stupore e di sgomento, il pastorello scorse un foro profondo, tondeggiante. Tornato a casa, il ragazzo si affrettò a raccontare quanto aveva visto ai suoi familiari che non gli badarono, pensando che si fosse trattato di una allucinazione. Ma il prodigio tornò a ripetersi. Allora il pastorello decise di scrutare più a fondo il mistero. Un giorno si fermò accanto al foro in cui si celava il globo luminoso, e attese. Ad un tratto, ecco apparire un omiciattolo, con un cappuccio scarlatto e una tonaca che gli giungeva sino ai piedi. Aveva una barba lunga e fluente … Allo spaventato pastorello spiegò che egli era uno dei «nani metalliferi», fedeli guardiani dei tesori nascosti nel cuore delle montagne. Il globo luminoso indica ai preferiti dai nani il punto in cui debbono scavare, per trovare il migliore e più abbondante metallo. Ma i fortunati minatori non debbono dimenticare l'amore per il prossimo e la carità: guai se dovessero obliarli; la loro ricchezza se ne andrebbe in fumo! Detto ciò, il nano sparì. Il pastorello avvertì la sua famiglia del fatto prodigioso, e subito tutti si misero a scavare come forsennati nel punto in cui era apparso il globo di fuoco. In breve, raggiunsero i filoni più abbondanti della miniera, da cui trassero grandi quantità di argento. Col passare del tempo, i poveri pastori divennero ricchissimi proprietari; giunsero minatori dai paesi vicini, i «canopi» e i «silbrari» (dal tedesco Bergknappen, minatori e Silber, argento) crebbero di numero, sorsero interi villaggi; al benessere succedette il dispendio; i costumi si rilassarono, la prepotenza, la cattiveria e l'egoismo prevalsero. Agli uomini semplici di un tempo - il pastorello e i suoi familiari erano ormai scomparsi -, subentrò la dissolutezza e l'avidità del denaro. Una sera giunse un vecchietto, povero in canna e malato. Chiese ospitalità, ma nessuno gliela concesse. Tremante dal freddo, il pellegrino si rifugiò, infine, nella misera capanna di un'umile vecchietta, che lo accolse di buon grado e gli dette un tozzo di pane e un giaciglio. Durante la notte scoppiò un pauroso temporale: pareva il giudizio universale. Poi si susseguirono violente scosse di terremoto sotto un cielo da apocalisse. Le case cominciarono a crollare, si udivano dappertutto grida strazianti di morte. Quasi tutti i minatori perirono, solo pochi scamparono alla morte con la fuga. Si aprirono le cateratte del cielo e venne giù il diluvio. Al mattino non c'era più traccia di vita umana: un vasto lago, il «Lago Santo» del Monte Argentario, aveva sommerso ogni cosa. Il nano del globo di fuoco aveva attuato la sua terribile minaccia. Nei mattini più sereni, sul fondo del lago una gran croce scintilla ai raggi riflessi del sole. E' la croce della chiesa del paese sommerso: tra le rovine la fantasia popolare scorge i canopi, che tengono in mano gli strumenti del lavoro e cercano disperatamente, ma invano, di fuggire
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Il Lago Santo modenese
Pievepelago (MO)
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Secoli e secoli or sono, un re malvagio valicò lunghe catene di monti per venire a conquistare una città. Già altre città, già altri paesi e villaggi egli aveva conquistato o distrutto, senza che la sua cattiveria fosse stata punita. Questa volta, però, si trattava di una città che non meritava d'essere asservita, perché i suoi abitanti l'avevano edificata con amore, l'avevano resa ricca, bella, fiorente. Allorché essi si accorsero del pericolo che stavano correndo, per notti e per giorni si misero a scavare un enorme vallone di dove, ben nascosti e protetti, al momento opportuno avrebbero potuto scacciare il nemico con una pioggia di frecce.
Venuto a conoscenza della cosa, il re chiamò il ministro e gli impose di trovare un rimedio alla situazione. Fu così che il ministro corse alla grotta del gigante e di laggiù, microscopico e tremante, gridò: - Ehi, tu! Che cosa chiedi in cambio, per darci una mano? - Quindici paia di buoi! -, rispose il gigante che dal suo antro seguiva e vedeva ogni cosa. - Trenta mucche … E intanto si stropicciava beato le mani, pensando che, con poca fatica, avrebbe avuto da mangiare e da bere per tutto l'inverno. Ed eccolo al lavoro. Distese le braccia, lunghe dodici miglia ciascuna, roteò le mani grandi come paesi, e, afferrata a caso una montagna per il cocuzzolo, se la pose sulla testa e s'incamminò per raggiungere il punto giusto di dove, scagliandola, avrebbe in un batter d'occhi seppellito città e cittadini. Ma che cosa avvenne, a un tratto? Avvenne questo: miliardi di formicuzze piccine e tenaci accorsero da ogni dove e cominciarono a scavare con tutte le loro energie la montagna che il gigante si portava sulla testa. Scava e scava, ben presto esse l'attraversarono da un capo all'altro. Così il gigante, prima di raggiungere la propria meta, si ritrovò con la testa infilata nella galleria scavata dalle formiche e con la montagna tutta intorno al collo come… un collarino. Ma che terribile collarino! Strozzato a quel modo, che poteva fare il povero gigante? Urlava, e le sue urla si perdevano in un gorgoglio. Cercava di scrollarsi di dosso la montagna, ma più scrollava e più essa gli si assestava intorno al collo… Sbuffava e smaniava, ma tutti i suoi movimenti non producevano che un lieve rotolio di sassi e di terriccio… Era la fine. A poco a poco, infatti, le forze gli mancarono ed egli morì. Intanto si era messo a piovere. Una pioggia abbondante, continua che scrosciava dilagando per la campagna e per il vallone, dividendo inesorabilmente la città dai suoi nemici. Piovve giorno e notte, per più giorni e più notti. Ormai la città era salva e i cittadini potevano guardare con gioioso sollievo quella pioggia benedetta che li aveva liberati dal pericolo. Così, quando tornò il sole, raggiunto il luogo in cui il gigante era crollato, tutti videro che la pioggia aveva riempito fino all'orlo anche il buco scavato dalle brave formicuzze nella montagna, formando un grazioso laghetto. A ricordo di quel gesto di bontà, lo chiamarono Lago Santo
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I «Giganti» delle alpi altoatesine nella Leggenda
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I «Giganti» delle alpi altoatesine nella Leggenda
Provincia di Bolzano
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Le leggende dei giganti nacquero insieme con quelle delle gentili Salighe. E mentre queste contrassegnano il periodo aureo dell'ingenuità e dell'innocenza, le leggende dei giganti ricordano tempi duri, difficili, in cui dominavano la violenza, l'odio, la persecuzione dell'uomo, delle Salighe e degli Elfi. I giganti erano creature mostruose, di statura enorme, simbolo della forza bruta. Presi dalla furia, scagliavano rocce grandi come case da una montagna all'altra, al di là della valle. Si trovano infatti un po’ ovunque dei massi chiamati per tradizione «Pietra (o Sasso) del Gigante» e talvolta essi recano ancora impresse le orme dei piedi e delle mani del gigante che li scaraventò. La fantasia popolare ritiene i giganti ottusi di mente, di animo rude, maligni, brutali e vendicativi, propensi all'inganno e all'ira. Il corpo del gigante era coperto di fitto pellame grigioverde, tanto da sembrare rivestito di «barba di bosco». Dalla schiena, ruvida come una roccia, pendeva un mantello di pelle d'orso, tenuto chiuso da bottoni di ammoniti o da conchiglie, che, urtandosi tra loro producevano un suono gradito al gigante, quand'egli camminava, ma che era però anche un segnale d'allarme per i pastori e per i contadini, che si mettevano al sicuro. Era l'epoca in cui i giganti mangiavano gli uomini, preferibilmente i bambini, compresi i propri figli. Il collo del gigante era corto e robustissimo come quello del toro; la sua testa era grossa, la barba setolosa. Gli occhi sporgenti rotavano come dischi incandescenti, quand'era arrabbiato. E arrabbiato il gigante lo era sempre. La sua voce era cavernosa, profonda: sembrava, quando parlava, il brontolio del temporale o il fragore d'una cascata d'acqua. Il suo urlo faceva crollare le valanghe di neve e le pareti rocciose. Si cibava di carne cruda di animali da lui uccisi, di radici, di erbe e di foglie. Al contadinello che gli chiese che cosa mangiava, il gigante della Valle Aurina rispose con voce cavernosa: pece di mucca e cavallette, intendendo dire burro e camosci. Quando dormiva, russava talmente forte, che sembrava ci fosse il temporale; se inspirava, gli alberi si piegavano fino a toccar terra con la vetta; se espirava, li lanciava in aria come fruscelli. Desiderando accendere il fuoco, il gigante sradicava due piante resinose, le fregava due volte tra loro e le piante si accendevano. Teneva in mano, a mò di bastone, un robusto abete con le radici, che sostituiva di frequente; e in tale posa il gigante viene ancor oggi rappresentato. I giganti avevano raramente una famiglia. Vivevano in spelonche naturali o in antri fatti da loro stessi, spostando le rocce. Uscivano alla caccia di Salighe, le uccidevano e le facevano a pezzi. Taluni giganti invece, come il Canari e il Rotkropfl, le pigliavano e le tenevano prigioniere per goderne il bel canto. Le donne dei giganti si chiamavano «Fangga»; nelle loro rare leggende, appaiono sempre da sole. Se il marito era un divoratore di bambini, le gigantesse nascondevano il figlio neonato presso contadini, che lo allevavano e lo avviavano al lavoro dei campi. Sul Monte Muta, presso Castel Tirolo di Merano, viveva una famiglia di giganti. Un giorno la figlioletta discese quasi sino a valle e vide in un campo dei nani che lavoravano. Ne prese sei, quelli che più le piacevano, li mise nel grembiulino e tutta contenta li portò al padre… Bimba, bimba mia, che fai?, disse il gigante, scuotendo il capo. Sono contadini di Lagundo, sono ometti utili, molto utili! Rimettili nel grembiulino e riportali giù, dove li hai presi, senza far loro male! I giganti risalgono alla più remota civiltà pagana. Gli antichi tedeschi li chiamavano «risi». Oggi li chiamano «Riese». Estinto il ceppo antico dei giganti robustissimi e ignoranti, sorse la nuova erculea generazione, sempre più influenzata dalla civiltà. I bambini sottratti al padre antropofago ed affidati dalla madre ai contadini e da questi allevati ed educati secondo i tempi, vennero avviati ai grandi lavori di disboscamento e di bonifica dei monti, da trasformare in fertili colture. Fatti adulti, attesero alla costruzione dei castelli; cingevano corazza e spada, portavano sul capo una corona d'oro, esercitavano la magia. La leggenda dei giganti divenne un po’ alla volta quella dei cavalieri. Alcuni nomi leggendari: Jmir, capostipite di una progenie di giganti dei ghiacciai, Canari, Haimo, Haunold, Jochgrim, Jordan, Rax, Rotkröpfl, Schwarzegger, Serles, Starkwölfl, Tirsus, Titsch, Urhanns… e, nelle regioni retoromane, Orco (Ladinia e Trentino), Lorgg (Alta Val Venosta) e Norgg, da cui derivò Nörgelen, i nanetti del vino.
La diffusione del Cristianesimo ebbe una grande influenza sulla trasformazione della leggenda dei giganti primitivi in esseri più evoluti e nel mutamento dei cosiddetti «Wilde», essi pure giganti, in modesti abitatori di capanne, servizievoli verso i contadini, i quali durante la stagione rigida, davan loro di che sfamarsi: buoni con i buoni, vendicativi con i cattivi. Nel Tirolo il popolo non dice «Riese» (gigante), ma conserva ancor oggi il nome antico di «Wilde Mann» cioè «uomo selvaggio». Le leggende altoatesine ricordano ed attribuiscono ai giganti la costruzione delle chiesette di Santa Caterina alla Forcella e di San Virgilio sul Giogo. Poiché i giganti possedevano un martello solo, se lo scambiavano ogni sera, lanciandoselo da una montagna all'altra, al di là della Val d'Adige, in quel di Merano. Il gigante che costruì la chiesetta di Santa Caterina alla Forcella, edificò anche quella di San Giacomo di Lavena (San Genesio). La leggenda attribuisce al gigante della Val Senales la costruzione della chiesetta di San Procolo, a Naturno. Si racconta pure che il gigante portò da Sesto le otto colonne di pietra che sostengono il Duomo di San Candido, in Val Pusteria. Si dice che avesse un appetito formidabile, se è vero che mangiava ogni giorno un vitello e uno staio di fagioli. Tra Funes e Pontives, in località Flitz, i giganti avevano costruito un castello, che abbandonavano durante l'inverno, quando discendevano in valle, presso contadini generosi. Nelle grotte dei monti di Tires furono scoperti resti di mobili, piedi di tavoli, di sedie e di letti, che la fantasia popolare attribuì ai giganti.
I giganti delle Valli Badia e Marebbe sono comunemente chiamati «Salvani» e le loro mogli «Ganne» o «Gane», cari e ancor vivi nella fantasia dei ladini e nella toponomasia locale. Abitavano in comunità nelle grotte del loro «Sasso della Croce», non parlavano mai e si esprimevano emettendo suoni gutturali. I Salvani ricordano il culto pagano di Silvanus, importato dalle legioni e dai colonizzatori romani; le Ganne risalgono alla celtica vergine Ganna, ricordata dall'antico storico romano Dione Cassio (II-III secolo d.C.) come fanciulla divinizzata. Con altri caratteri si avvicinano ai Salvani ed alle Ganne della Ladinia i «Pantegani e le Pantegane» di La Valle, in Badia, i «Vivani e le Vivene» della Val di Fassa, nonché i «Bregostani e le Bregostene», terribili nemici dei valligiani. Figure affini sono pure le «Anguane» del Cadore, dal volto di donna e dai piedi caprini, e le «Agane» del Friuli, che con il loro canto melodioso, attirano gli uomini nelle grotte.
I ladini di tutte le Valli serbano il ricordo dei miti antichi. Le figure create dalla loro ingenua fantasia, popolano ancora rocce, boschi e corsi d'acqua; sono inserite nei racconti e nelle canzoni, e vengono tuttora ricordate, assieme al leggendario «Gran Bracum», nei dipinti esistenti nell'Albergo Cappella di Colfosco e in alcune case avite signorili della Val Badia e di Marebbe
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Le salighe
Altipiano di Verano (BZ)
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Sull'Alpe di Verano, là dove il magro pascolo già dirada il suo verde e le scarse zolle erbose si ornano di qualche solitaria stella alpina, vivevano, una volta, le Salighe. Erano, le Salighe, fanciulle misteriose che abitavano tra rocce e dirupi, entro grotte tappezzate di muschio e di borraccina. La montagna era il loro regno. Salighe, quale strano nome! I vecchi montanari del luogo le chiamavano anche Salighe Fräulein, Salighe Dirnen, ma chi fossero, donde venissero, nessuno lo seppe mai. Amavano, le Salighe, la serena solitudine, i vasti silenzi dell'Alpe e solo di rado esse lasciavano le loro pietrose dimore per scendere fino all'abitato. Erano gentili, affabili, le solitarie fate della montagna, e i montanari le trattavano con grande rispetto e le accoglievano volentieri nelle loro case. E dove esse entravano, entrava la benedizione, il benessere, giacchè le Salighe sapevano ricambiare assai generosamente il dono dell'ospitalità. Così, una di esse, una volta, donò ad una povera donna un pane che non si consumava mai, ed un'altra regalò ad una sua protetta un gomitolo prodigioso, del quale non si vedeva mai la fine. Erano davvero generose, le Salighe, ma guai ad indispettirle; si vendicavano, e come! State a sentire. Viveva a Verano un contadino molto ricco, che aveva il più bel maso del paese, una stalla piena di mucche e campagna in quantità. Le sue terre erano le più belle dell'altipiano, rispettate dal gelo, dalla grandine, dalla siccità, bagnate dalla pioggia a tempo giusto ed in buona misura: una terra benedetta. Bisognava vedere al tempo del raccolto! Staia e staia di grano, d'orzo, di segale si accumulavano nel capace granaio, mentre il fienile a stento poteva contenere le carrate di fieno che giungevano, odorose di timo e di menta, dai prati vicini e lontani. Ma questo non è tutto: sacchi e sacchi di bei talleri d'argento egli possedeva. Un vero tesoro! E il tesoro aumentava, cresceva, perché gli affari del fortunato contadino del maso Egger andavano, come si suol dire, a gonfie vele. Spesso venivano al maso due Salighe. Erano giovani, bionde, leggiadre; con la loro grazia, con il loro bel fare, si erano conquistate ben presto la simpatia della numerosa famiglia del contadino. La padrona, poi, le considerava la benedizione della casa, tanto era il bene ch'esse vi avevano portato. Alla sera, finiti i lavori, le due giovani Salighe si ritiravano in un canto in un canto della «Stube» ed aspettavano che la serva tornasse dalla stalla col latte appena munto. Di latte fresco erano ghiotte le fanciulle e, avide, appressavano le labbra al secchio, bevendo gelosamente il latte ancora tiepido e schiumoso. Una sera, come il solito, finiti i lavori, le due Salighe entrarono nella «Stube». La serva stava scremando il latte e versava la panna nella zangola. Svelte, le due giovinette, portarono alla bocca il recipiente e … glu, glu, glu, presero a sorbire a lunghe sorsate la panna dolce e densa. Com'era buona! Sapeva di tutti gli aromi, di tutti i profumi della montagna. Ancora un sorso, un sorso solo; sembrava che non sapessero più staccarsi dalla zangola, le due ghiottoncelle. D'un tratto sollevarono il capo: sulla soglia, scuro in viso, era apparso il contadino. Di colpo le due fanciulle lasciarono la zangora e strettero mute, con gli occhi fissi a terra, non osando sostenere lo sguardo irato del contadino. «Tutta quella panna, tutta quella panna - dicevano quegli occhi minacciosi - è troppo! Me la pagherete». D'improvviso l'uomo divenne torvo, trasse di tasca un coltello e fece l'atto di scagliarsi sulle inermi creature. Un grido di terrore risuonò nella stanza; per buona sorte il colpo fallì e le due poverine, guadagnata la porta, fuggirono lontane, nella notte. Passò del tempo; al maso Egger qualcosa non andava. Si lavorava come prima, forse più di prima, ma la terra non rendeva più come una volta. Un anno la siccità bruciava il foraggio, un anno la grandine distruggeva il raccolto o la moria decimava il bestiame; non passava stagione che non si dovesse lamentare qualche danno. Gli affari andavano di male in peggio e il mucchio dei bei talleri d'argento scemava, scemava… Tutto andava male al maso Egger. Un po’ alla volta il contadino perdette tutti i suoi beni e si ridusse povero, povero, a vivere d'elemosina. Della primitiva ricchezza non gli rimase che il ricordo, uno struggente ed amaro ricordo che divenne, col tempo, unico compagno della sua triste e stentata esistenza.
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Il Folletto che culla il bambino
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Il Folletto che culla il bambino
Caldaro (BZ)
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A San Rocco, un angolino di terra poco lontano da Caldaro, c'era, una volta, un mulino. Il mulino era vecchio, vecchio, i muri mostravano le nude pietre e il tetto di paglia, annerito dal sole e dalle intemperie, era tutto tappezzato di verdi chiazze di muschio. Ma pur così misera, la casa non era triste. La rallegrava tutta il gaio moto dell'enorme ruota e il gioco sempre nuovo dell'acqua che, cadendo fra le pale, si disperdeva in mille spruzzi vaporosi, in miriadi di goccioline d'argento. Nel mulino abitava un giovane mugnaio. Egli amava la povera casa in cui era nato e vissuto e l'amava ancor più, da quando vi aveva condotto la giovane sposa e vi era nato il suo primo figlio, il biondo e roseo Simml. Dal padre, mugnaio, aveva ereditato la casa, il mestiere e la buona volontà di lavorare. La giornata era sempre troppo breve per lui, tutto preso dal lavoro, tra il familiare rumore delle macine e il candido spolverio della farina. Spesso veniva al mulino uno strano visitatore. Era costui un omino, né vecchio né giovane, piuttosto brutto, con due occhi piccoli, neri, lucenti come capocchie di spillo. Aveva modi simpatici e garbati, era allegro e servizievole. Nessuno sapeva nulla di lui: né come si chiamasse, né donde venisse. Volentieri egli s'intratteneva al mulino, dove trovava sempre il modo di rendersi utile con qualche modesto servizio. Al mugnaio non sembrò vero d'aver trovato tanta perla d'uomo, e, felice, lo accolse come amico in casa sua. Pronto, cortese, l'omino sembrava voler dimostrare con la sua condotta la più viva riconoscenza verso colui che lo ospitava. Si prodigava in mille modi e, dove c'era da dare una mano, non mancava mai. Grande era la sua gioia, quando poteva avvicinarsi alla culla del piccolo Simml: lo vezzeggiava, lo cullava, cantandogli in sordina dolci ninnenanne. Ma un brutto giorno, chissà perché, l'omino mutò umore e comportamento: divenne lunatico, bizzoso, intrattabile e cominciò a far dispetti e cattiverie d'ogni genere. Anche col bimbo non era più quello di prima: lo lasciava piangere e strillare e, quando lo cullava, lo faceva con tanta malgrazia, da rovesciare quasi la culla. Non c'era più pace al mulino. Una volta il mugnaio al colmo dell'esasperazione, rimproverò aspramente l'omino, tentando di metterlo alla porta. Non l'avesse mai fatto! Scattò, il perfido, come un serpentello: con gli occhi foschi di odio, furente d'ira gli si avventò contro lanciandogli in viso un'insultante risata. La sghignazzata orrenda riempì, per un attimo, la casa. Era una sfida? Una minaccia? Il mugnaio comprese che così non poteva durare: la sua famiglia, la sua casa erano in pericolo. Che fare? Senza frapporre indugio, egli si recò dal parroco di Caldaro e al venerando sacerdote espose i suoi crucci e chiese aiuto. Il vecchio parroco capì subito di che si trattava. «Figlio mio - gli disse - a quanto pare, tu hai a che fare con uno di quegli spiriti malvagi, che cercano con ogni mezzo d'introdursi nelle case per molestare e recar danno alla gente. Ma non perderti d'animo - soggiunse l'accorto sacerdote - ora t'insegnerò il modo di ridurre all'impotenza lo spiritello.» «Ascolta: appena tornato a casa, tu affronterai l'omino con queste parole: "Tutti gli spiriti buoni adorano Dio, il Signore. Qual è il tuo desiderio? Parla affinchè ti comprenda!".» «Si calmo e deciso - concluse il parroco, congelando il giovane - e tutto andrà per il meglio!». Rinfrancato, di buon umore, il mugnaio s'avvio verso San Rocco. Lungo il cammino, cento volte fece e rifece i suoi piani di battaglia: come, quando, avrebbe affrontato l'astuto folletto? L'ansia di arrivare presto gli faceva divorare la strada. Il sentiero s'internava fra campi e vigneti; qua e là al piano e sul pendio qualche maso. Più lontano, accovacciato tra il verde, gli apparve presto il caro, vecchio mulino. Raggiunse la casa di corsa. «Eccomi arrivato» - disse tra sé l'uomo ansante e trafelato. Aprì la porta della «Stube» e si arrestò sulla soglia. Là, nel solito angolo, col viso aggrondato, lo sguardo cattivo, l'omino stava cullando il bambino. Le piccole mani adunche spingevano forte, sempre più forte la fragile culla. La zana oscillava, pencolava or di qua or di là; ancora una spinta, una spinta sola e si sarebbe rovesciata. Tremò il mugnaio per la vita del suo piccino e, sconvolto dall'ira, si slanciò addosso al folletto, urlandogli sul viso le poche parole che, nell'agitazione del momento, ancora ricordava… «parla forte ch'io ti comprenda!». L'omino, stretto nella morsa di quelle due mani che lo stritolavano, si dibatteva, urlava furiosamente. D'un tratto riuscì a liberarsi dalla stretta e ratto come il fulmine infilò la porta di casa. E il mugnaio dietro … Ma buon per lui che s'arrestò sotto la gronda: guai se avesse oltrepassato quel termine! Il folletto l'avrebbe trascinato lontano, lontano e crudelmente dilaniato. Ma là, sotto la protettrice ala del tetto, il mugnaio era al sicuro da ogni maleficio. Fuggì lontano il folletto, né più tornò a turbare la serena pace del mulino.
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La cintura stregata
Caldaro (BZ)
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Poco sopra Caldaro, quasi a prolungamento di quell'abitato, verso la montagna, sorge Sant'Antonio, un gruppo di case adagiate sul dolce pendio ed esposte alla benefica carezza del sole. Il 13 giugno si celebra, in quel paesello, la festa del Patrono: si impartisce la benedizione ai bambini, e moltissimi devoti, provenienti da tutti i paesi delle valli vicine, vi si recano in pellegrinaggio. Appunto in quel giorno si verificò il fatto straordinario che sto per narrare. In un maso poco fuori di Sant'Antonio, abitava, molti anni fa, una giovane donna, tanto bella quanto misteriosa, che per la sua ineguagliabile liberalità, era da tutti conosciuta ed amata. Eppure, sotto tanta vistosa generosità, si celava l'animo più perfido che si possa immaginare. Molte sventure martoriavano e affliggevano gli abitanti della vallata: ma chi avrebbe potuto immaginare che quei mali erano il funesto prodotto delle arti malefiche di quella donna, in apparenza tanto magnanima e caritatevole? Nel giorno della festa del Patrono, dunque, in un anno imprecisato di quell'epoca lontana, due contadinelle di San Michele Appiano si recarono, come tanti altri fedeli, in pellegrinaggio a Sant'Antonio. Al ritorno, passarono davanti al maso della donna, che si mostrava in sembianze amichevoli, e furono invitate ad entrare e a far merenda con lei. Sulla tavola vennero portati i cibi più squisiti della zona, e le due semplici creature, dopo aver fatto onore alla ricca imbandigione, si alzarono con la mente avvolta da una piacevole ebbrezza e con l'animo disposto a tutte le cortesie. Di questa favorevole disposizione trasse subito profitto la falsa amica, per chiedere alle malcapitate ospiti qualcosa, che in una situazione normale sarebbe apparsa troppo strana. Consegnò loro una cintura di colore sanguigno assai lunga e veramente meravigliosa, affermando che voleva farne dono agli abitanti di San Michele: era un oggetto dotato di straordinarie virtù contro tutti i malanni, sempre che fosse usato come la generosa donatrice avrebbe indicato. Appena giunse al paese, le due ragazze avrebbero dovuto salire sul campanile, senza farsi notare da nessuno, per avvolgere la stupenda cintura intorno alla campagna, che suonava ogni volta che si avvicinava un temporale. La donna insistette molto sul particolare della segretezza: e le due fanciulle, forse per effetto del generoso vino trangugiato, non trovarono straordinaria la cosa: anzi, ringraziarono l'amica, assicurandola che avrebbero fatto puntualmente quanto lei desiderava. Strada facendo, oppresse dal caldo e dal languore prodotto dai fumi del vino, le ragazze sedettero sotto un grande melo, per riposarsi: ma inavvertitamente si addormentarono. Fu un sonno breve, ma sufficiente per fare svanire dalle loro menti la confusione e l'incertezza. Raschiatesi le idee, le misteriose parole della donna tornarono loro in testa con chiarezza: «Appena giunte a San Michele, salite sul campanile, senza farvi notare da nessuno, e con le vostre mani cingete la cintura intorno alla campana. Vi raccomando, però, non fate parola ad anima viva». Perché, dunque, tanto mistero? Si guardarono mute, timorose: poi una di loro trasse la cintura dal sacco in cui era stata riposta e la distese per terra: dalla fascia rossastra si sprigionava un tale sfolgorio, che gli occhi ne erano abbagliati, come quando si tenta di fissare il disco solare. «La nostra campana sarà stupenda, con questo straordinario ornamento!». L'altra taceva pensierosa. «Se provassimo ad avvolgerla intorno a questo melo, per vederne l'effetto?», soggiunse la prima, con voce fioca e piena di trepidazione. Detto fatto. Fu un effetto spaventoso, che riempì di sgomento le due ragazze, spingendole l'una verso l'altra, in un abbraccio disperato. Subito dopo avere avvolto la cintura intorno al tronco, questo, con uno schianto pauroso, si squarciò per tutta la sua lunghezza, come se la lama infuocata di un fulmine lo avesse colpito in pieno. Della cintura non c'era più traccia. Il diabolico oggetto era scomparso con un lampo accecante. Pallide per lo spavento, le due contadinelle si guardarono inorridite, pensando al tragico evento di cui avrebbero potuto essere la causa, sia pure involontaria. Allora corsero disperatamente verso casa, decise a non dir nulla dell'accaduto, per paura della vendetta della strega. Ma il loro pallore, il tremito che ancora le faceva apparire in preda ad un gran turbamento, le parole mozze e incerte che pronunciava finirono col tradirle. E, sotto le domande incalzanti dei familiari, rivelarono infine ogni cosa. La notizia del terribile prodigio passò rapida di bocca in bocca, e in breve ne fu piena tutta la vallata. E allora i valligiani compresero chi era stata l'origine dei loro mali. Subito alcuni di essi, più coraggiosi e decisi degli altri, armatisi di falci e di tridenti, corsero verso il maso della donna infernale, per fare vendetta. Ma una terribile sorpresa li attendeva: entrati, con la furia dell'uragano, nella casa della strega, decisi ad ucciderla, la trovarono ritta in mezzo alla stanza, con gli occhi fiammeggianti e in atto di sfida. Dopo un momento di esitazione, fecero per lanciarsi su di lei: ma la strega, con un urlo agghiaggiante, si tramutò in un gigantesco pipistrello nero, orribile a vedersi, che emetteva dalla bocca fiotti di fuoco e di fumo. Prima che potessero riaversi dallo sgomento, i contadini videro l'immondo animale prendere il volo, e passando attraverso la finestra, allontanarsi nell'aria e scomparire al di là della Mendola, lasciandosi dietro una scia fumosa. Nello stesso tempo dall'interno della casa si sprigionarono grandi vampate di fuoco, che costrinsero i contadini a precipitarsi all'aperto, da dove poterono assistere alla completa distruzione del maso maledetto, di cui non rimase che un mucchio di cenere rossastra. In quello stesso luogo nacque, a quanto si dice, un grande rovo spinoso, dalle aride foglie striate di nero e di rosso, che continuò persistentemente a rinascere e a rigogliare, sebbene fosse stato più volte estirpato fin dalle radici più profonde
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